Pani ca meusa
Inviato: lunedì 25 marzo 2019, 23:57
N.B. il mio siciliano è parecchio arrugginito, sorvolate. È più he altro una traccia... :D
È tutto vero. Non mi affannerò a negare.
Voglio dire sin da subito che non intendo fare pubblicità alla cosa, quindi la Santa Sede non avrà bisogno di mandare qualcuno a fare “le dovute pulizie”, come direbbe sua Eminenza. Mi limiterò ad andarmene per la mia strada e non sentirete più parlare di me.
Un’altra cosa che non mi affannerò a fare è chiedere perdono. Non mi pento di nulla.
Per oltre un decennio ho detto ai fedeli di due continenti che l’amore è un dono di Dio e che voltargli le spalle è come voltarle a Dio stesso. Non erano solo parole.
So cosa direte: è stato tutto un tranello di Satana per corrompere un altro servo devoto di Nostro Signore. L’ho pensato anche io, all’inizio, ma poi ho compreso la Verità.
La terza e ultima cosa che non mi affannerò a fare è spiegarvela, questa Verità: non è compito mio, deciderà il Signore se e quando.
Dico solo che la perfezione è divina, per sua stessa natura Satana non può ambire a tanto.
E quindi, senza timore di blasfemia, posso dire con certezza che con quel pompino, con quei seni e financo con la rottura dell’altare, Satana non c’entra proprio niente.
Deus lo volt, come disse Pietro l’Eremita per la crociata dei pezzenti.
Non siamo forse tutti pezzenti di fronte a Dio e all’Amore?
Il Cardinal Morazzi strinse il pugno attorno al foglio di carta e fissò gelido il sottoposto.
«Un altro?»
«Un altro, Eminenza.»
«Si può sapere che hanno le fanciulle di Palermo? È il sesto in due anni.»
«Se volete posso procurarle del materiale per, come dire, approfondire la questione. Deve solo dirmi di che età le grad…»
Morazzi batté il pugno sul tavolo, impattando su un fermacarte a forma di corona di spine che gli graffiò un dito. Digrignò i denti, sospeso tra l’istinto di infilare all’assistente il fermacarte in gola e quello di rispondergli che le donne gli facevano schifo.
Fece un respiro profondo mentre guardava le gocce di sangue scomparire tra le venature scure del noce nero della scrivania. «Ci avevano assicurato che questo aragonese era un devoto asessuato. L’avevamo scelto apposta.»
Il sottoposto sorrise. «La parola degli spagnoli è seconda solo a quella dei francesi in quanto ad inaffidabilità, Eminenza.»
«No,» rispose il porporato, «c’è sotto qualcosa. Per tutti i Santi, non uno, sei. Capisci? Sei! Non può essere un caso: siamo sotto attacco.»
«Non so, eminenza, le ragazze palermitane sanno essere molto…» Si fermò, come se non riuscisse a trovare la parola giusta, il suo volto sembrava raccontare mille storie tutte insieme. Scegliere un laico per assistente era stata una buona decisione, dopotutto.
«Fa’ quel che devi,» disse il cardinale, «muovi i tuoi fili. Senti anche il tuo parente, quello che fa i panini con la milza giù in Vucciria, come si chiama? Dici sempre che non c’è nulla che succeda a Palermo senza che lui lo sappia; bene, che ribalti ogni pietra da Cefalù a Trapani, se qualcuno cospira contro la mia Arcidiocesi, lo devo sapere.»
«Mio cugino Mimmo, cioè, Domenico, Eminenza. Lo contatterò subito. Ma non si faccia aspettative. Temo che lo spagnolo sarà solo l’ennesimo uomo casto che ha ceduto alle quattro labbra. Sic et simpliciter.»
«Non devi temere, non devi pensare, devi agire. E chiamiamo i gesuiti, che ci mandino Monsignor Spanò.» Il cardinale si infilò il dito gocciolante tra le labbra e cominciò a succhiare.
«Smettila di mangiugare idda merda, finirai col diventare stupido.»
Mimmozzo diede una pedata nelle costole al figlio che ruzzolò giù dalla poltrona.
Il ragazzo non mollò il controller della Switch e, in una mancanza d’istinto di conservazione da vero maschio alfa, si schiantò sul pavimento col volto. La barretta ai cereali light che aveva tra i denti colpì le piastrelle per prima senza lasciare scampo agli incisivi: in un fiotto di sangue, i denti si piegarono all’indietro, lasciando nelle gengive quattro piccoli fori allungati.
«Sei più ciuccio come tuo fratello, pace all’anima sua, ma almeno lui teneva due palle da toro e lo stomaco di un mangiacarogne.» Mimmo alzò lo sguardo al soffitto e sentì un inizio di pianto pizzicargli il naso.
Il ragazzo gorgogliò qualcosa in risposta dal tappeto, le labbra tirate e le gengive in bella vista.
«Che schifo, Santino,» continuò Mimmozzo, «chiudi quella bocca che fai impressione. Te lo diceva sempre tua madre, pace all’anima sua, che mangiare tutte quelle barrette ti avrebbe rovinato i denti. Ora mi toccherà pure riempire di soldi il signor Fredo per farteli rifare.»
Tirò fuori di tasca un rotolo di banconote e lo gettò a terra, centrando la chiazza di sangue che si allargava fin sulle piastrelle candide. La televisione mandò dei rumori di auto che si schiantavano.
«Tiè, vai a farti i denti nuovi, e poi vieni in negozio. Che ormai hai sette anni: se sei abbastanza grande per cominciare il catechismo, è ora che impari anche i segreti di famiglia.»
