Semifinale Giovanni Lucchese

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il due gennaio sveleremo il tema deciso da Alberto Buchi. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Alberto Buchi assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#1 » lunedì 5 febbraio 2018, 23:11



Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Fuoco Fatuo.
In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti del girone Giovanni Lucchese hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi Eugene Fitzherbert, Roberto Masini e Wladimiro Borchi possono sfruttare i due giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: mercoledì 7 febbraio alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 07 febbraio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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roberto.masini
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Re: Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#2 » martedì 6 febbraio 2018, 0:14

Chi è Andrea Montalbò?

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Wladimiro Borchi
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Re: Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#3 » martedì 6 febbraio 2018, 13:39

Wladimiro Borchi ha scritto:Sesso.
Che cazzo è? Solo una cura per le nevrosi e nient’altro. Afferrarsi e stringersi per darsi vicendevolmente una mano a ingoiare la solita merda quotidiana. Simulare orgasmi per dimenticare o, almeno, per cacciare i brutti ricordi. Per provare invano ad affievolire quell’immagine indelebile, incollata a forza nella nostra mente, appiccicata all’anima. Quel groppo alla base della gola che non riesci a far scendere nemmeno bevendo il nettare di un dio. Quel ricordo di morte che resta avvinto alla retina, anche se provi a fissare le iridi nel sole più luminoso.

Il gregge belava la sua litania poco fuori la porta della nostra villetta. Sabrina girava, come sempre, attorno al tavolo della cucina, nella quotidiana ricerca di sprazzi di normalità ormai dimenticati da mesi. Quanto a me, volevo solo del cibo caldo per la nostra Sibilla. Per quel dolcissimo frugoletto che, ormai, era la nostra unica ragione di vita.

Te lo ricordi, Sabrina, com’era dolce la nostra piccola col vestito da fatina, alla recita scolastica. Era una tua creazione, un lenzuolo candido del suo lettino, tagliato in due e cucito ai lati. Solo due fori per le sue braccette paffute e un cordino dorato legato in vita. Sembrava un angelo. Pensa al nostro angioletto, al nostro capolavoro, pensa a noi due avvinghiati in questo amplesso, tieni lontani i pensieri cattivi.

Aveva fame la nostra bambina. Solo per quel motivo mi sono preso la briga di uscire. Una breve caccia e sarei tornato con il necessario per nutrire la mia famiglia. L’avevo fatto migliaia di volte e non era successo nulla. Non mi ero accorto che mi avesse seguito, con indosso il vestito della recita.

Eccolo che torna il ricordo! Vigliacco, assassino, violento e schifoso. Spegni il cervello, concentrati sulle tette morbide e cadenti di tua moglie. Pensa a quando erano sode e dure come mele acerbe. Accarezza il culo fatto di grinze e rammentalo rotondo, liscio e sodo. Sabrina mi piace ancora. Nonostante il tempo, nonostante tutto.

«Tu mi capisci!»
Sì! Era vero! Forse era quello il motivo che aveva portato quella splendida ragazza, molti anni prima, a preferirmi nell’orda dei mille spasimanti.
«Si! Io ti capisco, Sabrina!»
Ma solo perché non esiste niente di più facile. Perché quando vuoi noleggiare un DVD e fai finta di far scegliere me, quello che preferisci lo tieni sempre in alto nella mano destra e quello che non ti piace in basso nella sinistra.
Solo un figlio di puttana egoista non lo capirebbe.
Come eri bella allora, con i capelli lunghi biondi, raccolti in una lunga coda e gli occhi azzurri e luminosi.


Sei stupenda anche adesso, con gli occhi spenti, mentre la tua schiena si inarca all’indietro per consentire a questa mia erezione, ormai assai poco virtuosa, di entrare dentro di te. Sento il tuo piacere, che si diffonde attorno alle mie orecchie in sospiri soffocati. Sto per venire, ma resisto, voglio farti godere il più a lungo possibile, come quando eravamo giovani e spensierati. Quando ancora eravamo felici. O, forse, non è niente. Forse percepisco solo il ricordo, l’idea pura di un passato. Quello che non può più tornare.

Quel colpo di fucile ci ha rubato tutto, facendo esplodere in un fiore rosso il visino più dolce che il sole avesse mai avuto l’onore di illuminare.
A pochi passi dalla porta di casa c’è ancora il suo sangue. L’ho provato a pulire, ma non viene via. Non si stacca. Resta invischiato, come quella terribile immagine nella testa, quella del momento in cui il mondo stesso è finito. Quando tutto ha perso di senso. Quando le lacrime di un padre e di una madre hanno bagnato i petali aperti di quella florescenza vermiglia, che aveva preso il posto della testa della loro bambina.


Le greggi non hanno pietà. Se ne vanno di casa in casa a distribuire la morte, come se fosse un loro dovere. Come se fosse una medicina da diffondere per il bene dell’umanità. Questa è l’unica cura che hanno saputo inventarsi con la loro illuminata saggezza.

Ho ucciso il bastardo con le mie mani. Non mi aveva visto! Ero alle sue spalle quando ha sparato verso casa mia. Rideva. Era venuto da solo. Si sentiva sicuro. Con una mano ho afferrato il suo fucile da dietro e con l’altra gli ho strappato un bel pezzo di carne dal collo.
L’ho visto a terra che si contorceva, che urlava, che sanguinava come un maiale.
Ma non è servito a niente!
Come non è servito farlo a pezzi assieme a mia moglie. Nemmeno quando ho assaporato la sua carne viva, strappandola con i denti dal suo addome, mentre ancora gemeva come una puttana.


Non pensarci! Porta la mente altrove, angelo mio. Siamo solo io e te. Un momento per noi. Uno sprazzo di luce nel buio, in ricordo dei vecchi tempi.

Anche Sabrina avrà pensieri perfetti come i miei? A vederci la gente non lo direbbe mai.
Da quando abbiamo contratto il morbo non riusciamo più a parlare, qualsiasi parola si trasforma in un lamento, un ululato sordo a bocca spalancata, che sembra provenire dalle più remote profondità infernali. La rigidità che ha invaso i nostri muscoli ci fa camminare in modo buffo e ridicolo e abbiamo fame. Fame di roba viva: animali o persone che siano. La prima ad ammalarsi è stata proprio Sibilla. Povero piccolo angioletto. Ho dovuto piangere la sua morte due volte. La prima volta è stata un’infezione alle vie urinarie che non abbiamo potuto curare, chiusi in questa casa senza antibiotici. E’ stata forte e coraggiosa, ci ha chiesto il suo vestitino da fata e si è addormentata, con la febbre che la faceva scottare come la morsa incandescente che si stringeva attorno ai nostri cuori.


Non mi sono mai sentito più inutile.

Poi il suo respiro è cessato. È diventata fredda tra le nostre braccia. Accompagnata nella morte dalle nostre urla di disperazione, mentre, assieme al suo corpicino, tutto diventava gelido e buio.

