Semifinale Fortunato Licandro

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il sette gennaio sveleremo il tema deciso da Francesco Nucera. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Francesco Nucera assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Fortunato Licandro

Messaggio#1 » venerdì 8 febbraio 2019, 17:17

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Nerd AntiZombie.
In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti del girone Fortunato Licandro hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi Vladimiro Borchi e Eugene Fitzherbert possono sfruttare i tre giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: domenica 10 febbraio alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 10 febbraio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Eugene Fitzherbert
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Re: Semifinale Fortunato Licandro

Messaggio#2 » domenica 10 febbraio 2019, 17:19


1.
«Teha, sei sicura di quello che fai?» Giorgio non nascondeva l’espressione preoccupata che gli oscurava il viso. «Sei mancata per un intero pomeriggio e ora torni con quest’idea.»
Teha rispose convinta: «Devo andare, G. Devo aiutare la bambina.»
«Già, la bambina… Come hai detto che si chiama? Dora? Ma chi è? Nessuno di noi l’ha vista.»
«Sta sempre nascosta. Te l’ho già detto: l’ho incontrata ieri mentre fuggiva da un palazzo diroccato. Era mezza nuda e aveva i marchi, Giorgio! quei dannati segni sulla schiena, sulle spalle, sulla pancia. Sai cosa significa.» Involontariamente Teha rabbrividì, portandosi una mano alla spalla, tastando gli innesti metallici da Schiava del Dolore che aveva. Anche per lei era iniziato con i tatuaggi, l’intervento di installazione e poi l’inferno.
Giorgio continuava a essere scettico. «Se vuoi che questa ragazzina non faccia la tua stessa vita, non è meglio rimanere qui con noi? Come abbiamo accolto te, qualche giorno fa, può rimanere anche lei.» Lui era il padrone di Villa Elpis, a Trinitapoli. Accoglieva e aiutava tutti i disperati vittime di un mondo marcio e moribondo, di cui erano rimaste solo macerie fumanti.
«No, Giorgio. Dora continua a ripetere: Zio Dario e Via delle Croci. È lì che vuole tornare. E io devo portarla. Sento che è la cosa più giusta da fare.»
«Mi pare così strano. Sei appena arrivata, fuggita dalla tua vita dolorosa e ora… questo. Non mi piace.»
«So che devo farlo. Da quando ho visto il visino di Dora, i suoi occhi ormai spenti, i marchi sulla pelle. Non potevo lasciarla stare lì. È talmente traumatizzata che riesce a ripetere solo quelle parole…»
«Sì, Zio Dario e Via delle Croci. E tu vorresti arrivare a Via delle Croci. Lo sai che è pericoloso, no?»
«Lo so. E tu conosci la strada, vero?»
Giorgio rimase un po’ in silenzio, gli occhi fissi nello sguardo ostinato di lei. Poi, rassegnato aggiunse: «Non sono d’accordo con quello che stai facendo. Non mi piace per niente, ma non posso obbligarti a restare. Almeno qui non sei prigioniera.» Fece una piccola pausa. «Sta’ attenta, là fuori.»

2.
Per un giorno e mezzo avevano percorso un bel po’ di strada senza avere intoppi. Erano arrivati nel punto più critico e su quello Giorgio era stato chiarissimo: «State alla larga dalla città dei Mutanti del Cemento. Allungate verso nord e girate intorno alla Discarica.»
«E come riconosciamo la città?»
«Ci saranno vecchi cartelli stradali. Il nome è Foggia. Dopo quella, c’è un’area semidesertica, con i resti di un paese disabitato, Lucera, mi pare, o Nucera. Da lì superate il confine, sarete alla Via delle Croci, in Molise.» Teha ricordava che Giorgio l'aveva guardata come una condannata a morte. «Il Molise non esiste, è solo un’invenzione geografica. Quella è terra di nessuno. Se sei lì, è come se non fossi da nessuna parte. Non c’è nessuna regola, nessuno che ti possa sentire, o che possa venire in tuo aiuto. È quello che vuoi?»
Lei non aveva risposto.
Quel pomeriggio, lei e Dora avevano superato la Discarica e avevano visto le indicazioni per Foggia. «Ora dobbiamo stare nascoste. Allungheremo un po’, ma non preoccuparti ti porterò da Zio Dario.»
Dora, con lo sguardo apatico, aveva mormorato: «Zio Dario. Via delle Croci.»

