Semifinale Fabrizio Borgio

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo marzo sveleremo il tema deciso da Massimo Spiga. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Massimo Spiga assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Fabrizio Borgio

Messaggio#1 » sabato 6 aprile 2019, 9:52

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Strike Force Therion.
In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti del girone Fabrizio Borgio hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi Wladimiro Borchi e Marco Lomonaco possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: lunedì 8 aprile alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 dell'8 aprile. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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wladimiro.borchi
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DON ROBERTO, IL CAZZO!

Messaggio#2 » domenica 7 aprile 2019, 23:40

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DON ROBERTO, IL CAZZO!


A chi si ama (davvero)


Era dentro di lei. L’aveva sognata per tutti e venti i giorni in cui erano dovuti rimanere lontani.
«Ti amo!»
Si muoveva rapido, spinto dal desiderio che aveva dovuto controllare per troppo tempo.
Lei lo guardava negli occhi, mentre lui la prendeva.
«Anch’io!»
Se avesse incrociato ancora il suo sguardo tutto sarebbe finito troppo presto e lei si meritava di più; entrambi ne avevano diritto dopo la forzata separazione che avevano dovuto sopportare.
La loro storia era così, scandita da infiniti istanti di ipocrisia vissuti accanto a persone che da tempo avevano smesso di amare; in famiglie che non capivano i loro sogni. Solo assieme tornavano a essere se stessi.
Si erano trovati, erano anime elette che si erano potute incontrare e vivevano quell’amore clandestino come un fidanzamento adolescenziale, donandosi completamente l’uno all’altra.
«Scopami! Dai, sì, aprimi!»
No, cazzo! No! Non adesso!
Diego uscì da lei per qualche secondo. Quando Sabrina si lasciava andare davvero diceva frasi da film porno che lo mandavano su di giri. Con sua moglie non era mai successo. Il massimo che Patrizia gli aveva concesso in oltre dieci anni di vita coniugale era qualche sospiro soffocato in una stanza buia durante noiosi e ripetitivi smorza candela. L’amante invece sapeva davvero come far perdere il controllo a un uomo. Aveva bisogno di una pausa, altrimenti sarebbe venuto come una ragazzetto alla sua prima scopata.
La baciò sulle labbra e la sua bocca iniziò a scendere lungo il profilo del suo corpo: sui seni gonfi, sui capezzoli duri come pietre, sull’ombelico, fino a gettarsi nella sua fica, nutrendosene goloso, sfogando così la propria eccitazione.
«Siiiiiiiii, ti amo!»
Gli piaceva da matti sentirla muoversi tra le sue mani, mentre il piacere di lei esplodeva sotto la sua lingua.
«Quando hai finito col mangia e bevi, avrei bisogno della tua attenzione, testa di cazzo!»
La voce maschile alle sue spalle lo fece saltare e girarsi di scatto. Sabrina si ritrasse subito, alzando la schiena dal letto.
Dinanzi a loro c’era il parroco del quartiere con indosso l’abito talare e in braccio un enorme fucile da guerra.
«Buon giorno, salutate il Signor AK 47!»
«Don Roberto?» esplosero all’unisono gli amanti.
«Don Roberto, il cazzo! Ora fai coprire la tua maiala. Sono un prete, porca troia!»
Diego non riusciva quasi a parlare: «Cosa?»
Il sacerdote alzò gli occhi al cielo, con aria scocciata: «La tua maiala, dicevo, falla coprire! Sono un cazzo di prete e non sono abituato a trovarmi davanti un paradiso di tette, fregna e culo! Se mi viene duro è peccato e poi devo fare penitenza. Capito coglione? E non voglio fare penitenza, perché Suor Gemma ha fatto le polpette al sugo. Se mi tocca digiunare per colpa di voi due stronzi, giuro che prima mi fotto la biondina e poi ti sparo nelle palle!»
Sabrina si coprì rapida col lenzuolo, con le mani che tremavano visibilmente. Entrambi gli amanti non riuscivano quasi a emettere un fiato per la paura.
«Così va meglio! Anche tu, metti un paio di mutande. Il tuo ciondolo si è liofilizzato per lo spavento, sembra la coda di un porcellino, non è un bello spettacolo te lo posso assicurare».
Diego eseguì.
«Benone, ora che tutti abbiamo un abbigliamento più consono si può dare inizio alla denuntiatio evangelica».
Per quanti sforzi facesse, l’uomo non riusciva a pensare. Quelle parole in latino gli rammentavano qualcosa, ma era un ricordo troppo lontano nel tempo e il terrore provocato dal vedersi puntare un’arma carica non era certo di aiuto alla memoria. Teneva gli occhi fissi sul fucile, assordato dal proprio respiro pesante, con il cuore che batteva all’impazzata e il corpo che tremava come scosso da un febbrone da cavallo. Sabrina doveva essere nella sua medesima condizione: anche lei non aveva aperto bocca e Diego ne udiva i sospiri affannati alle spalle.