Non l’avevamo persa davvero! Ricordi, Sabrina?
Avvinghiati a me con le gambe, amore mio! Fammi sentire che mi desideri, altrimenti tornano i ricordi. Quelli estratti dalla fogna più lurida della nostra vita, ancora grondanti letame. Dammi miele e zucchero per ricoprirli, dammi rose e fiori di pesco per cancellarne anche l’odore.

Non l’avevamo persa davvero, la nostra dolce fatina. Quando si è risvegliata è stata una gioia immensa. Ha morso sua madre, sul collo, recidendole la giugulare e portandola alla morte in pochi secondi. Ma lo ha fatto perché aveva fame, piccolina. Aveva solo tanta fame.

Mi avevate lasciato! Tutte e due. Allora non capivo. Non sapevo che eravate soltanto un po’ cambiate. Ma c’eravate. Almeno allora, prima che quel fucile vigliacco sparasse sulla soglia di casa, c’eravate tutte e due.

Io mi sono limitato ad addormentarmi, dopo essermi tagliato i polsi. Al mio risveglio moglie e figlia mi avevano scavato una bella buca nell’addome con i denti. Ma almeno ero servito a sfamarle un po’.

Ti trovo bella, amore mio, anche se la decomposizione ha reso la tua pelle, una volta candida, di un curioso marrone chiaro, e le tue labbra, una volta dolci e carnose, si sono ritratte per lasciare scoperti i denti. Ti amo e voglio restarti accanto, anche se i tuoi lunghi capelli biondi sono diventati bianchi e secchi e devo accarezzarli con particolare dolcezza, per evitare che mi rimangano attaccati alle dita e vengano via a ciocche.
Mi sa che abbiamo esagerato. Il mio coso si è staccato. Non credo sia colpa tua, doveva succedere! Così impariamo a stuzzicare le parti delicate. Sono le prime ad abbandonare il tuo corpo, se ti ci trastulli troppo. Ti ricordi quando il mio orecchio si impigliò alla finestra?
Poco male, il mio sesso resterà dentro di te per sempre, a simboleggiare l’unione indissolubile delle nostre anime. Quanto mi mancherà, però, poterti far sentire donna, come una volta!

Ci sono dei rumori oltre la nostra soglia.
Altre greggi da divorare. Altri assassini su cui sfamare le nostre ansie di vendetta.

Brava. Anche tu hai capito! Anche tu hai i miei stessi pensieri perfetti. Se quei bastardi assassini solo sapessero!

Nascondiamoci dietro la porta, li prenderemo alle spalle e non servirà a niente la viltà crudele delle loro armi.
Sì, lo so, a te lascio le parti più morbide, non importa che digrigni i denti per ricordarmi tutti quelli che ti sono caduti. Lo sai! Io ti capisco, Sabrina!


Wladimiro Borchi
IMBUTO!!!

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Eugene Fitzherbert
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Re: Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#4 » martedì 6 febbraio 2018, 22:04

Penombra
Di Eugene Fitzherbert


1.
Carlo si trovava nel suo appartamento, di fronte alla porta d’ingresso. Vedeva tutto in penombra. Alla sua destra c’era un mobile con uno specchio e un telefono fisso posato su una pila di dépliant. Dall'altra parte si apriva il salotto, con divano e parete attrezzata. Lo riconosceva ma allo stesso tempo gli sembrava alieno. Il suo riflesso mostrava la testa, rasata con un accenno di ricrescita, incompleta, non proprio tonda, ma tagliata a destra, concava, come se sotto il cuoio capelluto mancasse un pezzo di osso. Stava per tastarsi, quando una voce lo raggiunse.
«Amore, sei in salotto? Credevo stessi dormendo!» Lui fece quasi fatica a riconoscere la donna che aveva di fronte. «Carlo, che ci fai lì? Hai avuto un altro dei tuoi blackout? Vai a dormire. Sarai stanco dopo tutto quello che hai passato.»
«Chi sei?»
«Sono Sarah, tua moglie.» Sarah piegò la testa di lato, come se volesse venire a patti con quella realtà. «sarà un’altra delle tue amnesie. Ti ricordi cosa è successo?»
Silenzio.
Lei riprese: «Siamo tornati qualche giorno fa dall’ospedale. Sei stato operato al cervello per un tumore.»
Carlo si portò istintivamente la mano alla testa deforme.
«Sì, esatto: era attaccato all’osso e te l’hanno asportato. La chiamano craniolacunìa. Un nome bellissimo, per indicare qualcosa di terribile. E non toccarti, sotto quella pelle c’è il cervello.»
Le parole di Sarah gli fecero tornare in mente la degenza, la dimissione e il ritorno a casa. Oltre alla craniolacunìa, anche la visione alterata cominciò ad avere senso. «Ecco perché è tutto buio, qui.» disse Carlo.
«Esatto! Il neurochirurgo ha spiegato che avresti visto oscurato, come in penombra. L’ha chiamata…»
«Likofopsia» Aveva cominciato a ricordare. Certo, le notizie non erano delle migliori, ma essere vivo era pur sempre una vittoria. Si protese verso sua moglie per abbracciarla. Lei sembrò quasi sorpresa, poi si lasciò afferrare. Carlo aprì gli occhi per guardare nello specchio l’immagine di loro due intrecciati, la sua testa appoggiata sulla spalla di lei. Forse per likofopsia, sembrava che i capelli di Sara fossero fatti di scaglie e la pelle del collo verdastra e lucida di muco.
Quella che aveva di fronte era invece la donna di sempre, un po’ più stanca, provata, ma Sarah in tutto e per tutto.
Lo sguardo di Carlo cadde sul mobiletto del telefono. Il dépliant in cima era una pubblicità della Cozy Airways, una compagnia aerea low cost. Qualcuno aveva cerchiato il numero verde e l’aveva corretto: 800-EXORC. «Che cos’è questo? Dovevamo partire?»
«Sì, era una tua idea.» Sarah gli sorrise mestamente. «Andiamo a letto.»

Carlo non riusciva a dormire perché temeva di risvegliarsi e non ricordare niente, provare la frustrazione di non essere pienamente presente. Guardò sua moglie girata di spalle, che dormiva. Sorrise, pensando a lei, a come lo stava aiutando, anche se quei pensieri gli provocavano una sensazione dolceamara e sgradevole, come se fossero contraffatti.
Le osservò la nuca, i particolari rabbuiati dalla likofopsia. Stava per allungare la mano per accarezzarla, quando tra i capelli si aprì un occhio verde, brillante, che lo scrutò. La pupilla si contrasse per metterlo a fuoco e in quel momento Carlo sentì una fitta, là dove non aveva l’osso, seguita da una sensazione di qualcosa che grattasse sotto la pelle. Si toccò e sentì una forma muoversi, spingere, cercare di uscire.
Poi fu il buio.