A sera, avevano deciso di accamparsi, per trovare riparo dalle esalazioni che arrivavano dalla Discarica. Durante tutto il tragitto, Teha aveva studiato Dora, sperando di carpire quello che la ragazzina di dodici anni poteva aver passato per essersi ridotta in quelle condizioni. Sapeva che era facile finire vittima delle barbarie in quella Puglia devastata. Dora era distrutta: non parlava se non per ripetere sempre quelle parole, e la luce nei suoi occhi era quasi inesistente, come avesse già deciso di essere morta.
Teha sperava con tutto il cuore che riportarla da suo Zio Dario la potesse aiutasse in qualche modo. Ma soprattutto sentiva che fare quella traversata avrebbe aiutato lei. Non si sentiva così determinata da quando aveva deciso di scappare da Léon, per non essere più una Schiava del Dolore.
«Dora, siamo a buon punto. Non sei contenta?»
«Zio Dario.»
«Sì, certo. Stiamo andando da lui. Domattina ho bisogno del tuo aiuto per procurarci dell’acqua. Te la senti?»
«Via delle Croci, Zio Dario.»
Teha era un po’ esasperata. «Va bene. Sì. Domani però dobbiamo controllare un pozzo qua vicino. Io mi avvicino e tu fai la guardia. ok?»
«Zio Dario. Zio! Dario!»
Forse Teha stava riponendo troppa fiducia nella ragazzina, ma avevano bisogno dell’acqua anche se voleva dire uscire allo scoperto. Probabilmente stava scommettendo la sua vita su una bambina traumatizzata.
«Via delle Croci!» esclamò Dora, come se avesse capito che stava pensando a lei. Poi si accasciò su un fianco e si mise a dormire.
Teha si avvicinò alla ragazzina e le accarezzò una ciocca di capelli. Ogni volta che la toccava aveva una spiacevole sensazione, ma era qualcosa di passeggero. La guardò dormire, il volto placido e la mente devastata ora persa nel sonno.
«Povera Dora. Quei segni che ti ritrovi sulla pelle, io li conosco benissimo. Sono il preludio all’inferno.» Fece una pausa per prendere un respiro amaro. «Anche io ho iniziato così: dopo pochi giorni dai Marchi, sono arrivati i chirurghi e mi hanno installato questi innesti.» E scrollò le spalle per verificare che tutti i tubi e i fili fossero tutti al loro posto, sottopelle, diretti verso il suo asso ventre. «Un sistema di produzione di droga: mi hanno trasformato in una fabbrica di endomorfina, derivata dall’endorfina.»

I suoi ricordi tornarono a qualche tempo prima, a prima che fuggisse, quando la stavano addestrando a fare quello per cui l’avevano creata: c’era un uomo, si chiamava Léon, crudele e spietato che aveva messo le cose in chiaro, un’espressione che significava che prima l’aveva picchiata, poi l’aveva violentata e poi le aveva parlato. Era sempre così, quando metteva le cose in chiaro. «Ora che ho la tua attenzione, puttana, ti dico quello che devi fare. È semplicissimo.» E la colpì ancora al volto.
Lei singhiozzò, coprendosi il volto con le mani, mentre il sistema di tubi sottopelle si attivava con un ronzio sinistro. Dopo pochi secondi, sentì in mezzo alle gambe una sensazione di umido.
«Brava!» esultò Léon. E le diede un altro schiaffo.
Il liquido aumentò.
«Vedi? Questo è quello che devi fare. Farti picchiare, tutte le volte che un cliente lo vuole, senza mai tirarti indietro. Perché ogni volta che qualcuno ti procura dolore…» altro schiaffo. «Tu sbrodoli. E quella è droga, tesoro mio, la migliore endomorfina che corpo umano possa produrre. Il sistema che hai dentro è all’avanguardia, il top. Mi è costato un sacco di soldi e tu dovrai ripagarmelo con gli interessi.»
Teha continuava a singhiozzare, tenendosi la mano sul volto, seduta nuda in un lago di umori.
«Oh, beh, non è finita qui, ovviamente.» La afferrò per i capelli e la rivoltò. «Sei pur sempre una puttana, quindi dopo, i clienti ti scoperanno. Così va la vita, no?» Léon rise. «E così ora sei titolare, Teha. Vedi di non deludere il tuo allenatore!» E continuò a ridere, mentre lei piangeva.