Dopo due secondi di silenzio, Don Roberto si spazientì: «Che palle! Va bene, riprendiamo dalle basi. Diego, insegni catechismo in parrocchia, no? Bene, cosa dice Matteo 18, versetti dal 15 al 17?»
Le parole imparate a memoria gli vennero alla bocca quasi senza dover passare dal cervello, tante erano le volte che le aveva lette, ripetute o sentite in una vita di profonda fede: «Se tuo fratello ha peccato, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta di ascoltarli, dillo alla chiesa; e se rifiuta di ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano».
Il prete si sedette su una sedia alle proprie spalle, gettando a terra i vestiti dei due amanti e assunse un’espressione soddisfatta: «Porco cazzo, come sei bravo con la teoria! Peccato che nella pratica fai più schifo dei maiali, e loro si mangiano la propria merda, non so se mi spiego!»
Estrasse quindi un sigaro dal taschino della giacca e, dopo averne staccato il fondo con i denti, se lo accese, tenendo sempre l’arma nell’altra mano.
Diego provò ad aprir bocca.
«Lo so, non si può fumare in questa bettola di merda in cui venite a giocare all’incularella da almeno sei mesi. Poco male, quando abbiamo finito apriamo la finestra».
Qualcuno bussò alla porta, facendo saltare i due reclusi.
«È aperto!» Si limitò a comunicare il carceriere.
Nella stanza entrarono Tiberio e Patrizia, marito e moglie dei due amanti clandestini. Anche i nuovi arrivati avevano un fucile in spalla a testa.
Subito Diego e Sabrina abbassarono gli occhi.
«Vi vergognate, eh? Brutti porci che non siete altro!» Rise il sacerdote, riempiendo l’aria del fumo acre del toscano che continuava penzolargli dalla bocca «Dite un po’, innamorati traditi, siete andati dai vostri rispettivi consorti a esortarli a non peccare più?»
I cornuti annuirono all’unisono, mentre il prete tirava fuori due proiettili dalla tasca della tonaca e glieli consegnava.
«Ahi ahi ahi, sembra che la prima possibilità offerta da Nostro Signore non l’abbiate sfruttata, è un vero peccato!»
Diego sbottò «Non è vero! Tu non sapevi nemmeno che ti tradissi!» gridò alla moglie con quanto fiato aveva in gola.
«Lo sapevo!» Gli rispose fissandolo severa «Quante volte ti ho detto che non mi sentivo apprezzata, amata, che eri sempre distratto, che mi sentivo ferita dal tuo comportamento? Perché te lo dicevo, secondo te? Perché sapevo e volevo farti smettere… Ma tu hai voluto continuare a peccare!» concluse quindi inserendo la pallottola nel caricatore.
«E tu…» La voce di Tiberio tremava assieme al suo corpo «Ti dicevo che ero geloso, che non volevo che uscissi tutte le sere. Perché lo facevo secondo te? Perché sapevo e volevo allontanarti dal peccato».
Anche il suo fucile fu caricato «E tu invece uscivi. Prendevi libero da lavoro per venire qua con lui. Ci scopavi anche quando eri incinta di nostro figlio!»
Il prete scosse la testa «Porco cazzo, Diego, gli hai pure battezzato il figlio nello sperma! Ma che cazzo di schifo! Ed era pure un tuo amico, un tuo fratello, porcama… Non mi fate bestemmiare, cazzo, che stasera ci sono le polpette!»
Tutti e tre puntarono i fucili sui due traditori.
«Inginocchiatevi!» Tuonò Don Roberto.
Diego eseguì, seguito da Sabrina, che scoppiò a piangere.
«La denuntiatio non è completa! Non siamo stati redarguiti da altri fedeli» Gridò disperata «e nemmeno da un sacerdote!»
Il prete sbuffò altro fumo: «Perché? Quando avete raccontato il vostro segreto agli amici non vi hanno forse detto che così non ci si comporta? Che loro una cosa del genere non l’avrebbero mai fatta? Valerio, il miglior amico di Diego, ha cominciato anche a essere preoccupato per la propria moglie dopo averne ricevuto le confessioni. Non aveva mai avuto dubbi di quel tipo, ma a forza di sentir parlare di gente che non batte ciglio a farsi farcire di crema esotica, ha avuto paure che anche la metà della sua mela andasse a farsi glassare da un altro pasticcere». Scosse la testa e riprese : «Povero diavolo! Però sul sacerdote, forse avete ragione. Quel che è giusto è giusto!»
Il prete batté le mani e la porta della camera si aprì ancora una volta per lasciare entrare frate Anselmo armato di un canne mozze.
Fu in quel momento che i peccatori capirono di aver ormai sfruttato tutte le loro chance.
Il religioso col volto rubicondo e aria sognante prese a parlare con voce pacata: «Ho ricevuto la confessione di queste due pecorelle e le ho assolte entrambe… Ma solo laddove avessero rinunciato al peccato. Ma così, ahimè, evidentemente non è stato!»
Anche lui puntò l’arma sui due amanti.
«Venivate anche a fare la comunione la domenica, con la bocca ancora sporca degli schizzi dell’altro!» Gridò Don Roberto, prendendo la mira.