I Interludio – Dolore
Carlo aprì lentamente gli occhi. Fu travolto da una luce glaciale. Cercò di parlare, ma la bocca era piena di oggetti infilati in gola, in profondità. La nausea e l’idea di non respirare si aggiunsero al panico.
Un dolore lancinante partì dal suo capezzolo sinistro. Piegò il braccio per scansare la causa di tutto quel male. Dai rumori intorno a lui capì di trovarsi in un letto d’ospedale.
«È finalistico al dolore. È qualcosa.» Una voce indistinta, maschile, colui che lo stava torturando.
Dolore anche all’altro capezzolo. «Anche a destra.»
«Come sono le pupille?» Parlò una donna.
Un paio di dita gli afferrarono le palpebre e le gliele tirarono su, mentre lui cercava di tenerle serrate. Ancora la luce fredda, quasi nociva. Vide il soffitto sopra di lui e poi, incombenti, i volti dei due medici, un uomo e una donna, che lo fissavano.
La dottoressa: «È isocorico.»
Procedettero a puntargli una luce direttamente negli occhi, prima da una parte poi dall’altra. Si sentiva bruciare il cervello.
«Si sta svegliando.» avvertì il dottore. «Carlo! Mi senti? Sono il dottore Di Biasi, ti trovi in terapia intensiva. Prova a stringere la mano!» E senza neanche aspettare un cenno, Di Biasi gli prese la mano e attese che lui la stringesse. «Avanti! Fai vedere alla dottoressa Alimondi come si fa!»
Li stava odiando. Per farli smettere, provò a stringere.
E ci riuscì. «Bravo!» Poi rivolgendosi ad Alimondi: «Visto, risponde ad ordini semplici. Mi pare che vada bene.» E gli lasciò la mano.
«TAC nel primo pomeriggio e poi lo rivalutiamo. La ferita è troppo umida, medicatela ogni tre ore.»
«Perfetto. Rimettete sedazione. Mi scrivi qualcosa in cartella?»
Una calma artificiale e profonda scese su di lui, facendo sparire il dolore.


2.
«Ti vedo depresso.» disse Sarah, a colazione.
Lui guardò la sua tazza di latte, prima di rispondere. «Un incubo. Ieri ho sognato di essere ancora in ospedale. Mi visitavano, avevo male e la luce mi accecava.»
«Tesoro, sei passato attraverso un inferno. Io ero lì con te e so che è stato terribile, ma non farti sopraffare.»
«Hai ragione. Saranno gli strascichi del ricovero.»
«Lo capisco. Secondo me, è come se una parte di te fosse ancora intrappolata in quell’ambiente terribile.»
Carlo ci pensò: l’incubo era così vivido, le sensazioni così reali, che davvero una parte di lui era ancora intrappolata in ospedale. «Che ne dici se ci facciamo un giro, stamattina?»
Lei sembrò spaventata. «No, no, non puoi uscire. Il dottore è stato tassativo.»
Sarah si accorse della sua espressione delusa. Gli sorrise. «Capisco che devi tirarti su, ma non possiamo uscire. Ho un’idea migliore. Il dottore mi ha dato il permesso. Ti va?»
«Cos’è?»
«Vedrai. Una cosa che ti piaceva tanto fare a prima mattina.» E si diresse verso la camera da letto…
Nonostante la piega incredibile che stavano prendendo gli eventi, Carlo riuscì a sorridere al pensiero di quello che l’attendeva. Non aveva alcuna memoria di precedenti ‘incontri’ con sua moglie, ma alla fine non poteva che essere bello. Per un momento, gli incubi, la craniolacunìa e la likofopsia sembrarono poco importanti. Anzi, stava per fare sesso e il buio creava atmosfera.

Con sua sorpresa, si accorse di essere molto ricettivo: per quanto venga manipolato, il cervello di un maschio risponde sempre a certi stimoli.
«Tu non puoi fare sforzi. Faccio tutto io.» Così aveva esordito la donna, ed era stata di parola. Ora era a cavalcioni su di lui, e lo stava guidando in una nuova forma di paradiso. Carlo chiuse gli occhi, cercando la calma che tanto agognava. Sollevò la mano verso il seno di Sarah. Lo trovò, umido di sudore e lo strizzò appena, ricordando Di Biasi che gli chiedeva di stringere la mano. Avvertì una sgradevole sensazione di cedevolezza, le dita quasi scivolarono sulla pelle, come se il seno all’improvviso si fosse sbucciato.
Spalancò gli occhi e si ritrovò addosso il corpo macilento di Sarah che si muoveva sgocciolando muco e liquidi indefinibili. La pelle era livida e striata da macchie rossastre, la carne dilaniata dalla decomposizione. Gli posò le mani sul petto. Le dita di lei si strinsero nell’impeto di un orgasmo, affondarono nella pelle, e le unghie si spezzarono e si staccarono, molli e nerastre.
Carlo cercò di divincolarsi, ma lei era più in forze e lo teneva bloccato nel letto. Le mise le mani sulle spalle e si accorse che anche la sua carne si stava devastando, perdendo pezzi, raggrinzendosi e decomponendosi. Sarah urlò, volgendo la testa al soffitto, e la mandibola con un crack si fratturò e rimase penzolante mentre la lingua sporgeva scura come un mollusco marcio. Carlo riuscì a scalzare Sarah, e si allontanò da quel mostro. Nonostante l’oscurità perenne in cui viveva, vide gli occhi di lei brillare di una luce verde quasi soprannaturale, omicida.
Lui si lanciò giù dal letto e cadde a terra, cercando di coprirsi la testa con le braccia.
«Ma che cazzo fai?» urlò Sarah. «Lo sai che potresti morire?»
Carlo si mise seduto. «Io… non so, avrò avuto un’allucinazione, eri diversa. Non so che dirti.»
Oltre il groviglio di lenzuola, lei era normale, con i capelli rossi un po’ appiccicaticci per il sudore, il respiro affannoso per lo spavento, lo sguardo terrorizzato e incazzato allo stesso tempo. «Non preoccuparti. Riposati un po’.» Fu la sua unica risposta.
L’aiutò a rimettersi a letto, e poi uscì fuori dalla stanza. Lui per un attimo rivide i segni della Morte sul suo corpo, ma fu per un battito di ciglia, forse a causa della likofopsia.
Stava per addormentarsi, e ancora una volta sentì dentro la sua testa qualcosa grattare e dimenarsi, come se sotto il cuoio capelluto qualcosa di vivo cercasse di uscire.

II Interludio – Sangue
Riaprì gli occhi nella luce accecante. Il saporaccio metallico del sangue si mischiò con i rumori scampanellanti di mille allarmi intorno a lui. Avvertì la concitazione che lo circondava.
La voce di Di Biasi lo raggiunse: «Che roba è quella che gli esce dalla ferita?»
Alimondi era altrettanto perplessa: «Non ne ho idea. Ricopritela e comprimete! Sta cominciando a sanguinare. Se non lo operiamo subito, questo ci lascia le penne. Chiamate i parenti e avvertite che sta peggiorando.»
«Veramente non ha nessuno. Due giorni fa è stato trovato svenuto per strada, completamente ricoperto di scritte. Nessun documento, nessuna informazione. Che dovete fargli?»
«Riapriamo, allarghiamo la breccia ossea e togliamo quello che possiamo, sperando che non si dissangui.»
Di Biasi gli spalancò gli occhi con le dita: «È diventato
anisocorico. Ma che cazzo è successo, stava bene fino a due minuti fa!»
«Sicuramente sta sanguinando, o il tumore è cresciuto in maniera spaventosa.» Spostò la testa di Carlo da un lato. «Mi sa proprio che stavolta dobbiamo incidere questa scritta che ha tatuato qui dietro.»
Queste parole, in qualche modo, gettarono Carlo in uno stato di paranoia e panico come mai ne aveva provati prima.
«Sti cazzi al tatuaggio.» fu l’unica risposta di Di Biasi.
Ricadde nell’incoscienza.