Con l’altra mano, Mimmo prese anche la barretta light, un incisivo del figlio sbucava ancora incastrato tra due fiocchi d’avena, appena sopra Il logo di Vitherba impresso nel cioccolato del rivestimento. Sbuffò. «Un Gambino a pane e milza deve crescere. Che direbbe tuo nonno, pace all’anima sua? Ah?» Alzò il mento inquisitorio. «Le sue ultime parole sono state proprio per te: “Un vero Gambinu iè, tiene ‘a baddazza come a mmia”.» Diede una manata sul ventre piatto del figlioletto. «E adesso guarda qua, che mi significa ‘sta panza piatta? Sei una disgrazia, un disonore.»
Il bambino si rimise in piedi, non piangeva. Abbassò il capo e un filamento di bava rossa gli colò dal labbro fino ai piedi. «Ma il maestro dice che la pancia è sint…»
La mano spessa come un tavolo da taverna gli si abbatté sulla guancia, mandandolo sdraiato dopo una piroetta. «Iddu nuddu ammiscatu ccu nienti iè. Muto deve stare.» Fece un respiro e abbassò il tono della voce. «Santuzzo, rispondi a papà: si dà retta alle minchie caricata ad acqua? A uno che tiene tre figli con la faccia del signor Fredo?»
«No, babà.»
Mimmozzo sollevò il figlio per il colletto e se lo mise in braccio. Il corto grembiule in vita riempì la maglietta del ragazzo di strisciate unte. «Bravo. Che t’ho detto che ci devi rispondere, a lui e a tutta questa gente che ti vuol mettere in testa strane idee?»
«Di stare muto…»
«E?»
Il figlio sputò a terra un grumo denso e si asciugò la bocca dal sangue con l’avambraccio. Fissò lo sguardo in quello del padre. «E che se non lo fa gli caccio i denti così giù per la gola che il prossimo pasto lo ha da masticare col culo.»
Un sorriso si allargò sul volto di Mimmo. Gli occhi pieni di lacrime. «Bravo Santuzzo a papà, io lo sapevo che sotto quell’aria da maccarruni si nascondeva un vero Gambino. Ma come t’è venuta in mente, è beddissima!» Tirò su col naso e scrollò il capo. «Però, Santù, dillo in dialetto, che fa più effetto. Non c’è cosa come il siculo per zittire i fetusi, ah?»
«Sì, papà. Ma non è mia, l’ho sentita in un film.»
«Sta’ senza pensieri e nun t’arriminare: arricriarsi con i film giusti, quelli bbuóni, è una cosa! Io sono cresciuto con Svarziniggher e, modestamente…» Si chinò, poggiò il figlio a terra e gli diede una pacca sul fondoschiena. «Da bravo, ora vai a cambiarti e raggiungimi di sotto, è ora che impari il mestiere dei tuoi avi.» Gli fece l’occhiolino. «E lavati bene la faccia, sembra che hai fatto di bocca a una bottana col marchese.»
«Sì, papà.» Aveva già cominciato a parlare meglio, era un duro suo figlio.
Lo guardò zompettare rapido fuori dalla stanza. Il ragazzo era il futuro dei Gambino, l’avrebbe presto messo a parte del segreto che si tramandavano di padre in figlio da quattro secoli.
Mimmo si alzò e si avviò a propria volta verso la porta.
«Lo sto tirando su proprio bene.» lanciò un’occhiata alla parete, la vecchia foto di suo padre in colori slavati lo guardava torva. «Fare il padre mi viene persino meglio che fare i panini.»
La scritta “GAME OVER” lampeggiava sulla televisione.
Mimmozzo vide il figlio attraverso la vetrata, appena al di là della scritta “macelleria taglio kosher”, retaggio di suo padre.
«Eccomi, papà.» Santuzzo entrò in bottega, rivolgendogli un sorriso a sedici denti, i fori degli incisivi spiccavano ancora lividi nel rosa delle gengive.
Dietro di lui, appena fuori dalla porta, quello che aveva tutta l’aria di essere un turista: Mimmozzo avrebbe detto americano per la stazza, greco per il profilo.
«Deve entrare?» si sbracciò Mimmo verso il forestiero, conscio che non lo avrebbe sentito attraverso i doppi vetri, ma quello fece un sorriso e si affannò ad alzare le mani scuotendo la testa.
«Guadda, guadda, ficci i foto pi l’Instagrammi» Gli strillò sorridendo affabile, «N’addiventano minne se continui a fissarli, sempre pani ca meusa sono.» Scompigliò i capelli del figlio e si avviò alla porta. «Insta di minchia.» Abbozzò un inchino e girò il cartello di metallo a ventose sulla scritta “chiuso”.
La cantina era umida, un vago odore di muffa aleggiava tra i sentori di rosmarino, coriandolo e urina stantia. Mimmozzo spinse dentro il figlio.
Al centro della stanza, legato per i polsi a un gancio di metallo che calava dal soffitto, c’era un uomo nudo. Aveva il pisello piccolissimo, poteva passare per un fagiolo.
«Forse che ti sei spretato per una bottana non è molto credibile come storia.» Disse Mimmozzo carezzandosi il mento. «Ma ormai è tardi per preoccuparsene.» Diede una manata sulle spalle di Santuzzo finché il piccolo fu davanti al prigioniero. «Colpiscilo.»
Il ragazzo esitò.
«Forte.» Il padre insisté.
Un’altra esitazione.
Mimmozzo si chinò dinanzi al figlio e gli carezzò la fronte. «Figghiu miu,» disse, «u sacciu ch’è difficile la prima volta…»
«Papà, io…»
Mimmozzo lo interruppe con una ginocchiata nel basso ventre che lo mandò carponi. Non gli piaceva picchiarlo, ma pisciare sangue per qualche giorno gli avrebbe fatto bene. A lui ne aveva fatto. «Qual è la prima regola di un Gambino?»
Tra i colpi di tosse, la voce di Santuzzo risuonò stentorea «N-nessuna pietà.»