«Aspettate!» Diego piangeva «È vero, abbiamo peccato. Ma è un peccato di amore! Noi ci amiamo veramente. Siamo due anime separate alla nascita che si sono ritrovate. Eravamo destinati a stare assieme».
Le parole dell’uomo vennero interrotte da quelle di Sabrina che, inginocchiata al suo fianco, prese anche lei a singhiozzare in mezzo alle lacrime: «La nostra sola colpa è stata quella di essersi conosciuti dopo aver già contratto matrimonio con altre persone. Abbiamo provato a resistere al peccato, lo giuro! Abbiamo cercato in tutti i modi di far morire il sentimento che ci scoppiava dentro il cuore, ma è stato tutto inutile».
Sentendo l’amante esprimersi con parole così profonde e romantiche il pianto di Diego si colorò di commozione, perdendo l’originario tono disperato. Si voltò a guardare il suo amore negli occhi, quasi dimenticando i tre fucili puntati verso il proprio petto.
Riprese quindi il discorso, con animo rinvigorito e voce più ferma: «La mia anima chiamava la sua e la sua era attratta dalla mia. Può il Signore che è nei cieli volere altro che il trionfo dell’amore? Io penso di no. Se il nostro peccato è così grande, allora uccideteci. Ma peccherete contro Dio e contro gli uomini, perché ucciderete l’amore. Quello stesso amore che Sant’Agostino pone al disopra di qualsiasi altra cosa».
Mentre l’uomo parlava, lo sgangherato plotone di esecuzione abbassò lentamente le armi osservandolo con occhi lucidi.
Don Roberto tirò su con naso: «Sapete che vi dico, figli miei, non mi avete convinto per un cazzo!»
Il sacerdote alzò il fucile e mirò al ginocchio di Diego, rapido come se non avesse fatto altro in tutta la vita. Il colpo esplose, assieme alla rotula colpita e al grido di dolore della vittima.
«Non urlare come una femminuccia, porca troia, vuoi che venga qualcuno? Non lo sai cosa dicono le statistiche? Non ci si può fidare della gente che frequenta gli alberghi». Il prete scosse la testa, tirò una bella boccata di fumo e riprese: «In ogni caso, mentre ti dissangui, perché non racconti alla tua cagna da monta di Alba, la collega da cui te lo facevi succhiare tutte le volte che ti sentivi giù di morale?»
Sabrina, nonostante lo shock per lo sparo, sembrò capire alla perfezione e si voltò verso Diego a terra sanguinante.
«Di quale troia sta parlando? Bugiardo, falso e bastardo, avevi detto che ero la prima… l’unica!»
L’uomo, nonostante il dolore tremendo che gli attraversava ogni muscolo, riuscì a dire tra i denti: «Tu sei l’unica! Prima di te avevo confuso un’infatuazione con l’amore. Ma l’ho capito quando ti ho conosciuta!»
Seppur con la vista annebbiata, il ferito udì il prete fare un verso fastidioso con la bocca, come se imitasse qualcuno che succhiava voracemente un ghiacciolo.
«Sfido che l’avevi scambiato per amore,» aggiunse dopo aver fatto quel suono schifoso «quella se infilava una cannuccia in terra e cominciava a succhiare tirava fuori il petrolio, faceva emergere un nuovo continente ed estraeva il tesoro di Eldorado».
Sabrina scosse la testa rivolgendo a Diego il suo definitivo: «Sei proprio uno stronzo!»
Intanto Don Roberto se la rideva come un pazzo: «Ehi, tazza lurida di casino, non fare tanto la santerellina, altrimenti gli racconto del maestro di teatro, del maestro di yoga e del maestro di tuo figlio. Devi proprio avere una gran passione per la conoscenza con tutti ‘sti maestri sempre in mezzo alle gambe!» Il sacerdote si piegò, quindi, per gettare un po’ di fumo in faccia a Diego e gli sussurrò all’orecchio: «Dall’ultimo si è fatta trapanare il mese scorso, mentre stava già con te. Ma lui è più furbo, lui le ha fatto anche il culo e avresti dovuto vedere come le piaceva!».
Diego digrignò i denti, facendoli stridere gli uni sugli altri, fin quasi a romperseli, poi la frase uscì dalle sue labbra, senza nemmeno che se ne accorgesse: «Spara a quella troia!»
Il nuovo colpo risuonò nella stanza, prima che l’uomo riuscisse a rimangiarsi quelle terribili parole. Ora però che il sangue dell’amante era andato a mischiarsi col suo e che la piccola camera risuonava del suo urlo di dolore e disperazione, si vergognava di quello che aveva desiderato.
Era troppo tardi. Guardò Sabrina sdraiata accanto a lui, che stringeva con l’unica mano rimasta il moncherino su cui meno di un minuto prima era attaccato l’avambraccio sinistro, che ora giaceva in mezzo al letto alle sue spalle, staccato di netto dal colpo di fucile.
Don Roberto scosse la testa per l’ultima volta: «Che gran coppia di stronzi!»
Seguì il rumore violento e ripetuto degli spari, mentre i corpi dei due amanti venivano crivellati di colpi da ogni lato.
Poi ci fu il silenzio.
Nell’odore della cordite, l’ultima cosa che Diego sentì furono le parole beffarde del suo parroco: «Pagani e pubblicani, ci provano sempre! Andiamo a farci una birra?»