Ecco da cosa era fuggita Teha, e non poteva lasciare Dora in balia di quel destino. Doveva salvarla e portarla da Zio Dario, a Via delle Croci, fosse l’ultima cosa che faceva.

3.
La mattina successiva arrivarono al pozzo, vicino a una catapecchia.
Dopo aver scrutato il paesaggio brullo e desolato, Teha si rivolse a Dora: «Tu sta qui, vado a vedere.»
La donna si mosse veloce verso la casupola di lamiere: era ingombra di spazzatura, un materasso coperto di macchie scure e i resti di un fuoco. Chiunque aveva vissuto lì, sembrava essere andato via da tempo.
Tirò un sospiro di sollievo e si diresse verso il pozzo. Sul fondo vide baluginare dell’acqua. Si voltò verso Dora per richiamare la sua attenzione. Lei era lì immobile dove l’aveva lasciata, a fissare un punto perso in lontananza. Teha agitò una mano, e in quel momento da dietro una roccia emerse un uomo dalla pelle grigia, deformata da croste chitinose. Gli occhi erano delle pietre infiammate e guizzanti e sembrava annusare l’aria per saggiarne la consistenza. La mano destra era solo un moncherino scheggiato, le dita sgretolate come pietre farinose.
Un Mutante del Cemento.
Il mostro ruggì, un suono secco e pastoso come il passaggio di rocce dentro una clessidra d’osso. In due balzi fu su Teha e la scaraventò al suolo, immobilizzandola.
Teha cominciò a ruotare la testa a destra a sinistra per cercare Dora, per chiederle aiuto, per sapere se poteva contare su di lei, o per farla fuggire.
Il mostro le teneva le braccia ferme sotto le ginocchia e quando le aprì il poncho, emise un grugnito di vittoria: «FEMMINA!» urlò trionfante. La scoprì del tutto.
Il passato, che Teha sperava di essersi lasciato indietro, la raggiunse con la potenza di un treno in corsa. Oh dio, no, non con questo coso!
«DORA!» urlò con quanto fiato aveva in gola. La vide a pochi passi da lei, immobile, in piedi, la solita espressione stolida sul volto.
Infastidito dalle sue urla, il mostro le sferrò un ceffone in faccia, spaccandole il labbro.
Il dolore esplose come un vecchio amico e il sistema di innesti che aveva sulla schiena si mise al lavoro, sintetizzando l'endomorfina. Teha si sentì inondare le sue parti basse, una sensazione appiccicosa e disgustosa. «No, no!» disse, mentre su di lei quell'essere era pronto a finire il lavoro. Le stava divaricando le gambe a forza, con la mano integra, nodosa e tagliente per le croste di cemento. «Dora, per l’amor di dio, aiutami!» Ma la ragazza rimase ferma, senza neanche sbattere gli occhi.
Il mutante la penetrò, e Teha strinse gli occhi, spremendo fuori le lacrime amare che stava versando, ingoiando il sangue che le colava dal labbro ferito. Il dolore continuava a farle produrre droga. Si accorse che il mostro ne era particolarmente sensibile: stava ansimando, gli occhi rivolti al cielo, in estasi.
Teha ebbe un’idea.
Strinse i denti, furiosa, e incastrò il mignolo nel terreno. Spinse con il braccio per quanto le permetteva la morsa con cui era bloccata a terra.
Fu sufficiente: con un schiocco sordo che avvertì fino al gomito, il dito si ruppe e un’ondata di dolore la travolse.
Il suo corpo reagì di conseguenza, buttando nel sangue vagonate di endorfine. Il sistema di sintesi fece il resto: in un lago di secrezioni, il mutante assorbì una quantità immane di droga che nell’arco di pochi istanti raggiunse il suo cervello già scarsamente funzionante. Fu un attimo, e Teha lo vide rigirare gli occhi all’indietro, le pupille strette come due capocchie di spillo, e poi accasciarsi esanime.
Overdose.
La donna si scalzò il mutante di dosso e prese a massaggiarsi la mano, il mignolo che sporgeva in posizione innaturale. Raccolse tutto il coraggio di cui disponeva e con uno strattone che le tolse il respiro, raddrizzò il mignolo alla bell’e meglio.
Léon lo diceva sempre ai suoi clienti: niente ossa rotta o è peggio per voi!