«E picché cincischi allora? Un Gambino non cincischia.» Si avviò verso il prigioniero e gli tirò un cazzotto, appena sotto la linea delle costole. Il rumore sordo delle nocche fu lo stesso del batticarne su quattro dita di polpa.
«Vedi? Accussì, dritto in da mèusa, se la pesti quando è ancora vivo poi viene più morbida e tiene meglio i succhi.» Guardò il figlio. «Ora tu.»
«Sì, papà.» Santuzzo si alzò a stento, digrignò i denti e si schiantò con tutti i suoi venticinque chili nell’esatto punto in cui era ancora visibile la chiazza rossa del colpo del padre. Pareva posseduto: pugni chiusi, mani aperte, colpi di taglio, persino una testata. Era una furia.
«Hai visto che quando vuoi…» Mimmozzo lo guardò orgoglioso. «Dagli al porco, senza pietà, per tutti i tuoi avi.»
Durò un paio di minuti, poi il piccolo si lasciò cadere a terra, esausto. Lacrime di rabbia gli rigavano le gote. L’uomo appeso si contorceva e strillava nel bavaglio da quando uno dei colpi di Santuzzo lo aveva colpito sul fagiolo.
«Beddu, beddu e bravo. Ora cosa bisogna fare prima di macellarlo?»
«Rendere onore al giuramento» ansimò il piccolo.
«È il periodo più attivo di sempre della nostra famiglia, e io sono fiero che è arrivato il tuo momento.»
Santuzzo si mise di fronte all’incaprettato e si schiarì la voce.
«Voi cristiani avete rotto la minchia, e ora avete a pagare.» Santuzzo lanciò un’occhiata al padre che annuiva serafico, fino a qui tutto bene. Ogni volta che Mimmo si muoveva, a lui si contraevano in automatico tutti i muscoli dal collo all’inguine. Lo faceva per il suo bene, lo capiva, gliel’aveva detto chiaro il nonno prima di morire: “Santuzzino, tuo padre è un po’ ciuccio, forse gliele ho suonate troppe da picciriddu, ma spero ca lui farà lo stesso con te, perché sei un Gambino, e noi veniamo su a botte e pani ca meusa. Accetta tutto con grande orgoglio, l’orgoglio dei Gambino.”
Erano state parole più o meno vuote fino a quella mattina, quando Mimmo l’aveva messo a parte del segreto di famiglia.
«Conosci le origini storiche del panino con la milza?» chiese al salame umano, non rispose. «Il 1492 per molti è l’anno in cui fu scoperta l’America, ma per noi…» Un’altra occhiata al padre. «Per noi è l’anno in cui il cattolicissimo Ferdinando d’Aragona, su consiglio del Cardinale di Palermo, impedì a tutti gli ebrei nelle città del Regno di Sicilia di venire pagati in denaro. “Sono già fin troppo ricchi”, aveva detto. Ma per ogni strozzino ebreo, c’erano almeno cinquanta sguatteri ebrei che lavoravano dai macellai, che furono molto contenti dell’editto e presero quindi a pagarci con gli scarti: trachea, vene, intestini e… milza.»
Mimmozzo muoveva la mandibola, come se i denti fossero a caccia di pellicine.
«Ci avete rovinati, ridotti alla fame. Le parole di un cattolicissimo ci hanno feriti e uccisi più di spade e cannoni.»
«Ahi.» disse Mimmozzo grave.
Santuzzo sentì la rabbia montargli dentro, gli sembrava di sentire la sofferenza dei suoi avi, la loro sete di vendetta.
«Ma noi non ci siamo arresi. Quando la vita ti dà le milze, tu fai panini, vendili fuori dalle città, in mezzo alla merda, a pochi centesimi, pochi ma che si accumulano, fino a quando puoi pagare dei documenti falsi che certificano il tuo stato di sangue e cambiano il tuo cognome da Gabbai al cristianissimo Gambino, riconsegnandoti a una vita da dignitoso figlio di Cristo.» Prese fiato, ansante. «Quei tempi sono passati, ma la mia gente non dimentica: il debito è ancora aperto e gli interessi corrono.»
«Quanto trasporto,» disse Mimmozzo, «mi hai fatto emozionare.» Si alzò in piedi e posò gli occhi sul prigioniero. «Da quattro secoli la famiglia Gambino tiene i conti e passa a riscuotere. Abati, frati, vicari. I nostri preferiti sono i preti del rione, quelli che controllavano che gli ebrei avessero ciò che il re aveva comandato.» Rise. «Ma, per noi, siete solo rate. Come dicevano i latini: peculia non dolet. Tu lo sai il latino? So che non ve lo studiano più. Vuol dire che non c’importa da dove vengono i pagamenti, i soldi son soldi.» Si portò una mano alla cintura e ne trasse un lungo coltello che porse al figlio. «Avanti, Santu’, e ricordati la seconda regola: nessuno spreco.»
Il ragazzo prese la lama e la soppesò. Il padre scattò in piedi e gli diede un ceffone dietro la nuca. «Basta scrupoli, Santuzzo!»
Avrebbe voluto dirgli che lui era un Gambino, che di scrupoli non ne aveva mai avuti, che voleva solo gustarsi i momenti. Alla fine, era la sua prima volta, il suo primo contributo alla causa.
«Sì, papà» rispose. Si fece sotto al bersaglio e affondò la lama lungo la linea tra le costole e gli addominali, disegnando una linea che gli parve perfetta. Il sanguinamento fu minimo e, attraverso lo squarcio, si scorgevano la pelle rosata degli intestini e lei: la milza.
«Minchia,» sentenziò Mimmozzo, «iè grossa. Chi l’avrebbe detto? ‘sta minchia monca tiene i visciri d’un montone.» Si leccò le labbra. «Idda stufata in da sausa sarà ‘na prelibatezza.»
