Il mostro - di M.R. Del Ciello
Inviato: lunedì 16 aprile 2018, 23:17
IL MOSTRO
Roma, 1972
— Non possiamo costruire lì.
— Sì che possiamo. Sarà il Progetto con la P maiuscola. Abbiamo sessanta ettari di spazio su questa collina che domina la campagna romana. Abbiamo migliaia di metri cubi da edificare. Ne faremo un edificio per la collettività, il luogo dove la comunità potrà esprimersi come un organismo autonomo. Sarà un successo per noi e saremo ricordati come gli architetti di questo meraviglioso alveare simbolo della modernità.
— Mi dicono che c’è un’enorme necropoli sotto quella collina.
— E allora?
— Pare che nessuno abbia mai voluto costruire qui. Ci sono delle storie, delle leggende. Sembra che il diavolo abiti da queste parti.
— Ma non vorrà dirmi che crede a queste scemenze? Noi siamo architetti, ingegneri, uomini di scienza. Dia retta a me, questa è l’occasione per farsi un nome e, perché no, soldi a palate.
Roma, 1982
— Ce l’hai la roba? — un tossico striscia lungo i marciapiedi alla ricerca della sua “medicina” quotidiana e, a volte, gruppetti di balordi lo esaudiscono. Allora si allontana contento. Altre volte ciò non accade e allora il tossico va a morire all’ombra di qualche pilone di cemento.
Un nomade rovista in un cassonetto allungando una lunga asta di metallo per arrivare lì dove le mani non consentono.
— Ferma la registrazione, ti prego… — il dottor Fiorentino implorò il suo assistente.
— Tutto questo può finire. Possiamo riqualificare la zona. Salvarla dal degrado — insistette il giovane.
— Tu non capisci, non possiamo. Nessuno può.
L’architetto si coprì il volto con le mani, sconvolto.
— Perché dice così?
— Perché tu non conosci la verità. Non doveva andare a finire così — l’uomo tracannò l’ennesimo bicchiere di vino, barcollando nella stanza tra una parete e l’altra.
Era quasi sbronzo e il giovane assistente controllava ogni suo movimento.
— È stata una fatalità, dottor Fiorentino. Le sue intenzioni erano nobili. È la società a essere malata. Distrugge il bello per lasciar posto al brutto. Da sempre è così: la moneta cattiva scaccia la buona. Lo sa come vanno queste cose…
— No, non lo so. Come vanno? — il dottor Fiorentino si accasciò senza forze su una poltrona.
— Sono certo che tra qualche anno diranno che il progetto, la sua creatura, è tra le più innovative e funzionali del novecento. E la celebreranno.
— Sì, certo. Quando sarò cibo per i vermi. E anche tu, mio caro, insieme a me.
Il giovane assistente non replicò. Osservò il suo maestro ormai addormentato sulla poltrona, spense la luce e si sdraiò anche lui sul divano. Sarebbe rimasto lì, quella notte. Non aveva nessuna intenzione di abbandonare a se stesso l’architetto. L’indomani li aspettava una riunione importante.
Il serpentone, così lo chiamavano, si snodava per quasi un chilometro, lì nel grigiore della periferia cittadina. Era stato edificato dieci anni prima e doveva essere, nella mente dell’architetto, una struttura urbana all’avanguardia: giardini pensili avrebbero colorato di verde le bianche pareti dietro le quali case funzionali e moderne dovevano ospitare giovani famiglie. Le nuove generazioni dovevano abitare lì. Nella nuova periferia.
Invece il diavolo si era risentito.
Neppure il Ponentino soffiava più come prima sui tetti di Roma.
Roma, 1972
— Non possiamo costruire lì.
— Sì che possiamo. Sarà il Progetto con la P maiuscola. Abbiamo sessanta ettari di spazio su questa collina che domina la campagna romana. Abbiamo migliaia di metri cubi da edificare. Ne faremo un edificio per la collettività, il luogo dove la comunità potrà esprimersi come un organismo autonomo. Sarà un successo per noi e saremo ricordati come gli architetti di questo meraviglioso alveare simbolo della modernità.
— Mi dicono che c’è un’enorme necropoli sotto quella collina.
— E allora?
— Pare che nessuno abbia mai voluto costruire qui. Ci sono delle storie, delle leggende. Sembra che il diavolo abiti da queste parti.
— Ma non vorrà dirmi che crede a queste scemenze? Noi siamo architetti, ingegneri, uomini di scienza. Dia retta a me, questa è l’occasione per farsi un nome e, perché no, soldi a palate.
Roma, 1982
— Ce l’hai la roba? — un tossico striscia lungo i marciapiedi alla ricerca della sua “medicina” quotidiana e, a volte, gruppetti di balordi lo esaudiscono. Allora si allontana contento. Altre volte ciò non accade e allora il tossico va a morire all’ombra di qualche pilone di cemento.
Un nomade rovista in un cassonetto allungando una lunga asta di metallo per arrivare lì dove le mani non consentono.
— Ferma la registrazione, ti prego… — il dottor Fiorentino implorò il suo assistente.
— Tutto questo può finire. Possiamo riqualificare la zona. Salvarla dal degrado — insistette il giovane.
— Tu non capisci, non possiamo. Nessuno può.
L’architetto si coprì il volto con le mani, sconvolto.
— Perché dice così?
— Perché tu non conosci la verità. Non doveva andare a finire così — l’uomo tracannò l’ennesimo bicchiere di vino, barcollando nella stanza tra una parete e l’altra.
Era quasi sbronzo e il giovane assistente controllava ogni suo movimento.
— È stata una fatalità, dottor Fiorentino. Le sue intenzioni erano nobili. È la società a essere malata. Distrugge il bello per lasciar posto al brutto. Da sempre è così: la moneta cattiva scaccia la buona. Lo sa come vanno queste cose…
— No, non lo so. Come vanno? — il dottor Fiorentino si accasciò senza forze su una poltrona.
— Sono certo che tra qualche anno diranno che il progetto, la sua creatura, è tra le più innovative e funzionali del novecento. E la celebreranno.
— Sì, certo. Quando sarò cibo per i vermi. E anche tu, mio caro, insieme a me.
Il giovane assistente non replicò. Osservò il suo maestro ormai addormentato sulla poltrona, spense la luce e si sdraiò anche lui sul divano. Sarebbe rimasto lì, quella notte. Non aveva nessuna intenzione di abbandonare a se stesso l’architetto. L’indomani li aspettava una riunione importante.
Il serpentone, così lo chiamavano, si snodava per quasi un chilometro, lì nel grigiore della periferia cittadina. Era stato edificato dieci anni prima e doveva essere, nella mente dell’architetto, una struttura urbana all’avanguardia: giardini pensili avrebbero colorato di verde le bianche pareti dietro le quali case funzionali e moderne dovevano ospitare giovani famiglie. Le nuove generazioni dovevano abitare lì. Nella nuova periferia.
Invece il diavolo si era risentito.
Neppure il Ponentino soffiava più come prima sui tetti di Roma.