[E] La lezione
Inviato: martedì 16 giugno 2015, 0:58
I tre arrivarono sotto la villa di Bellosguardo a piedi. Marco aveva deciso che gli ultimi cinquecento metri era meglio farseli senza scooter piuttosto che rischiare di essere sentiti.
«Ma chi vuoi che ci sente», aveva obiettato Gianrico, detto il Gi, «la villa è isolata e i due vecchi saranno sordi come panchetti».
«Non lo sappiamo e se qualcuno chiama i Carabinieri siamo fregati».
«A me la mi pare un gran bischerata», si era intromesso il terzo. Gli altri lo avevano guardato stupiti. Miky era il più giovane di tutti e parlava così raramente che a volte si dimenticavano di quale fosse il suono della sua voce.
«Bischerata o no, decido io. A piedi e zitti». Marco aveva il piglio autoritario del veterano di strada, in realtà aveva solo vent’anni, la differenza con gli altri due erano il diploma di scuola superiore, che lui non aveva, e gli occhiali da vista, che a lui non servivano.
«La finestra aperta è lì», al chiarore della luna piena Marco indicò con il mento il secondo piano, «accanto a quella con la luce accesa».
«A destra?» chiese il Gi.
«No, a sinistra».
«Okay. Aspettiamo che la luce si spenge e poi salgo».
«No, arrampicati subito, ormai sono le tre e i vecchi stanno dormendo nella camera al piano terra sull’altro lato. Che quella luce resta comunque sempre accesa, è sicuro».
«E chi te l’ha detto?»
«La mia fonte».
«Rieccola la sua fonte… ce lo vuoi dire chi è o no?»
«No».
«Perché?» Per la seconda volta Marco e il Gi sussultarono.
«Perché cosa, Miky?»
«Perché che quella luce resta sempre accesa è sicuro?»
«Non lo so, è così e basta, discorso chiuso. Il tubo della grondaia è tutto tuo, Gi, noi ti aspettiamo alla porta».
Il vecchio portoncino di legno si aprì con un terribile stridore dei cardini.
Qualcuno sbucò con un fascio di luce puntato sotto il mento, Miky e Marco arretrarono di mezzo metro alzando le mani: il primo in guardia da pugile, il secondo in alto in segno di resa.
«Un po’ d’olio no, eh? Vecchi tirchi», commentò la figura nel fascio.
«Gi, sei un coglione, abbassa quel cellulare», sbottò Marco sottovoce.
«Che ho fatto?»
«Lascia stare, doppiamente coglione, facci strada».
I tre salirono al secondo piano accompagnati unicamente dal suono dei propri respiri e dal ticchettio di un orologio a pendolo imboscato chissà dove.
«Io sono arrivato da quella stanza, quindi la roba è lì, giusto?», il Gi indicò la porta a sinistra di quella da cui filtrava la luce.
«No, è qui», Marco puntò la torcia del suo iPhone sulla porta al centro.
«Qui?»
«Sì… avete sentito?»
«Cosa?»
«Il pendolo, non c’è più…»
«Lascia stare il pendolo, che tu non c’hai detto della stanza luminosa non mi torna».
«La fonte non ha voluto».
«Voluto cosa?» Miky stava diventando loquace.
«Non importa, che vi piace o no ormai ci siamo, entriamo».
Marco aprì con cura la porta e i tre entrarono. La stanza era vuota tranne che per un lumino votivo che rischiarava una lapide di marmo al muro: “In memoria del congiuntivo”.
Il primo al parlare fu il G: «Scusa, ma chi è la tua fonte?»
«La prof di lettere delle medie».
«Ma chi vuoi che ci sente», aveva obiettato Gianrico, detto il Gi, «la villa è isolata e i due vecchi saranno sordi come panchetti».
«Non lo sappiamo e se qualcuno chiama i Carabinieri siamo fregati».
«A me la mi pare un gran bischerata», si era intromesso il terzo. Gli altri lo avevano guardato stupiti. Miky era il più giovane di tutti e parlava così raramente che a volte si dimenticavano di quale fosse il suono della sua voce.
«Bischerata o no, decido io. A piedi e zitti». Marco aveva il piglio autoritario del veterano di strada, in realtà aveva solo vent’anni, la differenza con gli altri due erano il diploma di scuola superiore, che lui non aveva, e gli occhiali da vista, che a lui non servivano.
«La finestra aperta è lì», al chiarore della luna piena Marco indicò con il mento il secondo piano, «accanto a quella con la luce accesa».
«A destra?» chiese il Gi.
«No, a sinistra».
«Okay. Aspettiamo che la luce si spenge e poi salgo».
«No, arrampicati subito, ormai sono le tre e i vecchi stanno dormendo nella camera al piano terra sull’altro lato. Che quella luce resta comunque sempre accesa, è sicuro».
«E chi te l’ha detto?»
«La mia fonte».
«Rieccola la sua fonte… ce lo vuoi dire chi è o no?»
«No».
«Perché?» Per la seconda volta Marco e il Gi sussultarono.
«Perché cosa, Miky?»
«Perché che quella luce resta sempre accesa è sicuro?»
«Non lo so, è così e basta, discorso chiuso. Il tubo della grondaia è tutto tuo, Gi, noi ti aspettiamo alla porta».
Il vecchio portoncino di legno si aprì con un terribile stridore dei cardini.
Qualcuno sbucò con un fascio di luce puntato sotto il mento, Miky e Marco arretrarono di mezzo metro alzando le mani: il primo in guardia da pugile, il secondo in alto in segno di resa.
«Un po’ d’olio no, eh? Vecchi tirchi», commentò la figura nel fascio.
«Gi, sei un coglione, abbassa quel cellulare», sbottò Marco sottovoce.
«Che ho fatto?»
«Lascia stare, doppiamente coglione, facci strada».
I tre salirono al secondo piano accompagnati unicamente dal suono dei propri respiri e dal ticchettio di un orologio a pendolo imboscato chissà dove.
«Io sono arrivato da quella stanza, quindi la roba è lì, giusto?», il Gi indicò la porta a sinistra di quella da cui filtrava la luce.
«No, è qui», Marco puntò la torcia del suo iPhone sulla porta al centro.
«Qui?»
«Sì… avete sentito?»
«Cosa?»
«Il pendolo, non c’è più…»
«Lascia stare il pendolo, che tu non c’hai detto della stanza luminosa non mi torna».
«La fonte non ha voluto».
«Voluto cosa?» Miky stava diventando loquace.
«Non importa, che vi piace o no ormai ci siamo, entriamo».
Marco aprì con cura la porta e i tre entrarono. La stanza era vuota tranne che per un lumino votivo che rischiarava una lapide di marmo al muro: “In memoria del congiuntivo”.
Il primo al parlare fu il G: «Scusa, ma chi è la tua fonte?»
«La prof di lettere delle medie».