Santuzzo alzò gli occhi alla preda che strillava e provava a dibattersi, sembrava uno stoccafisso. «Da buoni Ebrei avremmo voluto chiedere dei soldi come risarcimento. Però, vedi, i macellai ebrei non possono venire pagati in denaro. Ci avete obbligati ad accettare pagamenti in frattaglie e ci siamo adattati.» Affondò la lama nel tessuto che collegava milza e intestini al resto del corpo e una cascata di viscere crollò sul pavimento, spandendo nell’aria l’odore acre della bile e dello sterco. «Accettiamo questa rata a parziale copertura del debito secolare che voi cattolici avete con la nostra gente.»
Alle loro spalle, la porta della cantina cigolò.
L’uomo che entrò era grosso, di sicuro un forestiero. Aveva il fisico di una di quelle comparse americane nei fast food dei film. Suo nonno l’avrebbe apprezzato: un ventre tanto prominente era sempre degno di un certo rispetto.
Da sotto il cappotto nero che calava come una campana fino quasi a terra, sbucavano due piedi nudi dentro sandali di cuoio, una croce tau in legno al centro del petto.
«Chi minchia vuoi? Non hai visto il cartello?» esplose Mimmozzo.
L’intruso sorrise e scosse appena la testa, non sembrava capire una parola. Indicò l’uomo sbudellato.
Suo padre si diresse a passi rapidi verso di lui. «Voi cristiani sempre a cacciare la minchia dove non dovreste. Poco male, con idda panza, terrai ‘na meusa come un cocomero.»
Mimmo afferrò l’uomo per le spalle e tirò per rovesciarlo a terra, ma quello non si mosse. Come un macigno enorme di cui sporgeva dal terreno solo la punta.
Accadde in un attimo: le braccia dell’uomo rotearono attorno ai polsi di Mimmozzo e li chiusero in una chiave articolare come quelle dei film. Nello stesso movimento fluido, il panzone si infilò una mano sotto la giacca e ne trasse una pesante croce di metallo i cui bracci corti erano penne di un’ascia.
L’arma si abbatté su suo padre prima che Santuzzo potesse rendersene conto.
Tanto, troppo sangue.
«Dominus pascit me, et nihil mihi deerit.»
La voce dell’uomo era profonda, una specie di gracidio faceva capolino su ogni sillaba intermedia. Lasciò la presa e Mimmozzo cadde a terra, l’ascia che gli scompariva tra la clavicola e la scapola. Tossì una schiuma rosso vivo e prese a trascinarsi con il braccio sano, il volto contratto in una maschera furiosa. Raggiunse Santuzzo in tre lunghe bracciate e lo usò come una stampella per rimettersi in piedi.
Il turista sorrideva, ancora fermo all’ingresso. «Così è questo il motivo,» disse, nella voce sempre quel maledetto gracidio. «Siete stati bravi, bellissime lettere, molto realistiche: nessuno in curia aveva mai sospettato nulla fino a questo momento. Ma è proprio questo il problema del “fino a questo momento”, che dura solo, appunto, fino a questo momento.»
«Santu’,» gorgogliò Mimmozo con un filo di voce, il braccio ferito che penzolava inerte. «Non aver paura. Qui ci penso io, lo distraggo e tu intanto scappi.»
«Non vado da nessuna parte!» rispose lui, la rabbia che gli bruciava dentro sovrastando la disperazione.
«Tu hai da fare quello che tta dicu io!» Tossì. «Ricordati la sacra missione, è più importante di qualsiasi cosa.»
Avrebbe voluto dirgli di no, che avrebbero ammazzato insieme quel panzone, che lui, sì, lui perdeva troppo sangue e non ce l’avrebbe fatta da solo.
«Sì, papà» disse.
«Bravo Santuzzo mio!» Sputò a terra un grumo di sangue. «Hai davanti giorni duri, ma dovrai ricostruire, e a questo scopo ricordati sempre la terza e ultima regola.»
«La terza regola?» Chiese il figlio.
«Sì, è la più importante di tutte, alla base di tutte le nostre possibilità.» Espirò altre bolle di saliva mista a sangue. «Ascolta bene.» Gli accostò le labbra all’orecchio. «Nessuno. Scontrino. Fiscale.»
Gli strappò di mano il coltello da macellaio e si lanciò verso il panzone in un ringhio lacerante. Non l’aveva mai visto tanto determinato, faceva paura.
Senza pensare, Santuzzo corse verso l’uscita a denti stretti. A poche spanne da lui, il rumore sordo di un corpo che cadeva a terra.
«Fa’ che sia il panzone,» pensò serrando le palpebre. «Il panzone!»
Agguantò la maniglia e tirò con tutte le forze che aveva. La porta si aprì e lui riaprì gli occhi: la stretta scalinata si inerpicava fino al piano di sopra. Ci si lanciò a rotta di collo.
Poggiò il piede sul primo gradino e una mano lo afferrò per la collottola. Si sentì sollevare e trascinare indietro. Solo suo padre aveva tanta forza nelle braccia, gli pareva di riconoscerne il tocco brutale.
Santuzzo finì scaraventato a terra, al centro di un’enorme chiazza di sangue. Volse lo sguardo e, accanto a sé, il corpo inerme di Mimmozzo lo fissava con occhi vuoti.
«Salve, Eminenza,» ancora il gracidio. Santuzzo si voltò e vide il turista che parlava al telefono. «Sono Spanò.» Pausa. «Il problema è risolto. Era l’informatore.» Pausa. «Non me l’aspettavo nemmeno io. Stenderò un rapporto al mio rientro.» Pausa. «Avrò anche un piccolo regalo.»
Si rimise il telefono in tasca e fece due passi verso di lui. Gli fu sopra in un respiro. Bastardo.
«U-uccidimi,» gli disse Santuzzo, «un Gambino non si doma!»
Spanò rise.