3.
Carlo si alzò e si diresse verso lo specchio in salotto. Sentiva che qualcosa di irreparabile stava per accadere, e la chiave di tutto era il tatuaggio e l’idea che dovessero inciderlo. Nonostante il buio della sua visione, verificò allo specchio che la sua pelle era intonsa.
Frustrato, strinse i pugni accartocciando i dépliant della Cozy Airways. Si sentiva un relitto e aveva la sensazione che quella non fosse propriamente casa sua, anche se era sicuro di averla costruita, di averla arredata. Si sentiva quasi abusivo, nel posto sbagliato.
Il numero verde spuntava tra le pieghe della carta, sottolineato e cerchiato come se fosse importante. Non sapeva neanche se esistesse una compagnia aerea del genere.
Di là, Sarah si stava asciugando i capelli. Anche i ricordi su di lei erano sfocati, lontani.
Carlo guardò la porta. Perché mai non poteva uscire? Afferrò la maniglia e la strinse. Chiuse gli occhi e poggiò la testa al legno lucido. Uscire era sicuramente un gesto inconsulto e pericoloso, dettato più dalla paranoia che dal buon senso.
Il fohn nel bagno si spense.
Aprì gli occhi, e per la prima volta notò a terra una scritta in caratteri color oro, brillanti. Non riusciva a capirne il senso.
«E tu che cazzo stai facendo lì?»
Le parole di Sarah quasi lo folgorarono. Era ferma all’ingresso del salotto, nuda.
«Non vorrai mica uscire, vero?»
Il tono era perentorio, deciso, ma qualcosa strideva nelle parole di Sarah. «Non volevo uscire. Ho solo notato questa scritta qui a terra. Cos’è?»
Lei si avvicinò di qualche passo ma non guardò. «Non c’è nessuna scritta. È la likofopsia che ti gioca brutti scherzi.»
«Non hai neanche guardato!»
«Il neurochirurgo mi ha detto di non assecondare le tue allucinazioni.»
«Ma come fai a dire che sono allucinazioni se non vieni a vedere…» All’improvviso qualcosa si accese nella sua testa. «Perché continui a parlare del neurochirurgo al maschile? Quella che mi ha operato era una dottoressa
«Non mi frega un cazzo se era femmina o maschio, tu stai lontano da quella porta. E non c’è nessuna scritta.»
Con quelle parole, il volto di Sarah divenne arcigno, mentre avanzava.
Nella penombra della sua vista, Carlo la vide fare un passo dopo l’altro, e il piede nudo emetteva un suono come di legno sul pavimento. La donna l’afferrò per le spalle e lo spinse via dalla porta. Per un attimo lei guardò dove c’era la scritta, e sembrò quasi provare dolore. Sbuffò, quasi ringhiò, prima di tornare a occuparsi di suo marito.
«Carlo, tesoro, io ti capisco: vuoi trovare delle risposte e credi che uscire da quella porta sia una cosa buona. Lascia che ti dica la verità: non sarai tu a uscire da lì, ma IO, quando tutto sarà pronto.»
«Perché non adesso?»
Sarah si piegò su di lui, l’alito caldo odoroso di zolfo e cadaveri: «Perché questa schifosissima prigione è solo opera tua. Mi hai evocato, mi hai lusingato, e poi mi hai chiuso qua dentro, perché volevi rimanere te stesso! Non è così che funziona, con le possessioni, e ora sto cercando di riprendermi ciò che è mio: il tuo corpo
«Che cazzo significa che ti ho evocato, sei mia moglie!»
«Basta con questa farsa!» E Sarah mutò il suo aspetto in quello di un demone dalla pelle di serpente e le gambe caprine. Il volto mostruoso era a pochi centimetri dall’espressione stravolta di Carlo. «Adesso sono di tuo gradimento, figlio di puttana?» E rise, un rumore di urla e unghie spezzate.
Lui si spinse con le mani per allontanarsi. La scritta sul pavimento spiccava brillante e integra nel suo mondo immerso nella penombra.
«Tua moglie un cazzo! Scoparti, prima, è stata una tortura peggio di quelle dell’Inferno.»
Mentre scivolava sul sedere per sfuggire a quel mostro, Carlo chiese: «Se non sei mia moglie, chi sei allora?» Cercava di prendere tempo e continuava a gettare un occhio alla scritta, ancora brillante.
«Ma quanto sei cretino! Davvero. Mi hai evocata proprio per realizzare le tue fantasie da quattro soldi: ricchezze, donne. Ed eccolo qui il frutto dei tuoi desideri da nullità: capelli rossi, tette piccole, e il nome Sarah, come la tipa del liceo che non te l’ha mai data. Carlo, io sono quello che ti passa per la testa quando vai a farti le seghe nel cesso. Mi hai relegato in questa Casa Oscura,» E indicò con un gesto plateale le mura che li circondavano. «Ma, vedi, io sono dentro di te e ti leggo nel profondo. Se vogliamo dirla tutta, ti capisco molto più di quanto possa capirti una moglie qualsiasi perché io sono la tua prigione
Le parole di Sarah gli avevano riattivato la memoria. Aveva evocato un Demone per ottenere fortuna, gloria e tutte quelle stronzate. E aveva costruito questa Casa Oscura in cui imprigionarlo per non esserne posseduto. L’unico modo per confinare un demone è quello di chiuderlo con un Sigillo, una formula magica, e questo era il motivo per cui l‘avevano trovato coperto di scritte e con un tatuaggio sulla nuca. «Il Sigillo è ancora integro, questo vuol dire che siamo chiusi nella Casa Oscura insieme.» Rifletté Carlo ad alta voce. «E io non ho mai lasciato l’ospedale!»
«Complimenti, Sherlock, ti è tornata la memoria, ma non ti servirà a nulla. Stanno per operarti, e se le cose vanno secondo i miei piani, ti ho fatto crescere così tanta merda nella testa che il dottore taglierà il tatuaggio. Ciao ciao, Sigillo!» Rise con quel suono di vetri infranti.
L’unico modo per porre fine a tutto questo era arrivare alla porta e occupare il suo corpo prima di Sarah e prima che il Sigillo venisse violato. Carlo controllò la scritta, luccicante. Dovevano ancora iniziare...
E invece in quell'istante il Sigillo perse la sua brillantezza e un segno come un colpo di coltello lo tranciò di netto: la barriera era rotta.
Sarah se ne accorse e sorrise. «Sei solo un coglione, Carlo. Ma sei il mio coglione!» Disse mentre lo afferrava per le spalle e lo scaraventava lontano.
Lui si schiantò contro il muro e un dolore enorme gli esplose in testa.
Il Demone aprì la porta. Oltre la soglia, le luci della sala operatoria dell’ospedale inondarono la stanza in penombra. Si vedeva il soffitto, la lampada scialitica e lo sguardo di Alimondi, innaturalmente gigante, che scrutava direttamente nella casa.
La porta mostrava quello che vedeva Carlo!
Sarah la varcò.