4.
Dopo aver recuperato l’acqua, Teha e Dora proseguirono. Il mutante che avevano incontrato era sicuramente un solitario. Con un branco, non ce l’avrebbero mai fatta.
«Perché non mi hai aiutato?» chiese Teha.
Nessuna risposta.
«Ti avevo chiesto di fare la guardia. Se fossi morta, cosa ne sarebbe stato di te?»
Nessuna risposta.
«E perché non ti ha sentito? Non ti ha attaccato?» Alla fine le chiese: «Chi sei?»
«Zio Dario, Via delle Croci.»
«Sì, sì, ok. Ti ci porto. Spero solo che questo Zio ti possa aiutare.» Teha, snervata, sentiva ancora il bisogno di riportare la bambina dai suoi parenti, quasi una necessità fisica.

Oltre la terra desertica tra i resti di Lucera, superarono il confine. Fu come oltrepassare una specie di membrana, non tanto fisica quanto mentale: l’idea stessa del Molise era velenosa, un purgatorio malato, Terra di Nessuno infestata da esseri umani e derelitti.
Teha cominciava ad avere paura, perché da quel momento in poi potevano solo seguire la Via delle Croci: non c’erano strade secondarie o vie alternative. Sperava che in quella landa vivessero anche persone normali, poveri disperati che cercavano di sbarcare il lunario, e tra quelli ci fosse lo Zio Dario.
«La Via delle Croci porta a un qualche villaggio?»
«Zio Dario.»
Teha voleva prenderla a schiaffi.
L’aria, più rarefatta odorosa di vegetazione morta e carne putrefatta, li accolse all’inizio della Via delle Croci, uno dei peggiori manufatti umani.
«È terrificante!»
Teha lasciò correre lo sguardo. Ai bordi della strada, c’erano alberi marcescenti e rachitici, cespugli agonici e terra bruciata, ma il vero orrore era a terra. L’asfalto era stato sostituito da esseri umani morti sulle croci e poi incastrati gli uni agli altri, ancora inchiodati al loro supplizio. Il patchwork di cadaveri era stato ricoperto di resina trasparente, solidificata a fare da manto stradale.
«È come camminare sui morti.» disse Teha con un filo di voce.
Fece l’errore di guardare giù e due occhi vitrei, sbarrati in un’espressione di dolore ricambiarono il suo sguardo.
A Teha scappò un singhiozzo, mentre muoveva i passi attraverso questo cimitero a vista.
Dora sembrava insensibile: si muoveva apatica come sempre, spedita, in un’unica direzione. Non abbassava lo sguardo, non sembrava distratta dalla storia di morte sotto i suoi piedi. «Via delle Croci.» continuava a ripetere, anche ora che erano arrivate.
«Siamo qui, Dora. Non sei contenta? Tra un po’ sarai da tuo zio e questa storia sarà finita.»
Proseguirono e quando incontravano zone di asfalto sbrecciato che lasciavano emergere i corpi decomposti, Teha accelerava il passo per lasciarsi l’orrore alle spalle.