«Non essere sciocco, piccolo.» Si schiuse in un ghigno sadico. «Siamo preti, noi i bambini mica li uccidiamo…»
È tutto vero. Non mi affannerò a negare.
Voglio dire sin da subito che non intendo fare pubblicità alla cosa, quindi la Santa Sede non avrà bisogno di mandare qualcuno a fare “le dovute pulizie”, come direbbe sua Eminenza. Mi limiterò ad andarmene per la mia strada e non sentirete più parlare di me.
Un’altra cosa che non mi affannerò a fare è chiedere perdono. Non mi pento di nulla.
Per oltre un decennio ho detto ai fedeli di due continenti che l’amore è un dono di Dio e che voltargli le spalle è come voltarle a Dio stesso. Non erano solo parole.
So cosa direte: è stato tutto un tranello di Satana per corrompere un altro servo devoto di Nostro Signore. L’ho pensato anche io, all’inizio, ma poi ho compreso la Verità.
La terza e ultima cosa che non mi affannerò a fare è spiegarvela, questa Verità: non è compito mio, deciderà il Signore se e quando.
Dico solo che la perfezione è divina, per sua stessa natura Satana non può ambire a tanto.
E quindi, senza timore di blasfemia, posso dire con certezza che con quel pompino, con quei seni e financo con la rottura dell’altare, Satana non c’entra proprio niente.
Deus lo volt, come disse Pietro l’Eremita per la crociata dei pezzenti.
Non siamo forse tutti pezzenti di fronte a Dio e all’Amore?
Il Cardinal Morazzi strinse il pugno attorno al foglio di carta e fissò gelido il sottoposto.
«Un altro?»
«Un altro, Eminenza.»
«Si può sapere che hanno le fanciulle di Palermo? È il sesto in due anni.»
«Se volete posso procurarle del materiale per, come dire, approfondire la questione. Deve solo dirmi di che età le grad…»
Morazzi batté il pugno sul tavolo, impattando su un fermacarte a forma di corona di spine che gli graffiò un dito. Digrignò i denti, sospeso tra l’istinto di infilare all’assistente il fermacarte in gola e quello di rispondergli che le donne gli facevano schifo.
Fece un respiro profondo mentre guardava le gocce di sangue scomparire tra le venature scure del noce nero della scrivania. «Ci avevano assicurato che questo aragonese era un devoto asessuato. L’avevamo scelto apposta.»
Il sottoposto sorrise. «La parola degli spagnoli è seconda solo a quella dei francesi in quanto ad inaffidabilità, Eminenza.»
«No,» rispose il porporato, «c’è sotto qualcosa. Per tutti i Santi, non uno, sei. Capisci? Sei! Non può essere un caso: siamo sotto attacco.»
«Non so, eminenza, le ragazze palermitane sanno essere molto…» Si fermò, come se non riuscisse a trovare la parola giusta, il suo volto sembrava raccontare mille storie tutte insieme. Scegliere un laico per assistente era stata una buona decisione, dopotutto.
«Fa’ quel che devi,» disse il cardinale, «muovi i tuoi fili. Senti anche il tuo parente, quello che fa i panini con la milza giù in Vucciria, come si chiama? Dici sempre che non c’è nulla che succeda a Palermo senza che lui lo sappia; bene, che ribalti ogni pietra da Cefalù a Trapani, se qualcuno cospira contro la mia Arcidiocesi, lo devo sapere.»
«Mio cugino Mimmo, cioè, Domenico, Eminenza. Lo contatterò subito. Ma non si faccia aspettative. Temo che lo spagnolo sarà solo l’ennesimo uomo casto che ha ceduto alle quattro labbra. Sic et simpliciter.»
«Non devi temere, non devi pensare, devi agire. E chiamiamo i gesuiti, che ci mandino Monsignor Spanò.» Il cardinale si infilò il dito gocciolante tra le labbra e cominciò a succhiare.
«Smettila di mangiugare idda merda, finirai col diventare stupido.»
Mimmozzo diede una pedata nelle costole al figlio che ruzzolò giù dalla poltrona.
Il ragazzo non mollò il controller della Switch e, in una mancanza d’istinto di conservazione da vero maschio alfa, si schiantò sul pavimento col volto. La barretta ai cereali light che aveva tra i denti colpì le piastrelle per prima senza lasciare scampo agli incisivi: in un fiotto di sangue, i denti si piegarono all’indietro, lasciando nelle gengive quattro piccoli fori allungati.
«Sei più ciuccio come tuo fratello, pace all’anima sua, ma almeno lui teneva due palle da toro e lo stomaco di un mangiacarogne.» Mimmo alzò lo sguardo al soffitto e sentì un inizio di pianto pizzicargli il naso.
Il ragazzo gorgogliò qualcosa in risposta dal tappeto, le labbra tirate e le gengive in bella vista.
«Che schifo, Santino,» continuò Mimmozzo, «chiudi quella bocca che fai impressione. Te lo diceva sempre tua madre, pace all’anima sua, che mangiare tutte quelle barrette ti avrebbe rovinato i denti. Ora mi toccherà pure riempire di soldi il signor Fredo per farteli rifare.»
Tirò fuori di tasca un rotolo di banconote e lo gettò a terra, centrando la chiazza di sangue che si allargava fin sulle piastrelle candide. La televisione mandò dei rumori di auto che si schiantavano.
«Tiè, vai a farti i denti nuovi, e poi vieni in negozio. Che ormai hai sette anni: se sei abbastanza grande per cominciare il catechismo, è ora che impari anche i segreti di famiglia.»