III Interludio – Morte
La testa di Carlo era aperta e quel che rimaneva del cervello in bella vista. La neurochirurga si fermò perché il paziente la stava fissando.
Sarah, nel corpo di Carlo, sorrise e fece l’occhiolino ad Alimondi che urlò e si spinse via dal tavolo operatorio. Sarah non riusciva a vedere Di BIasi dall’altra parte del monitor, ma dalla quantità di allarmi che erano esplosi, poteva immaginare che la situazione non fosse felice.
«Ma che cazzo sta succedendo? Alimondi? Tutto ok da te?» Le parole di Di Biasi non fecero altro che corroborare quella sensazione di piacevole follia chela stava pervadendo. La possessione era così inebriante: tutto quello che era scientificamente provato si trasformava in un circo imprevedibile.
«Come fa a essere sveglio, gli sto calando l’impossibile!» Sempre Di Biasi, che aveva abbandonato i termini tecnici per urlare in preda al panico.
Il Demone si mise seduto e saltò giù dal letto. Alcuni elettrodi adesivi si staccarono, alimentando la cacofonia di allarmi. Con un gesto quasi annoiato, afferrò il tubo che sporgeva dalla bocca e se lo strappò. Sputò un grumo di secrezioni dense e dopo aver schioccato la lingua porse il tubo a Di Biasi, che la guardava atterrito, una siringa stretta nella mano tremante.
«Vuoi assaggiare? È buono!»
Sarah rise di gusto, e con un passo fu addosso a Di Biasi.
L’anestesista la colpì più e più volte con l’ago della siringa, al collo e alle braccia, ma fu inutile. «So che hai paura, dottore. Sarò veloce. Forse.»
E lo morse al collo con tutta la brama accumulata dopo tanti anni all’Inferno. Bere il sangue e uccidere le dava forza.
Non era mai stata meglio!


4.
Carlo vide la porta chiudersi.
Afferrò la maniglia: bloccata, per mano di Sarah. Si accorse che la penombra si stava accentuando e la sua coscienza si stava affievolendo sempre più: stava cedendo il corpo al demone.
Accese tutte le luci per guadagnare qualcosa su quell’oscurità incipiente. Se aveva progettato lui la Casa Oscura, aveva inserito dei sistemi di sicurezza. I suoi occhi caddero sul mobile del telefono, dove tutto era iniziato e dove in continuazione era tornato. Se erano lì, quei dépliant dovevano servire a qualcosa. Afferrò i fogli di carta spiegazzati e trovò quello che aveva attirato la sua attenzione: il numero di telefono corretto – 800-EXOR. Sembrava una stronzata, ma in fondo non aveva niente da perdere.
Afferrò il telefono e compose il numero.
Dalla cornetta attaccò la sua stessa voce:

Exorcizamus te, omnis immundus spiritus

Le parole risuonavano per tutta la Casa Oscura.

Omnis satanica potestas, omnis incursio

La porta cominciò a scricchiolare, le pareti del salotto si riempirono di crepe come tante ferite e da esse cominciò a scorrere sangue.

Infernalis adversarii, omnis legio

Lo specchio esplose, il divano vomitò imbottitura sanguinolenta, i quadri piansero e il pavimento si sollevò in montagnole sulfuree. Lontano, oltre la porta, Carlo ebbe l’impressione di sentire delle urla di dolore. Sperava che fossero di Sarah.

omnis congregatio et secta diabolica.

Dopo questo verso, la craniolacunìa cominciò a pulsare e gonfiarsi, mentre la sensazione di qualcosa che volesse uscire e che grattasse da dentro si fece sempre più concreta. Senza pensarci, con una scheggia di specchio Carlo incise la cicatrice e affondò la mano insanguinata nella sua stessa testa. Urlò, per il dolore, la nausea e le vertigini, ma finalmente afferrò qualcosa che cercava di ritrarsi da lui. La tenne stretta e la strappò via.
Era Sarah, in miniatura, che si annidava dentro di lui e l’aveva tormentato nella Casa Oscura.
«Per quanto tu possa andare nel mondo reale, ricorda che un pezzo di te rimarrà sempre con me. Per questo si chiama possessione, stronza!» Disse alla piccola Sarah agonizzante. La lanciò lontano, e lei prese a contorcersi sul pavimento. L’esorcismo l’aveva ferita profondamente, ma non tanto da ucciderla.
C’era una sola cosa da fare: doveva prendere possesso del suo corpo prima del demone.
In quell’istante, la porta esplose e lui si lanciò attraverso la soglia, verso il cadavere dissanguato di Di Biasi.

IV Interludio – Salvezza
Carlo si ritrovò accasciato al suolo, in mezzo al macello ad opera di Sarah. Doveva eliminarla ed essere sicuro che non tornasse.
Con fatica si trascinò fino al tavolo operatorio e vide il bisturi che la dottoressa Alimondi aveva lasciato cadere. «Dottoressa, mi aiuti.»
Lei, impietrita, terrea, scosse la testa.
«La prego, non ci riesco da solo. Venga qui vicino e mi tagli la gola.» E si portò la lama del bisturi al collo.
Alimondi si risvegliò e si mosse verso di lui per fermarlo. Carlo tossì, schizzando il suo stesso sangue negli occhi della Alimondi.
«Dottoressa, devo morire…»
In quel momento, le mani della chirurga si strinsero su quelle di Carlo e spinsero la lama più in profondità, tagliandogli la carotide con un movimento deciso.
«Grazie, dottoressa…»
E lei gli sorrise, gli occhi verdi brillanti. «La dottoressa non abita più qui, stronzo!»

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roberto.masini
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Un verde oscuro

Messaggio#5 » mercoledì 7 febbraio 2018, 18:50

Il nome della stella è Assenzio.
Un terzo delle acque diventò amaro
come l'assenzio, e molti di quelli
che bevvero morirono, perché erano
avvelenate

(Giovanni, Apocalisse 7,10)



Prologo. Oggi, domenica, 7 marzo 1869, tenterò di convincere il mio amico Salvatore: non posso continuare a vivere in queste condizioni. Solo lui può capirmi e spero che mi esaudisca. Il 25 marzo è vicino!