Dietro una curva a gomito, incontrarono un furgoncino messo di traverso sulla strada. «Ci sono due uomini. Dora, li conosci?»
«Zio Dario!» Esclamò Dora. «Via delle Croci! Zio Dario!» sembrava essersi animata un po’ di più.
Teha prese coraggio e avanzò il più lentamente possibile, sperando che uno dei due fosse davvero Zio Dario.
«E tu chi cazzo sei?» esplose la voce di quello con il cappello, mentre l’altro più giovane con l’orecchino faceva il giro del veicolo.
«Sto scortando questa bambina. Si chiama Dora. Sto cercando suo Zio Dario.» urlò Teha alzando le mani per far vedere che era disarmata.
I due si guardarono. «Quale bambin-» disse Orecchino, ma Cappello gli diede una gomitata.
«Ah, Dora è con te! La… la bambina, sì.»
«Zio Dario. Lo conoscete?»
Orecchino sembrava disorientato.
Cappello invece era più a suo agio. «Conosciamo Dario, certo. Venga.»
Dora nel frattempo sembrava più arzilla, continuava a ripetere «Zio Dario Zio Dario Zio Dario», a pochi passi da lei.
Teha notò le mazze chiodate, ma Cappello le sorrise, per tranquillizzarla: «Siamo pur sempre in Molise, no? Lei e la bambina potete avvicinarvi.»
«Ma quale bambina del cazzo?» sussurrò Orecchino.
«E sta’ zitto, coglione.» lo apostrofò Cappello. «Venga, signora. La scorteremo da Dario. E vieni anche tu Dora.» E a quelle parole sorrise e fece un cenno…
Ma lo fece dall'altra parte rispetto a dove si trovava la bambina. «Che cazz…» Teha avvertì qualcosa di sbagliato e si allarmò.
«Prendila!» ordinò Cappello e Orecchino scattò verso di lei. «E non la danneggiare!»
Teha si girò, inciampò nel terreno vetrificato e finì con la faccia a terra. Orecchino le fu addosso e la tirò su. La portò verso Cappello. Teha vide Dora ferma davanti a lei che fissava la strada, la sentiva ripetere ancora «Zio Dario zio Dario zio Dario».
Il tizio con il cappello si avvicinò sorridendo. «Bentornata, tesoro. Respira questo.» e le schiacciò sulla bocca un fazzoletto umido.
Tornata? Lei o Dora?
Dopo pochi istanti, svenne.