Con l’altra mano, Mimmo prese anche la barretta light, un incisivo del figlio sbucava ancora incastrato tra due fiocchi d’avena, appena sopra Il logo di Vitherba impresso nel cioccolato del rivestimento. Sbuffò. «Un Gambino a pane e milza deve crescere. Che direbbe tuo nonno, pace all’anima sua? Ah?» Alzò il mento inquisitorio. «Le sue ultime parole sono state proprio per te: “Un vero Gambinu iè, tiene ‘a baddazza come a mmia”.» Diede una manata sul ventre piatto del figlioletto. «E adesso guarda qua, che mi significa ‘sta panza piatta? Sei una disgrazia, un disonore.»
Il bambino si rimise in piedi, non piangeva. Abbassò il capo e un filamento di bava rossa gli colò dal labbro fino ai piedi. «Ma il maestro dice che la pancia è sint…»
La mano spessa come un tavolo da taverna gli si abbatté sulla guancia, mandandolo sdraiato dopo una piroetta. «Iddu nuddu ammiscatu ccu nienti iè. Muto deve stare.» Fece un respiro e abbassò il tono della voce. «Santuzzo, rispondi a papà: si dà retta alle minchie caricata ad acqua? A uno che tiene tre figli con la faccia del signor Fredo?»
«No, babà.»
Mimmozzo sollevò il figlio per il colletto e se lo mise in braccio. Il corto grembiule in vita riempì la maglietta del ragazzo di strisciate unte. «Bravo. Che t’ho detto che ci devi rispondere, a lui e a tutta questa gente che ti vuol mettere in testa strane idee?»
«Di stare muto…»
«E?»
Il figlio sputò a terra un grumo denso e si asciugò la bocca dal sangue con l’avambraccio. Fissò lo sguardo in quello del padre. «E che se non lo fa gli caccio i denti così giù per la gola che il prossimo pasto lo ha da masticare col culo.»
Un sorriso si allargò sul volto di Mimmo. Gli occhi pieni di lacrime. «Bravo Santuzzo a papà, io lo sapevo che sotto quell’aria da maccarruni si nascondeva un vero Gambino. Ma come t’è venuta in mente, è beddissima!» Tirò su col naso e scrollò il capo. «Però, Santù, dillo in dialetto, che fa più effetto. Non c’è cosa come il siculo per zittire i fetusi, ah?»
«Sì, papà. Ma non è mia, l’ho sentita in un film.»
«Sta’ senza pensieri e nun t’arriminare: arricriarsi con i film giusti, quelli bbuóni, è una cosa! Io sono cresciuto con Svarziniggher e, modestamente…» Si chinò, poggiò il figlio a terra e gli diede una pacca sul fondoschiena. «Da bravo, ora vai a cambiarti e raggiungimi di sotto, è ora che impari il mestiere dei tuoi avi.» Gli fece l’occhiolino. «E lavati bene la faccia, sembra che hai fatto di bocca a una bottana col marchese.»
«Sì, papà.» Aveva già cominciato a parlare meglio, era un duro suo figlio.
Lo guardò zompettare rapido fuori dalla stanza. Il ragazzo era il futuro dei Gambino, l’avrebbe presto messo a parte del segreto che si tramandavano di padre in figlio da quattro secoli.
Mimmo si alzò e si avviò a propria volta verso la porta.
«Lo sto tirando su proprio bene.» lanciò un’occhiata alla parete, la vecchia foto di suo padre in colori slavati lo guardava torva. «Fare il padre mi viene persino meglio che fare i panini.»
La scritta “GAME OVER” lampeggiava sulla televisione.
Mimmozzo vide il figlio attraverso la vetrata, appena al di là della scritta “macelleria taglio kosher”, retaggio di suo padre.
«Eccomi, papà.» Santuzzo entrò in bottega, rivolgendogli un sorriso a sedici denti, i fori degli incisivi spiccavano ancora lividi nel rosa delle gengive.
Dietro di lui, appena fuori dalla porta, quello che aveva tutta l’aria di essere un turista: Mimmozzo avrebbe detto americano per la stazza, greco per il profilo.
«Deve entrare?» si sbracciò Mimmo verso il forestiero, conscio che non lo avrebbe sentito attraverso i doppi vetri, ma quello fece un sorriso e si affannò ad alzare le mani scuotendo la testa.
«Guadda, guadda, ficci i foto pi l’Instagrammi» Gli strillò sorridendo affabile, «N’addiventano minne se continui a fissarli, sempre pani ca meusa sono.» Scompigliò i capelli del figlio e si avviò alla porta. «Insta di minchia.» Abbozzò un inchino e girò il cartello di metallo a ventose sulla scritta “chiuso”.
La cantina era umida, un vago odore di muffa aleggiava tra i sentori di rosmarino, coriandolo e urina stantia. Mimmozzo spinse dentro il figlio.
Al centro della stanza, legato per i polsi a un gancio di metallo che calava dal soffitto, c’era un uomo nudo. Aveva il pisello piccolissimo, poteva passare per un fagiolo.
«Forse che ti sei spretato per una bottana non è molto credibile come storia.» Disse Mimmozzo carezzandosi il mento. «Ma ormai è tardi per preoccuparsene.» Diede una manata sulle spalle di Santuzzo finché il piccolo fu davanti al prigioniero. «Colpiscilo.»
Il ragazzo esitò.
«Forte.» Il padre insisté.
Un’altra esitazione.
Mimmozzo si chinò dinanzi al figlio e gli carezzò la fronte. «Figghiu miu,» disse, «u sacciu ch’è difficile la prima volta…»
«Papà, io…»
Mimmozzo lo interruppe con una ginocchiata nel basso ventre che lo mandò carponi. Non gli piaceva picchiarlo, ma pisciare sangue per qualche giorno gli avrebbe fatto bene. A lui ne aveva fatto. «Qual è la prima regola di un Gambino?»
Tra i colpi di tosse, la voce di Santuzzo risuonò stentorea «N-nessuna pietà.»
«E picché cincischi allora? Un Gambino non cincischia.» Si avviò verso il prigioniero e gli tirò un cazzotto, appena sotto la linea delle costole. Il rumore sordo delle nocche fu lo stesso del batticarne su quattro dita di polpa.