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Marco Lomonaco - Master
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Re: Semifinale Fabrizio Borgio

Messaggio#3 » lunedì 8 aprile 2019, 23:54

Pani ca meusa

È tutto vero. Non mi affannerò a negare.
Voglio dire sin da subito che non intendo fare pubblicità alla cosa, quindi la Santa Sede non avrà bisogno di mandare qualcuno a fare “le dovute pulizie”, come direbbe sua Eminenza. Mi limiterò ad andarmene per la mia strada e non sentirete più parlare di me.
Un’altra cosa che non mi affannerò a fare è chiedere perdono. Non mi pento di nulla.
Per oltre un decennio ho detto ai miei fedeli che l’amore è un dono di Dio e che voltargli le spalle è come voltarle a Dio stesso. Non erano solo parole.
So cosa direte: è stato tutto un tranello di Satana per corrompere un altro servo devoto di Nostro Signore. L’ho pensato anche io, all’inizio, ma poi ho compreso la Verità.
La terza e ultima cosa che non mi affannerò a fare è spiegarvela, questa Verità: non è compito mio, deciderà il Signore se e quando.
Dico solo che la perfezione è divina, per sua stessa natura Satana non può ambire a tanto.
E quindi, senza timore di blasfemia, posso dire con certezza che con quel pompino, con quei seni e quei fianchi, Satana non c’entra proprio niente.
Deus lo volt, come disse Pietro l’Eremita per la crociata dei pezzenti.
Non siamo forse tutti pezzenti di fronte a Dio e all’Amore?


Il Cardinal Morazzi strinse il pugno attorno al foglio di carta e fissò gelido il sottoposto.
«Un altro?»
«Un altro, Eminenza.»
«Si può sapere che hanno le fanciulle di Palermo? È il sesto in due anni.»
«Se volete posso procurarle del materiale per, come dire, approfondire la questione. Deve solo dirmi di che età le grad…»
Morazzi batté il pugno sul tavolo, impattando su un fermacarte a forma di corona di spine che gli graffiò un dito. Digrignò i denti, sospeso tra l’istinto di infilare all’assistente il fermacarte in gola e quello di rispondergli che le donne gli facevano schifo.
Fece un respiro profondo mentre guardava le gocce di sangue scomparire tra le venature scure del noce nero della scrivania. «Ci avevano assicurato che questo aragonese era un devoto asessuato. L’avevamo scelto apposta.»
Il sottoposto sorrise. «La parola degli spagnoli è seconda solo a quella dei francesi in quanto ad inaffidabilità, Eminenza.»
«No,» rispose il porporato, «c’è sotto qualcosa. Per tutti i Santi, non uno, sei. Capisci? Sei! Non può essere un caso: siamo sotto attacco.»
«Non so, Eminenza, le ragazze palermitane sanno essere molto…» Si fermò, come se non riuscisse a trovare la parola giusta, il suo volto sembrava raccontare mille storie tutte insieme. Scegliere un laico per assistente era stata una buona decisione, dopotutto.
«Sì, sì, ho capito,» disse il cardinale, «bisogna muovere i fili. Sentiamo anche il tuo parente, quello che fa i panini con la milza giù in Vucciria, come si chiama? Dici sempre che non c’è nulla che succeda a Palermo senza che lui lo sappia; bene, che ribalti ogni pietra da Cefalù a Trapani, se qualcuno cospira contro la mia Arcidiocesi, lo devo sapere.»
«Mio cugino Mimmo, cioè, Domenico, Eminenza. Andrò a parlarci in giornata, ma non si faccia aspettative: temo che lo spagnolo sarà solo l’ennesimo uomo casto che ha ceduto alle quattro labbra. Sic et simpliciter.»
«Non devi temere, non devi pensare, devi agire. Ora chiamo i gesuiti, che ci mandino Monsignor Spanò, lo voglio qui entro il pomeriggio.» Il cardinale sollevò la cornetta d’avorio del vecchio telefono a disco e la macchiò di sangue. Fece una smorfia, si infilò il dito gocciolante tra le labbra e cominciò a succhiare.