5.
«Ehi, come ti chiami?»
Una voce sconosciuta che arrivava da lontano la richiamava alla realtà. Non era quella di Dora.
Thea spalancò gli occhi. «DORA!»
In un attimo fu sveglia.
Era rinchiusa in una gabbia di metallo, nuda. Si tastò il corpo e le dita seguirono la carta geografica di dolore che le sue cicatrici disegnavano su ogni centimetro quadrato della sua pelle: bruciature di sigarette, segni da taglio, elettrocuzione, morsi, graffi.
«Siamo ridotte maluccio.» si intromise nuovamente la voce.
Si girò e vide una donna sdentata dai capelli grigi e la pelle raggrinzita nella cella accanto. Anche lei aveva degli innesti che solcavano i lati del collo e arrivavano alle guance.
«Chi sei? Dov’è Dora?»
«Sono Kara, al suo sevizio, signora.» E scoppiò a ridere, una risata gracchiante al limite della follia. «E se cerchi Dora, prima dimmi: cos'è per te Dora?»
«È una bambina che ho incontrato pochi giorni fa. La dovevo riportare a casa.»
«Per te era una bambina. Che carina. Ma non eri tu che portavi a casa Dora, piccola mia. Credi davvero che non l’avessero previsto?»
«Chi?»
«Chiunque ha immaginato di montare questi affari sulla nostra schiena. Chiunque ha deciso che eravamo buone per essere picchiate e stuprate con il solo scopo di produrre droga.» Fece una risatina secca, guardando il vuoto con aria sognante. «Un tempo, per gli uomini le donne erano una droga, sai? Ora noi siamo diventate l’essenza stessa di quella metafora, siamo la personificazione di un modo di dire, piccola mia.»
«Anche tu sei una ragazza…» Teha poteva ben vedere il corpo rinsecchito di Kara, un monumento vivente alla fantasia torturatrice degli uomini. Come il suo.
«Oh, se sono una ‘ragazza rubinetto’? Che la picchi e si bagna?» rise nuovamente in quel modo polveroso. «Beh, lo sono stata per molto tempo, ma ora la parte migliore di me è cambiata. Si diventa secche dopo un po’. E sdentate! Ora sono esperta solo con la bocca. Devi vedere come sbavo, un san Bernardo idrofobo che secerne sintoamfetamine.» I suoi occhi erano velati da una disperazione senza fine.
«Dov’è Dora?»
Kara si avvicinò alle sbarre che la separavano da Teha. «Tesoro mio, non hai davvero capito? Non sei tu che hai portato Dora a casa, ma è lei che ti ha riportato all’Inferno. Credevi davvero che non avessero pensato che potevamo fuggire? Oh sì! E hanno ideato il sistema più bastardo del mondo per non doverci neanche cercare.»
Teha non capiva.
«Quel sistema si chiama D.O.R.A.: Dispositivo Occulto di Ritorno Automatico. La tua Dora non esiste, è un programma che ti fotte il cervello e ti convince a tornare qui, sulla Via delle Croci e neanche te ne accorgi! Per te era una bambina? Poteva essere un oggetto, una lettera di un lontano parente… qualunque cosa potesse fare presa su di te!»
Teha rivisse con crescente orrore i fatti dei giorni precedenti: la comparsa improvvisa di Dora, di cui nessuno pareva accorgersi. L’episodio con il Mutante del Cemento. I due al posto di blocco. E ancor di più, l’impellenza ingiustificata con cui voleva a tutti i costi portare a termine la missione.
«Vedo che stai realizzando come ti hanno fottuto, no? Adesso Léon sta decidendo come mettere le cose in chiaro. Preparati a qualcosa di coreografico.»
Teha cominciò ad avere paura: il peggio doveva ancora venire. «No. Kara, non posso sopportare ancora una volta tutto quello che mi hanno fatto. Preferisco morire.»
«Oh oh, non puoi, bambina mia. Quell'aggeggio, che è il tuo nuovo giogo, non te lo permetterebbe. Sei una schiava, non puoi prendere decisioni. Sei condannata.»
«Ci deve essere un modo per sfuggire a tutto questo.» Se non trovava una soluzione, sarebbe impazzita per quello che volevano farle. Si bloccò.
«Che cosa butti fuori dalla bocca?»
«Io? Sintoamfetamine. Non chiedermi l’effetto, perché io sono protetta dalle mie stesse droghe e tu dalle tue.»
Teha si avvicinò alle sbarre. «Ascolta, Kara.» Le sbarre erano larghe abbastanza da far passare appena il naso e la bocca. «C’è un modo per salvarmi»
«Oh no, non c’è, bambina mia.»
«E invece sì. Se non posso scappare con il corpo, allora mi brucio la mente. Non sentirò niente, sarà come se non esistessi.»
«Oh oh, certo, provaci. Come farai?»
«Lo scoprirai presto. Mi spiace.»
L’altra la guardò perplessa, e poi spaventata quando Teha le afferrò il braccio attraverso le sbarre e lo portò dalla sua parte. Lo strinse e l’espressione di Kara si colorì di sofferenza. Un filo di bava cominciò a colarle sul mento.
Teha le prese la testa e gliela tirò verso le sbarre. Avvicinò anche la sua cercò di bere la bava che stava colando fuori dalla bocca della vecchia.
Teha chiuse gli occhi e spezzò il braccio di Kara in mezzo alle sbarre. La donna dall’altra parte gorgogliò di sofferenza. L’impennata tremenda del dolore da frattura aveva inondato le fauci di Kara di bava. Teha ne stava bevendo quanto più possibile. Nonostante il sapore viscido e rancido, rimase attaccata alla faccia di Kara.
Voleva l’overdose di sintoamfetamina e, con un ultimo scampolo di lucidità, morse le labbra di Kara e ne bevve anche il sangue.
Continuò fin quando ne ebbe le forze, e alla fine, con un suono schioccante si staccò. Avvertì distrattamente i singhiozzi di Kara che si accasciava dall’altra parte cercando di ritirare il braccio fratturato, scolando saliva sul petto vecchio e nudo.
Teha si librò in aria e volteggiò nella stanza, sorridendo al suo corpo.
Niente poteva farle male. Neanche Léon e gli altri uomini che erano entrati e che cercavano di risvegliarla a schiaffi e calci.
Non sentiva niente.
E il sistema di produzione di Endomorfina rimaneva silente.
Era solo un guscio vuoto, inservibile.
Aveva vinto.