«Vedi? Accussì, dritto in da mèusa, se la pesti quando è ancora vivo poi viene più morbida e tiene meglio i succhi.» Guardò il figlio. «Ora tu.»
«Sì, papà.» Santuzzo si alzò a stento, digrignò i denti e si schiantò con tutti i suoi venticinque chili nell’esatto punto in cui era ancora visibile la chiazza rossa del colpo del padre. Pareva posseduto: pugni chiusi, mani aperte, colpi di taglio, persino una testata. Era una furia.
«Hai visto che quando vuoi…» Mimmozzo lo guardò orgoglioso. «Dagli al porco, senza pietà, per tutti i tuoi avi.»
Durò un paio di minuti, poi il piccolo si lasciò cadere a terra, esausto. Lacrime di rabbia gli rigavano le gote. L’uomo appeso si contorceva e strillava nel bavaglio da quando uno dei colpi di Santuzzo lo aveva colpito sul fagiolo.
«Beddu, beddu e bravo. Ora cosa bisogna fare prima di macellarlo?»
«Rendere onore al giuramento» ansimò il piccolo.
«È il periodo più attivo di sempre della nostra famiglia, e io sono fiero che è arrivato il tuo momento.»
Santuzzo si mise di fronte all’incaprettato e si schiarì la voce.
«Voi cristiani avete rotto la minchia, e ora avete a pagare.» Santuzzo lanciò un’occhiata al padre che annuiva serafico, fino a qui tutto bene. Ogni volta che Mimmo si muoveva, a lui si contraevano in automatico tutti i muscoli dal collo all’inguine. Lo faceva per il suo bene, lo capiva, gliel’aveva detto chiaro il nonno prima di morire: “Santuzzino, tuo padre è un po’ ciuccio, forse gliele ho suonate troppe da picciriddu, ma spero ca lui farà lo stesso con te, perché sei un Gambino, e noi veniamo su a botte e pani ca meusa. Accetta tutto con grande orgoglio, l’orgoglio dei Gambino.”
Erano state parole più o meno vuote fino a quella mattina, quando Mimmo l’aveva messo a parte del segreto di famiglia.
«Conosci le origini storiche del panino con la milza?» chiese al salame umano, non rispose. «Il 1492 per molti è l’anno in cui fu scoperta l’America, ma per noi…» Un’altra occhiata al padre. «Per noi è l’anno in cui il cattolicissimo Ferdinando d’Aragona, su consiglio del Cardinale di Palermo, impedì a tutti gli ebrei nelle città del Regno di Sicilia di venire pagati in denaro. “Sono già fin troppo ricchi”, aveva detto. Ma per ogni strozzino ebreo, c’erano almeno cinquanta sguatteri ebrei che lavoravano dai macellai, che furono molto contenti dell’editto e presero quindi a pagarci con gli scarti: trachea, vene, intestini e… milza.»
Mimmozzo muoveva la mandibola, come se i denti fossero a caccia di pellicine.
«Ci avete rovinati, ridotti alla fame. Le parole di un cattolicissimo ci hanno feriti e uccisi più di spade e cannoni.»
«Ahi.» disse Mimmozzo grave.
Santuzzo sentì la rabbia montargli dentro, gli sembrava di sentire la sofferenza dei suoi avi, la loro sete di vendetta.
«Ma noi non ci siamo arresi. Quando la vita ti dà le milze, tu fai panini, vendili fuori dalle città, in mezzo alla merda, a pochi centesimi, pochi ma che si accumulano, fino a quando puoi pagare dei documenti falsi che certificano il tuo stato di sangue e cambiano il tuo cognome da Gabbai al cristianissimo Gambino, riconsegnandoti a una vita da dignitoso figlio di Cristo.» Prese fiato, ansante. «Quei tempi sono passati, ma la mia gente non dimentica: il debito è ancora aperto e gli interessi corrono.»
«Quanto trasporto,» disse Mimmozzo, «mi hai fatto emozionare.» Si alzò in piedi e posò gli occhi sul prigioniero. «Da quattro secoli la famiglia Gambino tiene i conti e passa a riscuotere. Abati, frati, vicari. I nostri preferiti sono i preti del rione, quelli che controllavano che gli ebrei avessero ciò che il re aveva comandato.» Rise. «Ma, per noi, siete solo rate. Come dicevano i latini: peculia non dolet. Tu lo sai il latino? So che non ve lo studiano più. Vuol dire che non c’importa da dove vengono i pagamenti, i soldi son soldi.» Si portò una mano alla cintura e ne trasse un lungo coltello che porse al figlio. «Avanti, Santu’, e ricordati la seconda regola: nessuno spreco.»
Il ragazzo prese la lama e la soppesò. Il padre scattò in piedi e gli diede un ceffone dietro la nuca. «Basta scrupoli, Santuzzo!»
Avrebbe voluto dirgli che lui era un Gambino, che di scrupoli non ne aveva mai avuti, che voleva solo gustarsi i momenti. Alla fine, era la sua prima volta, il suo primo contributo alla causa.
«Sì, papà» rispose. Si fece sotto al bersaglio e affondò la lama lungo la linea tra le costole e gli addominali, disegnando una linea che gli parve perfetta. Il sanguinamento fu minimo e, attraverso lo squarcio, si scorgevano la pelle rosata degli intestini e lei: la milza.
«Minchia,» sentenziò Mimmozzo, «iè grossa. Chi l’avrebbe detto? ‘sta minchia monca tiene i visciri d’un montone.» Si leccò le labbra. «Idda stufata in da sausa sarà ‘na prelibatezza.»