1. La proposta indecente. Quando Salvatore rientrò, mi raggiunse nella stanza da letto:
«Iginio, ti ho portato un sorbetto d’Almerin; ti tirerà un po’ su!»
«C’è la cannella?» domandai, tossendo.
«Ma naturalmente: uova, Malaga, zucchero e… cannella!»
«Grazie, Salvatore, aiutami a tirarmi su!»
Mentre eseguiva l’operazione, tossii nuovamente ed espettorai del sangue. Prontamente il mio amico mi allungò un fazzoletto.
«Che cosa ha detto il dottore?»
«Non lo vedo da una settimana ma la diagnosi è sempre quella: tisi!»
«Lo so, lo so! Ma tu ti devi curare. Cosa che non hai mai fatto in tutti questi anni!»
Lo afferrai per un braccio e gli dissi:
«Salvatore, ascoltami: ti devo dire una cosa importante!»
Si sedette, compunto, sul letto accanto a me e, alzando il dito, mi ammonì:
«Per oggi non voglio sentire le tue tiritere sulla contessa Clara Maffei!»
«No, tranquillo, Salvatore: devo chiederti una cosa che solo tu puoi fare!»
«Dimmi: tu sai che io ti capisco, che puoi contare su di me.»
«Ecco… ascoltami bene io voglio che tu, oggi stesso, mi aiuti a porre fine alla mia esistenza!»
«Ma che cosa dici? Un omicidio… del mio migliore amico?»
«No, non un omicidio, un suicidio che però le mie deboli forze non mi consentono di eseguire!»
«Dunque non sopporti più il dolore di questa malattia, dopo la vita dissipata che hai condotto nel tentativo di cercare la morte. Certo, tu mi hai sempre ripetuto fino quasi alla noia che noi siamo scapigliati e che uno dei motivi cardine del nostro movimento è la protesta contro questa società che può arrivare fino all’autodistruzione. Ti ricordo che qualcuno si è sparato, qualcuno è morto per eccessivo uso di droghe e alcool. Tu, mi sembra, abbia cercato morbosamente la malattia nel desiderio di annullarti. Io, naturalmente, non sono d’accordo ma pensavo che tu ti volessi lasciar morire senza curarti. Perché ora questa accelerazione? Dimmi, ti prego!»
Con un grande sforzo mi misi seduto sul letto, lo abbracciai e poi risposi:
«Una volta dissi che non si arriva alla fede che per una sola via: per quella del dolore. I prosperi e i fortunati sono raramente uomini religiosi: lo sono gli sventurati. Ma qual è la vera risposta alle nostre domande? Dove si va? D’onde si viene? Che cosa vi è dopo la morte? Le risposte, piene di ribrezzo e di angoscia, si possono trovare nelle tombe dei cimiteri. Ma io non voglio raggiungere il paradiso o l’inferno: io non voglio più vivere su questa terra e soprattutto voglio essere morto prima di Pasqua, esattamente prima di giovedì, 25 marzo. E la ragione non è la mia malattia o, per meglio dire, non è la tisi!»
«Ho capito: sei diventato pazzo e l’unica possibilità, per il tuo bene, sarebbe il manicomio. Ma, come ho detto, io ti capisco, so che cosa hai passato, conosco la tua filosofia di vita, io ti sono amico e non…»
«No, in realtà tu potrai capire solo dopo che io ti avrò raccontato una storia che mi riguarda e che non ho mai raccontato a nessuno. So che stenterai a credermi ma ti giuro che tutto quello che mi è successo è incredibile ma vero. Per favore ti prego di ascoltarmi senza interrompermi. Sono certo che la fine capirai e mi accontenterai.»
Salvatore si alzò dal letto, prese una sedia, la avvicinò, si sedette e poi, con un cenno della mano, m’invitò a cominciare.

2.La Fata Verde. Dopo aver congiunto per un istante le mani sulla bocca, mi guardai furtivamente intorno, certo d’indovinare una presenza tra noi. Non fu così e allora iniziai il mio racconto:
«Tu sai cosa sia per noi scapigliati l’assenzio. Forse tu non ne hai provate le sue virtù allucinogene ma soprattutto creative. Tu sai che i francesi chiamano questo distillato la Fata Verde ma anche il pericolo verde e ora io so perché. In un giorno d’estate dell’anno scorso, io mi trovavo al caffè Martini insieme ad artisti che non lavorano, a cantanti che non cantano, a letterati che non scrivono, e a persone eleganti che non hanno denari; si parlava dell’eventualità d'una guerra in Italia. Da ciò, giù per la china delle opinioni e delle antiveggenze personali, si era arrivati ai pronostici; e dai pronostici ai presagi; e da questi, entrando nel campo della vita intima, alle fatalità, alle malie, alle stregonerie. Mentre acquistavo una bottiglia di assenzio, qualcuno disse qualcosa a proposito della Fata Verde; diceva che, fonte d’ispirazione di molti poeti, era una vera fata ma simile a un fantasma e la potevano vedere solo i consumatori della verde bevanda. Chi aveva raccontato la storia fu sommerso da fischi e lazzi ma a me rimase in mente. La sera dopo, con le finestre aperte, mi gustavo il liquore e mi sembrò di scivolare fuori da me stesso; vidi il mio corpo appisolato sulla sedia. Poi ci fu un gran rumore; io aprii gli occhi e davanti a me, in piedi, una donna mi faceva cenno di alzarmi e di avvicinarmi. Era di verde vestita come una dama medievale: scollo arioso, spalle in tulle, e maniche svasate. Aveva un taglio impero sottolineato da una passamaneria sotto il seno con un grande smeraldo. La donna aveva sul capo una coroncina verde muschio ma il volto era nascosto da un velo verde trifoglio.»
«Devo arguire che si trattava della Fata Verde! E’ così?» domandò ironicamente il mio amico.
«Salvatore, sì, è evidente che è così ma per favore non interrompermi più perché altrimenti non so se riesco a dirti tutto quello che devo. Dunque… la fata si avvicinò al mio volto e mentre il velo sussultava per le sue parole, mi sussurrò: ”Tu mi hai evocato ogni giorno bevendo questa estatica mistura e quindi io oggi ho deciso di rivelarmi a te.” La sua voce era incredibilmente suadente e mi risvegliava sensi ormai intorpiditi da tempo. La presi delicatamente per un braccio e la avvicinai al mio viso, implorando: ”Scopri il tuo velo affinché io veda il tuo volto meraviglioso!” Una voce flautata mi rispose: ”Potrò farlo solo a queste condizioni. Per prima cosa dovrai scrivere i racconti che ti detterò e dovrai dire a tutti che sono opera del tuo ingegno. Dopo aver trascritto questi racconti, dovrai concedermi una notte d’amore e solo allora vedrai il mio viso.” Accettai, anche se mi pareva di sognare. Dopo il mio sì, la fata si dissolse come nebbia al sole.»
«E poi ti svegliasti.» concluse Salvatore in tono sarcastico, alzandosi dalla sedia.
«No, amico mio: io ero ben sveglio e non dormii tutta la notte. La sera del giorno successivo la fata apparve senza che io avessi assaggiato una sola goccia di assenzio. Cominciò a dettarmi strane storie. Ti ricordi i miei racconti fantastici? Ebbene I fatali, Un osso di morto, Uno spirito in un lampone, La lettera U non sono stato il parto della mia fantasia ma della sua. M’inquietò soprattutto il racconto che lei mi suggerì d’intitolare Le leggende del castello nero, dove quella castellana si trasforma nel momento del bacio in un abominevole scheletro e gli profetizza il giorno della morte. Ricorda le mie parole su questo racconto: ti ritorneranno utili per tentare di comprendere ciò che mi è accaduto. Tutte le sere questo spirito di verde vestito si sedeva di fronte a me e con voce melodiosa mi narrava vicende raccapriccianti. Dopo una settimana, poiché le avevo parlato del mio romanzo intitolato Fosca, mi suggerì come dovesse essere l’aspetto della protagonista. Io l’avevo descritta emaciata e sofferente ma lei volle addirittura renderla orribile. Ti rivelo i termini che mi ordinò di usare nel XV capitolo che stavo per inviare alla rivista Il pungolo: “Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna!… Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonie di fattezze - che anzi erano in parte regolari - quanto per una magrezza eccessiva, per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne' suoi occhi, che erano nerissimi, grandi, velati, occhi d'una beltà sorprendente… Tutta la sua orribilità era nel suo viso.”… Quella, quella non era la mia Fosca. Tu sai che mi ero ispirato alla mia Angiolina che conobbi a Parma…»
«Sì, so tutto di lei: mi hai raccontato tali e tanti particolari che a volte penso che sia stata la mia fidanzata!» interruppe ridendo Salvatore.
«Era giunto l’inverno e proprio quel nebbioso e freddo martedì di dicembre la Fata Verde comparve e mi disse: ”E’ giunto il momento di soddisfare il mio desiderio!” e si spogliò davanti a me. Comparve un corpo bellissimo, dalle forme sinuose, bianco come il latte, verso il quale mi sentii attratto come non mi era mai capitato prima. Non volle però togliersi il velo che le copriva il viso perché l’avrebbe fatto lei, solo dopo la congiunzione carnale. Anzi mi disse che se glielo avessi tolto io, mi sarebbero capitate vicende orribili. Mi spinse sul letto e cominciò a titillare il mio augello, finché non cominciò a cavalcarmi furiosamente. Le chiesi quale fosse il suo nome. Non glielo avevo mai domandato. Mi rispose che la potevo chiamare Verdiana! Al culmine del piacere, mentre la fata ululava, dimentico del suo avvertimento, le tolsi il velo. Apparve la faccia più orrenda che avessi mai visto o che avessi mai letto sui libri. La pelle rugosa e cadente circondava due grandi occhi verdi dall'espressione malvagia in mezzo ai quali spiccava un naso adunco provvisto di un enorme brufolo sulla parte sinistra. Dalla bocca spalancata e urlante spuntavano denti piccoli, aguzzi e innumerevoli. Strinse le mani improvvisamente fattesi scheletriche attorno al mio collo e dopo avermi sputato in faccia saliva verde, gridò: ”Tu hai voluto disobbedirmi e ora la tua vita sarà un inferno. Come hai visto il mio vero volto, così vedrai quello di tutte le persone che ti circondano e poi non terminerai il tuo romanzo perché morirai il 25 marzo!”
Svanì nell’aria ed io cominciai a tossire convulsamente, toccandomi il collo e ripensando alla novella del castello nero con la sua profezia di morte!»