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wladimiro.borchi
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Re: Semifinale Fortunato Licandro

Messaggio#3 » domenica 10 febbraio 2019, 22:22

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PORCI FASCISTI FIGLI DI TROIA

Il sipario della coscienza si spalanca sul bianco di quello che ha tutta l’aria di essere un lenzuolo.
«Eccolo! Vedi, si sveglia. Te lo dicevo che dormiva poco. Ora ci pensa lui, ci salva tutti!»
La voce proviene da molto vicino, c’è qualcuno seduto sul suo letto, ne percepisce il contatto con le gambe rattrappite tra le coperte.
Si gira in quella direzione, mentre gli occhi si abituano alla luce: un tizio tarchiato, con due enormi baffi bianchi.
«Allora, compagno! Ce ne andiamo?»
Chi cazzo è? E non è l’unica domanda che gli rimbalza nella testa.
«Forza, compagno Wladimir! Bisogna scappare prima che torni la ronda. Vuoi che ti torturino un’altra volta? Guarda come l’hanno conciato poverino!»
L’ultima parte della frase senza senso è rivolta al letto a fianco del suo. Dove, però, non c’è nessuno.
«Con chi parli?» dice, tirandosi su e andando a sedersi con la schiena alla spalliera del suo giaciglio.
«Col pezzo di merda!» gli risponde soddisfatto il curioso interlocutore, indicando con la mano aperta il vuoto davanti ai propri occhi.
«Chi sei? Dove siamo?»
«Ah, allora ti hanno proprio ridotto male, compagno! Sono Marisio, il compagno Marisio! Siamo stati catturati dai fascisti. Bisogna andare via subito, prima che tornino. Ti hanno torturato. Per quello non ti ricordi nulla! Forza, tirati su! Dobbiamo trovare l’uscita e non farci vedere dalle guardie armate.»
L’uomo si lascia i lunghi baffi con le dita, poi, come colto da un fretta improvvisa, scatta in piedi.
«Forza, pezzo di merda, dammi una mano a far alzare il compagno Wladimir!»
«Faccio da solo, grazie.»
Tira fuori i piedi scalzi da sotto le coperte e si accorge di essere nudo.
«Ti ho preso i vestiti. Sono sul letto. Mettili e andiamo! Ci resta davvero poco tempo.»
«Ma c'è modo di uscire senza essere visti, compagno?»
Lo asseconda. Un po’ perché non sa cosa altro fare e un po’ perché ricordi offuscati dentro la testa gli dicono che, anche se il tizio baffuto sta dando evidenti segni di squilibrio, deve fidarsi di lui.
«Riconoscere la sconfitta è la prima tappa verso la vittoria, compagno. Come diceva Vittorio Pozzo. Prima ho cercato un modo per farli fuori tutti, ma sono troppi quei bastardi! Ora, però, ho trovato una via non sorvegliata. Quella da cui passano loro. E ho preso questa!» risponde soddisfatto mostrando una piccola chiave dorata.
Wladimir si alza a fatica e indossa i vestiti preparati per lui dall’amico: «Fammi strada, Marisio! Cioè, volevo dire, compagno…»
«Non ti preoccupare! Vedrai che appena sarai libero ti ricorderai di tutto. Usano modi terribili per farci parlare, la perdita della memoria è una difesa del cervello. Serve a non farti impazzire. Seguimi.»
L’ometto si porta sulla soglia della stanza di detenzione e apre la porta per scrutare l’esterno dal piccolo spiraglio aperto.
«Porca zozza, compagno!» sussurra. «C’è una guardia fuori dalla porta. Bisogna stenderla.»
Si rivolge quindi all’immaginario terzo componente del commando: «Pezzo di merda, pensaci tu!»
Marisio attende qualche secondo per poi scuotere la testa deluso: «Macchè, guarda che fifone! È andato a nascondersi dietro al letto. Avessi i muscoli che ha lui non me lo farei ripetere.»
«Ci penso io!»
Nonostante si sia messo in piedi da poco, si sente pieno di energie e vuole davvero tirar fuori le gambe da quella situazione il prima possibile.
A fianco della porta c’è una scopa, abbandonata in un angolo con la sua paletta. Rapido, come un consiglio non richiesto, ne sfila il bastone e lo rotea dinanzi agli occhi come se non avesse fatto altro in tutta la vita.
«Grande! Così bisogna fare. Attaccare è il modo migliore per difendere la propria porta. Lo diceva Roberto Carlos. Ti ricordi chi è?»
Wladimir si limita a scuotere la testa.
«Te ne ricorderai, compagno! Te ne ricorderai. Ora tiriamoci fuori da qua. Pezzo di merda, tu almeno coprici le spalle.»
Dopo essersi rivolto all’amico immaginario dietro al letto con tono perentorio, non tarda a spendere comunque qualche parola anche in suo favore: «Lo devi scusare, sai. Ne ha passate tante anche lui.»
Il redivivo alza il bastone sopra la testa.
«Sbrighiamoci!»
Il tizio tracagnotto apre la porta lentamente, fino a mostrare la guardia di spalle.
Il colpo è violento, tanto che il bastone si spezza e l’uomo cade a terra senza emettere un fiato.
Dopo il tonfo sordo del corpo sul pavimento, i due sono nel corridoio deserto.
«Non c’è nessun’altro. Forse riusciamo davvero a cavarcela.»
«Ma certo, compagno, che ce la facciamo. Credi che non abbia pensato a tutto? Il piano è preciso nei dettagli. Seguimi! Da questa parte.»
Passi silenziosi accompagnano i due amici lungo il corridoio dalle pareti spoglie, che termina dinanzi a due porte, una sul fondo e una sulla parete di destra.
«Pezzo di merda, qual è la porta giusta?»
Marisio scuote la testa imbarazzato: «Ecco, vai a fidarti delle persone. Avevo detto a lui di fare una piantina. E adesso?»
Se il bastone non si fosse rotto, forse ora Wladimir lo starebbe usando per spappolare il suo liberatore psicotico.
«Procediamo a tentativi!» sussurra tra i denti, prima di aprire la porta al centro «Non voglio essere ancora qua, quando la guardia si sveglia»
Oltre la soglia, due energumeni giocano a carte, seduti a un tavolinetto in legno.
Quello girato dalla loro parte non può non notarli.
«E voi che ci fate qui?» domanda, alzandosi in piedi, seguito dal collega.
I fuggitivi corrono nell’altra porta, trovandosi in un corridoio piuttosto ampio, su cui si affacciano numerose altre uscite.
Dalle loro spalle giungono grida affannate: «Fermateli! Stanno scappando!»
La corsa termine tra le braccia di altri due tizi, che spuntano da un momento all’altro lungo la loro via.
I compagni Marisio e Wladimir fanno appena in tempo a sentire il bruciore dell’iniezione nel gluteo, prima di scivolare nel buio.