Santuzzo alzò gli occhi alla preda che strillava e provava a dibattersi, sembrava uno stoccafisso. «Da buoni Ebrei avremmo voluto chiedere dei soldi come risarcimento. Però, vedi, i macellai ebrei non possono venire pagati in denaro. Ci avete obbligati ad accettare pagamenti in frattaglie e ci siamo adattati.» Affondò la lama nel tessuto che collegava milza e intestini al resto del corpo e una cascata di viscere crollò sul pavimento, spandendo nell’aria l’odore acre della bile e dello sterco. «Accettiamo questa rata a parziale copertura del debito secolare che voi cattolici avete con la nostra gente.»
Alle loro spalle, la porta della cantina cigolò.
L’uomo che entrò era grosso, di sicuro un forestiero. Aveva il fisico di una di quelle comparse americane nei fast food dei film. Suo nonno l’avrebbe apprezzato: un ventre tanto prominente era sempre degno di un certo rispetto.
Da sotto il cappotto nero che calava come una campana fino quasi a terra, sbucavano due piedi nudi dentro sandali di cuoio, una croce tau in legno al centro del petto.
«Chi minchia vuoi? Non hai visto il cartello?» esplose Mimmozzo.
L’intruso sorrise e scosse appena la testa, non sembrava capire una parola. Indicò l’uomo sbudellato.
Suo padre si diresse a passi rapidi verso di lui. «Voi cristiani sempre a cacciare la minchia dove non dovreste. Poco male, con idda panza, terrai ‘na meusa come un cocomero.»
Mimmo afferrò l’uomo per le spalle e tirò per rovesciarlo a terra, ma quello non si mosse. Come un macigno enorme di cui sporgeva dal terreno solo la punta.
Accadde in un attimo: le braccia dell’uomo rotearono attorno ai polsi di Mimmozzo e li chiusero in una chiave articolare come quelle dei film. Nello stesso movimento fluido, il panzone si infilò una mano sotto la giacca e ne trasse una pesante croce di metallo i cui bracci corti erano penne di un’ascia.
L’arma si abbatté su suo padre prima che Santuzzo potesse rendersene conto.
Tanto, troppo sangue.
«Dominus pascit me, et nihil mihi deerit.»
La voce dell’uomo era profonda, una specie di gracidio faceva capolino su ogni sillaba intermedia. Lasciò la presa e Mimmozzo cadde a terra, l’ascia che gli scompariva tra la clavicola e la scapola. Tossì una schiuma rosso vivo e prese a trascinarsi con il braccio sano, il volto contratto in una maschera furiosa. Raggiunse Santuzzo in tre lunghe bracciate e lo usò come una stampella per rimettersi in piedi.
Il turista sorrideva, ancora fermo all’ingresso. «Così è questo il motivo,» disse, nella voce sempre quel maledetto gracidio. «Siete stati bravi, bellissime lettere, molto realistiche: nessuno in curia aveva mai sospettato nulla fino a questo momento. Ma è proprio questo il problema del “fino a questo momento”, che dura solo, appunto, fino a questo momento.»
«Santu’,» gorgogliò Mimmozo con un filo di voce, il braccio ferito che penzolava inerte. «Non aver paura. Qui ci penso io, lo distraggo e tu intanto scappi.»
«Non vado da nessuna parte!» rispose lui, la rabbia che gli bruciava dentro sovrastando la disperazione.
«Tu hai da fare quello che tta dicu io!» Tossì. «Ricordati la sacra missione, è più importante di qualsiasi cosa.»
Avrebbe voluto dirgli di no, che avrebbero ammazzato insieme quel panzone, che lui, sì, lui perdeva troppo sangue e non ce l’avrebbe fatta da solo.
«Sì, papà» disse.
«Bravo Santuzzo mio!» Sputò a terra un grumo di sangue. «Hai davanti giorni duri, ma dovrai ricostruire, e a questo scopo ricordati sempre la terza e ultima regola.»
«La terza regola?» Chiese il figlio.
«Sì, è la più importante di tutte, alla base di tutte le nostre possibilità.» Espirò altre bolle di saliva mista a sangue. «Ascolta bene.» Gli accostò le labbra all’orecchio. «Nessuno. Scontrino. Fiscale.»
Gli strappò di mano il coltello da macellaio e si lanciò verso il panzone in un ringhio lacerante. Non l’aveva mai visto tanto determinato, faceva paura.
Senza pensare, Santuzzo corse verso l’uscita a denti stretti. A poche spanne da lui, il rumore sordo di un corpo che cadeva a terra.
«Fa’ che sia il panzone,» pensò serrando le palpebre. «Il panzone!»
Agguantò la maniglia e tirò con tutte le forze che aveva. La porta si aprì e lui riaprì gli occhi: la stretta scalinata si inerpicava fino al piano di sopra. Ci si lanciò a rotta di collo.
Poggiò il piede sul primo gradino e una mano lo afferrò per la collottola. Si sentì sollevare e trascinare indietro. Solo suo padre aveva tanta forza nelle braccia, gli pareva di riconoscerne il tocco brutale.
Santuzzo finì scaraventato a terra, al centro di un’enorme chiazza di sangue. Volse lo sguardo e, accanto a sé, il corpo inerme di Mimmozzo lo fissava con occhi vuoti.
«Salve, Eminenza,» ancora il gracidio. Santuzzo si voltò e vide il turista che parlava al telefono. «Sono Spanò.» Pausa. «Il problema è risolto. Era l’informatore.» Pausa. «Non me l’aspettavo nemmeno io. Stenderò un rapporto al mio rientro.» Pausa. «Avrò anche un piccolo regalo.»
Si rimise il telefono in tasca e fece due passi verso di lui. Gli fu sopra in un respiro. Bastardo.
«U-uccidimi,» gli disse Santuzzo, «un Gambino non si doma!»
Spanò rise.
«Non essere sciocco, piccolo.» Si schiuse in un ghigno sadico. «Siamo preti, noi i bambini mica li uccidiamo…»