3.La macabra scoperta. Salvatore, pur essendo mio amico, mi guardava come si guarda un pazzo ma io avevo deciso che solo raccontando la storia fino alla fine lui avrebbe potuto comprendermi, per cui continuai:
«Da quel maledetto giorno non incontrai più Verdiana ma cominciai ad avere fugaci visioni delle persone che incontravo che, via via che passava il tempo, divennero sempre più prolungate.»
«Di che tipo di visioni stai vaneggiando?»
«Da quel maledetto giorno, dicevo, ho cominciato a vedere le persone non come apparivano a tutti: sotto la pelle scorgevo le loro ossa, il teschio, lo scheletro, insomma! Ho cercato di allontanare da me queste allucinazioni, proprio scrivendo poesie che sono valse la definizione, di qualche sedicente critico letterario, di morbosa necrofilia!» e cominciai a declamare, scendendo dal letto. «Quando bacio il tuo labbro profumato,/cara fanciulla, non posso obbliare/che un bianco teschio vi è sotto celato./Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,/obbliar non poss'io, cara fanciulla,/che vi è sotto uno scheletro nascosto./E nell'orrenda visione assorto,/dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,/sento sporgere le fredda ossa di un morto. Pensavo, e mi sbagliavo, che parlando costantemente di morti e scheletri, sarei guarito.»
«E non è stato così?» mi domandò, affranto, Salvatore.
Lo afferrai per un braccio e poi lo abbracciai, singhiozzando. Lui stava per consolarmi ma io mi distaccai e, asciugandomi le lacrime, continuai:
«Ti ricordi quell'altra poesia che faceva M’avea dato convegno al cimitero e che parla di una fanciulla ormai cadavere? Il giorno dopo che la scrissi, mi ritrovai a passare dal Cimitero Monumentale e decisi di farmi chiudere dentro. Forse vedendo dei veri cadaveri sarei guarito. Ben intabarrato, soffiavo sulle mani intirizzite dal freddo di quella domenica di Gennaio. Mi aggiravo tra tombe e croci ma non c’erano sarcofagi scoperchiati o, peggio, da scoperchiare. Forse avrei visto qualche fantasma, forse mi sarebbe riapparsa la Fata Verde ma di ossa neanche l’ombra. Stavo per abbandonare il cimitero, arrampicandomi su un cancelletto di un’uscita secondaria, quando udii una nenia recitata a bassissima voce. Mi avvicinai con circospezione e, nascosto da un grande angelo di marmo, vidi una donna velata, inginocchiata davanti a una cappella aperta che emanava una fioca luce giallognola. Dopo poco ne vidi uscire due figure; erano un uomo e una donna ma non erano scheletri. Erano creature con la pelle decomposta, abiti stracciati, movimenti lenti. Li vidi avventarsi sulla donna che li aveva evocati. La uccisero a morsi e cominciarono a mangiarsela. Ero paralizzato dal terrore; non osavo muovermi perché pensavo che ogni minimo rumore, in quel luogo dove regnava assoluto il silenzio, li avrebbe attirati. Consumato il pasto, si unirono carnalmente tra rantoli e scricchiolii. Raggiunto il culmine del piacere, alla donna si staccò un piede e all’uomo una mano. Con l’unica mano rimasta l’uomo la spinse verso l’uscita e poi non si sentì più nulla. Ero impietrito molto più della statua dietro la quale mi ero nascosto. Passarono altre due ore. Mi mossi e scavalcai il cancelletto verso l’uscita. E qui comparve nuovamente Verdiana con l’indice puntato contro di me che mi urlava con voce roca: ”Non te lo scordare : mancano venti giorni alla tua morte, la tua Fosca resterà incompiuta e nessuno ti ricorderà mai né come uomo né soprattutto come scrittore.” Reagii senza pensare e la aggredii ma scomparve tra le mie mani. Ora, Salvatore, mi credi? Come puoi pensare che io voglia ancora vivere, guardando crani che incontro per strada… e, sì, vedo anche il tuo, in questo momento. Perciò ti chiedo solo due cose: aiutami a morire e termina tu la mia Fosca! Io invero l’ho finita ma mi manca il capitolo in cui Giorgio e Fosca passano insieme una notte d’amore. Scrivila tu e poi inviala al Pungolo
Salvatore non rispose ma mi abbracciò forte, incominciando a piangere. Poi si ricompose, si staccò da me e disse:
«Iginio, tu sai quanto io ti voglia bene; sai quanto io ti abbia capito fino a oggi; sai quanto io abbia compreso e poi condiviso il tuo spirito di ribellione nei confronti della società, del perbenismo borghese. Io ti sono sempre stato vicino in questi quattro anni della mia vita milanese e, se ti ricordi, un giorno ti dissi che per te avrei fatto qualunque cosa. Fui avventato sì, perché ora tu mi chiedi cose che io non posso fare. Me le chiedi, ne sono certo, perché il dolore di questa malattia ti ha offuscato il cervello per cui vedi fantasmi e fate. Domani chiamerò il mio medico e acquisterò tutte le medicine che m’indicherà. Tu guarirai, non morirai il 25 marzo e la notte d’amore tra Giorgio e Fosca la scriverai tu!»
Mi fece distendere sul letto e mi rimboccò le coperte, mentre io cercavo d’indicargli un punto alle sue spalle. Povero amico mio! Non vedeva che dietro di lui era apparsa Verdiana, sogghignante.