***

Il direttore è nervoso questa mattina.
Ha dovuto interrompere la sua breve vacanza a Torino, con la famiglia per colpa dei fuggitivi.
E non è la prima volta che i due cercano di scappare.
Da quando è entrato nel suo ufficio si ripete che a Torino ci sono solo il Barolo, i gianduiotti e i gobbi.
Sì! Fa come la volpe con l’uva ed è depresso e arrabbiato. Tanto arrabbiato.
Marisio è bloccato sulla sedia dinanzi alla sua scrivania.
«Che dobbiamo fare con lei Serci? Quando ha intenzione di finirla di tormentare quel disgraziato?»
L’uomo scuote la testa, «Non sono stato io! È stato il pezzo di merda.» poi si rivolge alla sedia vuota al suo fianco «Diglielo se hai coraggio, Diglielo!».
Il direttore prende il più lungo respiro della sua vita.
«Serci, nelle sue condizioni, io non posso, ahimè, farla legare al letto. La faccio spostare all’ultimo piano, nella speranza che sei rampe di scale le facciano passare la voglia di andare a infarcire la testa di stupidaggini al signor Vitali. Ma la prossima volta le giuro che prenderò provvedimenti. La faccio spostare in un altro ospedale. Non si vergogna a prendere in giro quel poveretto che soffre di amnesia?»
Marisio si rivolge alla sedia: «Hai visto? Ha ragione il Professore! Non si fa, Pezzaccio di merda! Non si fa! Lo tengo a bada io, non si preoccupi. Deve dirci altro?»


***

Il sipario della coscienza si spalanca sul bianco di quello che ha tutta l’aria di essere un lenzuolo.
«Camerata! Dobbiamo andare subito via, siamo ostaggio delle zecche comuniste. Forza, alzati! Non c’è tempo da perdere!»

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