«Smettila di mangiugare idda merda, finirai col diventare stupido.»
Mimmozzo diede una pedata nelle costole al figlio che ruzzolò giù dalla poltrona.
Il ragazzo non mollò il controller della Switch e, in una mancanza d’istinto di conservazione da vero maschio alfa, si schiantò sul pavimento col volto. La barretta ai cereali light che aveva tra i denti colpì le piastrelle per prima senza lasciare scampo agli incisivi: in un fiotto di sangue, i denti si piegarono all’indietro, lasciando nelle gengive quattro piccoli fori allungati.
«Sei più ciuccio come tuo fratello, pace all’anima sua, ma almeno lui teneva due palle da toro e lo stomaco di un mangiacarogne.» Mimmo alzò lo sguardo al soffitto e sentì un inizio di pianto pizzicargli il naso.
Il ragazzo gorgogliò qualcosa in risposta dal tappeto, le labbra tirate e le gengive in bella vista.
«Che schifo, Santino,» continuò Mimmozzo, «chiudi quella bocca che fai impressione. Te lo diceva sempre tua madre, pace all’anima sua, che mangiare tutte quelle barrette ti avrebbe rovinato i denti. Ora mi toccherà pure riempire di soldi il signor Fredo per farteli rifare.»
Tirò fuori di tasca un rotolo di banconote e lo gettò a terra, centrando la chiazza di sangue che si allargava fin sulle piastrelle candide. La televisione mandò dei rumori di auto che si schiantavano.
«Tiè, vai a farti i denti nuovi, e poi vieni in negozio. Che ormai hai sette anni: se sei abbastanza grande per cominciare il catechismo, è ora che impari anche i segreti di famiglia.»
Con l’altra mano, Mimmo prese la barretta light: un incisivo sbucava ancora incastrato tra due fiocchi d’avena. Sbuffò. «Un Gambino a pane e milza deve crescere. Che direbbe tuo nonno, pace all’anima sua? Ah?» Alzò il mento inquisitorio. «Le sue ultime parole sono state proprio per te: “Un vero Gambinu iè, tiene ‘a baddazza come a mmia”.» Diede una manata sul ventre piatto del figlioletto. «E adesso guarda qua, che mi significa ‘sta panza piatta? Sei una disgrazia, un disonore.»
Il bambino si rimise in piedi, non piangeva. Abbassò il capo e un filamento di bava rossa gli colò dal labbro fino ai piedi. «Ma il maestro dice che la pancia è sint…»
La mano spessa come un tavolo da taverna gli si abbatté sulla guancia, mandandolo sdraiato dopo una piroetta. «Iddu nuddu ammiscatu ccu nienti iè. Muto deve stare.» Fece un respiro e abbassò il tono della voce. «Santuzzo, rispondi a papà: si dà retta alle minchie caricata ad acqua? A uno che tiene tre figli con la faccia del signor Fredo?»
«No, babà.»
Mimmozzo sollevò il figlio per il colletto e se lo mise in braccio. Il corto grembiule in vita riempì la maglietta del ragazzo di strisciate unte. «Bravo. Che t’ho detto che ci devi rispondere, a lui e a tutta questa gente che ti vuol mettere in testa strane idee?»
«Di stare muto…»
«E?»
Il figlio sputò a terra un grumo denso e si asciugò con l’avambraccio. Fissò lo sguardo in quello del padre. «E che se non lo fa gli caccio i denti così giù per la gola che il prossimo pasto lo ha da masticare col culo.»
Un sorriso si allargò sul volto di Mimmo. Gli occhi pieni di lacrime. «Bravo Santuzzo a papà, io lo sapevo che sotto quell’aria da maccarruni si nascondeva un vero Gambino. Ma come t’è venuta in mente, è beddissima!» Tirò su col naso e scrollò il capo. «Però, Santù, dillo in dialetto, che fa più effetto. Non c’è cosa come il siculo per zittire i fetusi, ah?»
«Sì, papà. Ma non è mia, l’ho sentita in un film.»
«Sta’ senza pensieri e nun t’arriminare: arricriarsi con i film giusti, quelli bbuóni, è una cosa! Io sono cresciuto con Svarziniggher e, modestamente…» Si chinò, poggiò il figlio a terra e gli diede una pacca sul fondoschiena. «Da bravo, ora vai a cambiarti e raggiungimi di sotto, è ora che impari il mestiere dei tuoi avi.» Gli fece l’occhiolino. «E lavati bene la faccia, sembra che hai fatto di bocca a una bottana col marchese.»
«Sì, papà.» Aveva già cominciato a parlare meglio, era un duro suo figlio.
Lo guardò zompettare rapido fuori dalla stanza. Il ragazzo era il futuro dei Gambino, l’avrebbe presto messo a parte del segreto che si tramandavano di padre in figlio da quattro secoli.
Mimmo si alzò e si avviò a propria volta verso la porta.
«Lo sto tirando su proprio bene.» lanciò un’occhiata alla parete, la vecchia foto di suo padre in colori slavati lo guardava torva. «Fare il padre mi viene persino meglio che fare i panini.»
La scritta “GAME OVER” lampeggiava sulla televisione.

Il cardinal Morazzi schioccò le dita e fece un cenno al sottoposto che si bloccò sull’uscio. Che diavolo voleva ancora il vecchio?
«Sarebbe perfetto.» Disse nella cornetta d’avorio. «Sì, certo. No, assolutamente. Sì. Mi dia un attimo.» Si volse eccitato verso l’attendente. «È Spanò, è già qui, in città. Dice di non preoccuparsi, che ora ci pensa lui e di non immischiarsi. Gli serve l’indirizzo della bottega di tuo cugino.»
«Ma, Eminenza, si era detto che ci sarei and…»
«Oh, basta così. Spanò vuole parlare con gli informatori di persona.»
«Ma, Eminenza, non sarebbe m…»
Coprì con la mano il ricevitore. «Cos’è tutta questa reticenza? L’indirizzo. Subito!»
L’uomo sulla soglia abbassò il capo. «Sì, Eminenza.» Maledizione, doveva almeno trovare il modo di avvertire Mimmo.