Epilogo. Il pungolo, 26 marzo 1869. Si è spento ieri Ugo Iginio Tarchetti per un attacco di tifo; è morto dopo aver lungamente, coraggiosamente e dignitosamente lottato contro le brutali realtà della vita, nemiche accanite all’arte e alle sue manifestazioni; è morto quando la speranza di miglior avvenire, frutto di lavoro assiduo e di costanza indomabile, più caramente gli sorrideva; è morto quando gli sorridevano intorno attestati non dubbi della commozione profonda destata dai casi di questa povera Fosca, nella quale egli quasi morente versò tanta parte della vita che gli fuggiva ― gioie, dolori, aspirazioni indefinite, proteste sdegnose, indignazioni sante ― e quasi a ogni linea, il presentimento della morte vicina. Lo piange affranto il suo amico Salvatore Farina che non potrà partecipare alle esequie in quanto temporaneamente ricoverato nella Pia Casa della Senavra in stato di confusione mentale.

Storia della letteratura italiana di Martino Erbosi. Fosca è il romanzo più celebre dello scrittore Iginio Ugo Tarchetti, nato a San Salvatore Monferrato il 29 giugno 1839 e morto a Milano. Pubblicato a puntate sulla rivista “Il pungolo” nel 1869 e raccolto in un volume di 50 capitoli nello stesso anno, è uno dei romanzi più significativi della Scapigliatura. Tarchetti morì il 25 marzo 1869 prima di terminare il penultimo capitolo, che fu completato dall'amico Salvatore Farina.

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Re: Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#6 » mercoledì 7 febbraio 2018, 23:40

roberto.masini ha scritto:Chi è Andrea Montalbò?

Chi?

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Re: Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#7 » giovedì 8 febbraio 2018, 0:24

Spartaco ha scritto:
roberto.masini ha scritto:Chi è Andrea Montalbò?

Chi?

Era un refuso nella pagina principale al posto del mio cognome ma è stato corretto.

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Re: Semifinale Giovanni Lucchese

Messaggio#8 » giovedì 8 febbraio 2018, 22:08

Giovanni Lucchese è stato velocissimo, ecco di seguito i suoi commenti e la proclamazione del primo finalista.

Commenti in ordine sparso:

UN VERDE OSCURO

il racconto è ricco di spunti e ben articolato, la storia è abbastanza evocativa e si respira l'atmosfera decadente dei poeti maledetti e degli artisti di fine '800.

Ho trovato i dialoghi a volte un po' tirati, quasi didascalici, con battute un po' troppo lunghe al servizio della narrazione.

Il linguaggio utilizzato è un po' discontinuo, a tratti è attuale mentre a volte i termini arcaici inseriti risultano un po' forzati.

Detto questo, la parte del cimitero con la scoperta dei due "zombie" che divorano la donna è a mio avviso inserita a forza e spezza l'atmosfera onirica e l'immaginario del racconto, restando un episodio a sé distaccato dal resto della storia.

Soprattutto dal momento che il protagonista resta un mero spettatore della vicenda senza restarne in alcun modo coinvolto.


PENOMBRA

Idea originale, clima claustrofobico e atmosfera inquietante in puro stile horror.

L'idea della casa in penombra e delle allucinazioni del protagonista lasciano presagire un colpo di scena di quelli in cui nulla è come sembra, colpo di scena che arriva immancabilmente.

I termini medici sono usati molto sapientemente, scelti con cura e riescono ad enfatizzare l'aspetto inquietante del racconto.

Gli interludi alzano il tiro e rendono la realtà confusa e discontinua, quasi ci si trovasse in un sogno dal quale il protagonista non riesce a svegliarsi.

Anche il finale non delude, ed è perfettamente in linea con lo stile del racconto.

Unica pecca, piccola: il colpo di scena centrale forse si poteva rivelare in modo più adrenalinico, cinematografico, e meno "spiegato" al protagonista che ne subisce gli effetti.

Resta comunque un ottimo racconto che potrebbe essere approfondito fino a diventare un romanzo breve, o magari la sceneggiatura di un film.


VIVO

l'idea di fondo c'è, l'atmosfera si percepisce bene e lo stile è rapido e moderno, malgrado alcuni termini un po' troppo "letterati" ne spezzino un po' il ritmo. (es. "fluorescenza vermiglia")

Un'epidemia zombie vista dalla parte dei morti viventi suscita sempre curiosità, ci si chiede cosa passi, se qualcosa passa, per la testa di queste creature e in questo caso la cosa si percepisce abbastanza.

L'idea che l'amore resti immutato anche dopo la trasformazione è romantica e coraggiosa, ho trovato molto dolce il rapporto tra il protagonista, che si fa sbranare per sfamare i suoi cari, e la famiglia che è pronto a difendere anche dopo la morte.

Resta però a mio avviso un racconto meno completo, forse troppo breve, che andava articolato più a fondo per poter percepire a fondo il messaggio dell'autore.

Forse quello che manca è una descrizione più completa del mondo al di fuori della loro casa, di cosa sia successo prima e di cosa stia accadendo attorno a loro.

Un po' di lavoro in più trasformerebbe questo in un racconto davvero vincente.


Detto questo, il racconto che va in finale per me è PENOMBRA, anche se voglio fare i complimenti a tutti e tre gli autori per la fantasia e l'impegno messi nelle loro opere.

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