Mimmozzo vide il figlio attraverso la vetrata, appena al di là della scritta “macelleria taglio kosher”, retaggio di suo padre.
«Eccomi, papà.» Santuzzo entrò in bottega, rivolgendogli un sorriso a sedici denti, i fori degli incisivi spiccavano ancora lividi nel rosa delle gengive.
Dietro di lui, appena fuori dalla porta, quello che aveva tutta l’aria di essere un turista: Mimmozzo avrebbe detto americano per la stazza, greco per il profilo, era coperto da una veste nera che gli dava l’aria della campana. Chissà quanti panini ci stavano, in quella pancia.
«Deve entrare?» si sbracciò Mimmo verso il forestiero, conscio che non lo avrebbe sentito attraverso i doppi vetri, ma quello fece un sorriso e si affannò ad alzare le mani scuotendo la testa.
«Guadda, guadda, ficci i foto pi l’Instagrammi» Gli strillò sorridendo affabile, «N’addiventano minne se continui a fissarli, sempre pani ca meusa sono.» Scompigliò i capelli del figlio e si avviò alla porta. «Insta di minchia.» Abbozzò un inchino e girò il cartello di metallo a ventose sulla scritta “chiuso”.
Suonò il telefono, sullo schermo campeggiava la scritta “Minchiugino”. Mimmo sbuffò e premette la cornetta rossa, l’avrebbe richiamato a cose fatte.

La cantina era umida, un vago odore di muffa aleggiava tra i sentori di rosmarino, coriandolo e urina stantia. Mimmozzo spinse dentro il figlio.
Al centro della stanza, legato per i polsi a un gancio di metallo che calava dal soffitto, c’era un uomo nudo. Aveva il pisello piccolissimo, poteva passare per un fagiolo.
«Forse che ti sei spretato per una bottana non è molto credibile come storia.» Disse Mimmozzo carezzandosi il mento. «Ma ormai è tardi per preoccuparsene.» Diede una manata sulle spalle di Santuzzo finché il piccolo fu davanti al prigioniero. «Colpiscilo.»
Il ragazzo esitò.
«Forte.» Il padre insisté.
Un’altra esitazione.
Mimmozzo si chinò dinanzi al figlio e gli carezzò la fronte. «Figghiu miu,» disse, «u sacciu ch’è difficile la prima volta…»
«Papà, io…»
Mimmozzo lo interruppe con una ginocchiata nel basso ventre che lo mandò carponi. Non gli piaceva picchiarlo, ma pisciare sangue per qualche giorno gli avrebbe fatto bene. A lui ne aveva fatto. «Qual è la prima regola di un Gambino?»
Tra i colpi di tosse, la voce di Santuzzo risuonò stentorea «N-nessuna pietà.»
«E picché cincischi allora? Un Gambino non cincischia.» Si avviò verso il prigioniero e gli tirò un cazzotto, appena sotto la linea delle costole. Il rumore sordo delle nocche fu lo stesso del batticarne su quattro dita di polpa.
«Vedi? Accussì, dritto in da mèusa, se la pesti quando è ancora vivo poi viene più morbida e tiene meglio i succhi.» Guardò il figlio. «Ora tu.»
«Sì, papà.» Santuzzo si alzò a stento, digrignò i denti e si schiantò con tutti i suoi venticinque chili nell’esatto punto in cui era ancora visibile la chiazza rossa del colpo del padre. Pareva posseduto: pugni chiusi, mani aperte, colpi di taglio, persino una testata. Era una furia.
«Hai visto che quando vuoi…» Mimmozzo lo guardò orgoglioso. «Dagli al porco, senza pietà, per tutti i tuoi avi.»
Durò un paio di minuti, poi il piccolo si lasciò cadere a terra, esausto. Lacrime di rabbia gli rigavano le gote. L’uomo appeso si contorceva e strillava nel bavaglio da quando uno dei colpi di Santuzzo lo aveva colpito sul fagiolo.
«Beddu, beddu e bravo. Ora cosa bisogna fare prima di macellarlo?»
«Rendere onore al giuramento» ansimò il piccolo.
«È il periodo più attivo di sempre della nostra famiglia, e io sono fiero che è arrivato il tuo momento.» Tossì a dissipare l’intimità del momento. «Te l’hai ‘mparato u ddiscorso, ah?»
Santuzzo annuì, si mise di fronte al prigioniero e si schiarì la voce.

«Voi cristiani avete rotto la minchia, e ora avete a pagare.» Santuzzo lanciò un’occhiata al padre che annuiva serafico, fino a qui tutto bene. Ogni volta che Mimmo si muoveva, a lui si contraevano in automatico tutti i muscoli dal collo all’inguine. Lo faceva per il suo bene, lo capiva, gliel’aveva detto chiaro il nonno prima di morire: “Santuzzino, tuo padre è un po’ ciuccio, forse gliele ho suonate troppe da picciriddu, ma spero ca lui farà lo stesso con te, perché sei un Gambino, e noi veniamo su a botte e pani ca meusa. Accetta tutto con grande orgoglio, l’orgoglio dei Gambino.”
Erano state parole più o meno vuote fino a quella mattina, quando Mimmo l’aveva messo a parte del segreto di famiglia.
«Conosci le origini storiche del panino con la milza?» chiese al salame umano, non rispose. «Il 1492 per molti è l’anno in cui fu scoperta l’America, ma per noi…» Un’altra occhiata al padre. «Per noi è l’anno in cui il cattolicissimo Ferdinando d’Aragona, su consiglio del Cardinale di Palermo, impedì a tutti gli ebrei nelle città del Regno di Sicilia di venire pagati in denaro. “Sono già fin troppo ricchi”, aveva detto. Ma per ogni strozzino ebreo, c’erano almeno cinquanta sguatteri ebrei che lavoravano dai macellai, che furono molto contenti dell’editto e presero quindi a pagarci con gli scarti: trachea, vene, intestini e… milza.»
Mimmozzo muoveva la mandibola, come se i denti fossero a caccia di pellicine.
«Ci avete rovinati, ridotti alla fame. Le parole di un cattolicissimo ci hanno feriti e uccisi più di spade e cannoni.»
«Ahi.» disse Mimmozzo grave.
Santuzzo sentì la rabbia montargli dentro, gli sembrava di sentire la sofferenza dei suoi avi, la loro sete di vendetta.
«Ma noi non ci siamo arresi. Quando la vita ti dà le milze, tu fai panini, vendili fuori dalle città, in mezzo alla merda, a pochi centesimi, pochi ma che si accumulano, fino a quando puoi pagare dei documenti falsi che certificano il tuo stato di sangue e cambiano il tuo cognome da Gabbai al cristianissimo Gambino, riconsegnandoti a una vita da dignitoso figlio di Cristo.» Prese fiato, ansante. «Quei tempi sono passati, ma la mia gente non dimentica: il debito è ancora aperto e gli interessi corrono.»
«Quanto trasporto,» disse Mimmozzo, «mi hai fatto emozionare.» Si alzò in piedi e posò gli occhi sul prigioniero. «Da quattro secoli la famiglia Gambino tiene i conti e passa a riscuotere. Abati, frati, vicari. I nostri preferiti sono i preti del rione, quelli che controllavano che gli ebrei avessero ciò che il re aveva comandato.» Rise. «Ma, per noi, siete solo rate. Come dicevano i latini: peculia non dolet. Tu lo sai il latino? So che non ve lo studiano più. Vuol dire che non c’importa da dove vengono i pagamenti, i soldi son soldi.» Si portò una mano alla cintura e ne trasse un lungo coltello che porse al figlio. «Avanti, Santu’, e ricordati la seconda regola: nessuno spreco.»
Il ragazzo prese la lama e la soppesò. Il padre scattò in piedi e gli diede un ceffone dietro la nuca. «Basta scrupoli, Santuzzo!»
Avrebbe voluto dirgli che lui era un Gambino, che di scrupoli non ne aveva mai avuti, che voleva solo gustarsi i momenti. Alla fine, era la sua prima volta, il suo primo contributo alla causa.
«Sì, papà» rispose. Si fece sotto al bersaglio e affondò la lama lungo la linea tra le costole e gli addominali, disegnando una linea che gli parve perfetta. Il sanguinamento fu minimo e, attraverso lo squarcio, si scorgevano la pelle rosata degli intestini e lei: la milza.
«Minchia,» sentenziò Mimmozzo, «iè grossa. Chi l’avrebbe detto? ‘sta minchia monca tiene i visciri d’un montone.» Si leccò le labbra. «Idda stufata in da sausa sarà ‘na prelibatezza.»
Santuzzo alzò gli occhi alla preda che strillava e provava a dibattersi, sembrava un merluzzo appena pescato. «Da buoni Ebrei avremmo voluto chiedere dei soldi come risarcimento. Però, vedi, i macellai ebrei non possono venire pagati in denaro. Ci avete obbligati ad accettare pagamenti in frattaglie e ci siamo adattati.» Affondò la lama nel tessuto che collegava milza e intestini al resto del corpo e una cascata di viscere crollò sul pavimento, spandendo nell’aria l’odore acre delle feci acerbe.
Mimmozzo assunse un tono solenne. «Accettiamo questa rata a parziale copertura del debito secolare che voi cattolici avete con la nostra gente.»
Alle loro spalle, la porta della cantina cigolò.

L’uomo che poco prima scrutava la vetrina del negozio entrò nella stanza. La veste scura si confondeva con le pareti e lo faceva sembrare ancora più imponente. Suo nonno l’avrebbe apprezzato: un ventre tanto prominente era sempre degno di un certo rispetto.
Santuzzo notò che portava una croce in legno al centro del petto.
«Chi minchia vuoi? Non hai visto il cartello?» esplose Mimmozzo.
L’intruso sorrise e scosse appena la testa. «Era aperto.» Indicò l’uomo sbudellato. «Come quello lì.»
Suo padre si diresse a passi rapidi verso di lui. «Voi cristiani sempre a cacciare la minchia dove non dovreste. Poco male, con idda panza, terrai ‘na meusa come un cocomero.»
Mimmo afferrò l’uomo per le spalle e tirò per rovesciarlo a terra, ma quello non si mosse. Come un macigno enorme di cui sporgeva dal terreno solo la punta.
Accadde in un attimo: il braccio dell’uomo roteò attorno ai polsi di Mimmozzo e li bloccò appena sotto l’ascella grassoccia, chiusi in una chiave articolare come quelle dei film. Spostò indietro un piede e si chinò appena in avanti, forzando Mimmo in ginocchio. Era agile, il pachiderma.
«Santuzzo, u cutieddu, squarta sto porco!»
Il ragazzo strinse le dita attorno all’impugnatura di legno e fece per scattare in avanti ma, in quel momento, il ciccione in nero si infilò la mano libera sotto la giacca e ne trasse una pesante croce di metallo i cui bracci corti erano penne di un’ascia.
L’arma si abbatté su suo padre prima che Santuzzo potesse fare un passo.
Tanto, troppo sangue.
«Dominus pascit me, et nihil mihi deerit.»
La voce dell’uomo era profonda, un ansito faceva capolino su ogni sillaba intermedia. Lasciò la presa e Mimmozzo cadde a terra, l’ascia che gli scompariva tra la clavicola e la scapola. Tossì una schiuma rosso vivo e prese a trascinarsi con il braccio sano, il volto contratto in una maschera furiosa. Raggiunse Santuzzo in tre lunghe bracciate e lo usò come una stampella per rimettersi in piedi.
Il nero sorrideva, ancora fermo all’ingresso. «Così è questo il motivo,» disse, la voce sempre ansante. «Scusate, so che non è educato origliare, ma non ho resistito. Lasciatemi dire solo una cosa: siete stati bravi, bellissime le lettere, molto realistiche. Nessuno in curia aveva mai sospettato nulla fino a questo momento. Ma è proprio questo il problema del “fino a questo momento”, che dura solo, appunto, fino a questo momento.»
«Santu’,» gorgogliò Mimmozo con un filo di voce, il braccio ferito che penzolava inerte. «Non aver paura. Qui ci penso io, lo distraggo e tu intanto scappi.»
«Non vado da nessuna parte!» rispose lui, la rabbia che gli bruciava dentro sovrastando la disperazione di tutto quel sangue.
«Tu hai da fare quello che tta dicu io!» Tossì. «Ricordati la sacra missione, è più importante di qualsiasi cosa.»
Avrebbe voluto dirgli di no, che avrebbero ammazzato insieme quel panzone, che lui, sì, lui perdeva troppo sangue e non ce l’avrebbe fatta da solo.
«Sì, papà» disse.
«Bravo Santuzzo mio!» Sputò a terra un grumo di sangue. «Hai davanti giorni duri, ma dovrai ricostruire, e a questo scopo ricordati sempre la terza e ultima regola.»
«La terza regola?» Chiese il figlio.
«Sì, è la più importante di tutte, il segreto alla base di tutti i nostri successi, di tutte le nostre possibilità.» Espirò altre bolle di saliva mista a sangue. «Ascolta bene.» Gli accostò le labbra all’orecchio. «Nessuno. Scontrino. Fiscale.»
Gli strappò di mano il coltello da macellaio e si lanciò verso il panzone in un ringhio lacerante. Non l’aveva mai visto tanto determinato, faceva paura.
Senza pensare, Santuzzo corse verso l’uscita a denti stretti. A poche spanne da lui, il rumore sordo di un corpo che cadeva a terra.
«Fa’ che sia il panzone,» pensò serrando le palpebre. «Il panzone!»
Agguantò la maniglia e tirò con tutte le forze. La porta si spalancò e lui riaprì gli occhi: la stretta scalinata si inerpicava fino al piano di sopra. Ci si lanciò a rotta di collo.
Poggiò il piede sul primo gradino ma una mano lo afferrò per la collottola. Si sentì sollevare e trascinare indietro. Solo suo padre aveva tanta forza nelle braccia, gli pareva di riconoscerne il tocco brutale.
Santuzzo finì scaraventato a terra, al centro di un’enorme chiazza di sangue. Volse lo sguardo: accanto a lui, il corpo inerme di Mimmozzo lo fissava con occhi vuoti.
«Papà.» Allungò una mano verso di lui, il contatto con la pelle calda gli diede un brivido. «Papà.» Non riusciva a respirare. Una voce affannata lo strappò al dolore, consegnandolo al rancore.
«Salve, Eminenza». Santuzzo si voltò, l’assassino parlava al telefono. «Sì, sono Spanò.» Pausa. «Il vicario è morto. È stato l’informatore.» Pausa. «No, nemmeno io. E dire che ero solo venuto a fare qualche domanda, invece…» Pausa. «Sì, a tra poco. Le porto anche un piccolo regalo.»
Si rimise il telefono in tasca e fece due passi verso di lui. Gli fu sopra in un respiro. Bastardo.
«U-uccidimi,» gli disse Santuzzo, «un Gambino non si doma!»
Spanò rise.
«Non essere sciocco, piccolo.» Si schiuse in un ghigno sadico. «Siamo preti, noi i bambini mica li uccidiamo…»
Se dici cose senza senso, sarai trattato come un paroliere.
Sbattuto su e giù e ribaltato su un tavolo, fino a che le tue interiora saranno fuoriuscite.
E ci leggerò dentro ciò che mi pare, magari il futuro. [cit.]

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Re: Semifinale Fabrizio Borgio

Messaggio#4 » martedì 23 aprile 2019, 9:32

Ecco il commento e la proclamazione del finalista da parte di Fabrizio Borgio!

Don Roberto, il cazzo ha tutti i pregi e i difetti tipici dell'idea di pulp che ci si è fatti per colpa di Tarantino. Situazioni estreme, truci, ironiche, turpiloquio, amoralità. Tutti elementi utilizzati con urlo e affanno alla ricerca del colpo basso, dello sberleffo in una gara che diventa alla lunga stucchevole. Stile diretto forse un po' spersonalizzante.

Pani ca meusa presenta uno stile un po' più ricercato, imbastisce una trama non scontata specie nelle premesse storiche e culturali e affonda con quel pizzico di antropofagia che funziona

Accede alla finale: Pani ca meusa!
Trama più articolata e originale, stile più maturo.

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