IL SANGUE BILANCIA SEMPRE
Inviato: lunedì 15 aprile 2019, 22:46
IL SANGUE BILANCIA SEMPRE, di Gabriele Dolzadelli
«Perdonami» sussurrò stringendosi le ginocchia al petto.
La gola era gonfia e bruciava. Gli zigomi gli dolevano, affaticati da quell'espressione di dolore che disegnava il suo volto da almeno un'ora. Non aveva più lacrime, eppure la vista, ancora offuscata, rendeva liquido tutto l'arredo del salotto. Pesanti tende verde palude impedivano agli ultimi raggi del sole di irradiare il bilocale. Aveva la schiena contro il divano e non faceva altro che dondolarsi.
«Perdonami, ti prego!» ripeté con un tono crescente.
La disperazione stava trovando energie dove nemmeno lui credeva di avere. Era una sorta d'istinto di sopravvivenza, qualcosa di primordiale. Era consapevole che senza quel perdono non sarebbe sopravvissuto, le sue viscere contratte parlavano per lui. «Apri quella porta!» aggiunse, sentendo la testa accalorarsi e le tempie pulsare.
La vena del collo si ingrossò e filamenti di saliva cercavano di tenere unite le due labbra, come nel volerlo mettere a tacere. Si spezzarono all'ennesimo singhiozzo. Renzo si alzò, barcollando sulle gambe deboli. La porta era ancora chiusa, un giudice implacabile, senza toga. Fece pochi passi per raggiungerla e si sbilanciò in avanti, andando a sbatterci con la spalla. Si aggrappò alla maniglia e tentò per l'ennesima volta di abbassarla e spingere. Nulla, restò chiusa.
«Tu devi... Devi darmi una seconda possibilità. Non puoi farmi questo!»
Diede un pugno all'anta, ma dall'altra parte nessuna risposta. Non contento, riprese a sbattervi le nocche, lasciando vistose macchie di sangue. Voleva vederne di più, doveva farsi male, molto male. Ne sentiva l'esigenza. Forse, se riusciva a infliggersi un dolore tanto grande, avrebbe meritato il perdono. Non glielo si poteva negare a un ferito e nemmeno a un pazzo. Il sangue sarebbe stata la firma sulla sua giustificazione, il prezzo che avrebbe equilibrato ogni cosa. Quanto doveva versarne, però, prima di iniziare a vedere la bilancia pendere dalla sua parte? Di più, molto di più. Picchiò ancora e per un attimo gli sembrò di aver sentito l'osso delle nocche scricchiolare. Prima di abbassare ancora la mano violentemente, il petto sussultò, al punto da fermarlo e piegarlo in due. Non riuscendo a buttare fuori altre lacrime, il corpo iniziava a tremare, a contrarsi in spasmi di vomito. Sentiva il sapore della bile in bocca e la gola tornò a fargli tanto male che sembrava voler esplodere. Si mosse verso l'angolo cottura e con la mano traballante riuscì a stento ad afferrare il pomolo di un cassetto. Lo aprì. Dentro c'erano diverse cianfrusaglie: un apribottiglie, tappi di sughero, un termometro, una scatola con medicinali e un mucchio di stuzzicadenti. Prese tutte quelle cose e cominciò a gettarle fuori, facendole cadere rumorosamente sul pavimento in parquet. Strattonò il cassetto, sfilandolo dai binari e lo gettò contro la parete.
«Riuscirò ad entrare. Fosse l'ultima cosa che faccio!»
Aprì il secondo cassetto. Prese forchette, coltelli e cucchiai. Buttò anche quelli per terra, prima di alzare il portaposate e separarlo dal fondo. Era lì, legata a un oggetto rotondo, giallo, rappresentante uno smile. Afferrò la chiave e si mise a ridere nervosamente, tornando alla porta. La infilò nella toppa e girò uno scatto. Bastò ad aprire.
«Devi perdonarmi. Devi guardarmi in faccia e dirmelo.»
Entrò con irruenza nel bagno. La trovò ferma a fissarlo, con gli occhi spalancati e l'espressione sorpresa nell'averlo inaspettatamente davanti a sé. La sua figura riflessa allo specchio era l'unica cosa presente, sopra il lavabo, a mezzo busto. C'era soltanto lei, insieme al water, il bidè e il box doccia. Renzo si chinò, aprì un'anta del mobile del lavabo e vi trovò la pistola. La strinse in pugno e si rialzò, per potersi guardare negli occhi. Si giustifica sempre un ferito, tanto più un pazzo. E cosa si può dire di un morto? Solo cose buone. A un morto si perdona tutto.
«Mi perdoni, vero?» si chiese, con gli occhi lucidi. Poi si puntò la canna alla tempia.
«Perdonami» sussurrò stringendosi le ginocchia al petto.
La gola era gonfia e bruciava. Gli zigomi gli dolevano, affaticati da quell'espressione di dolore che disegnava il suo volto da almeno un'ora. Non aveva più lacrime, eppure la vista, ancora offuscata, rendeva liquido tutto l'arredo del salotto. Pesanti tende verde palude impedivano agli ultimi raggi del sole di irradiare il bilocale. Aveva la schiena contro il divano e non faceva altro che dondolarsi.
«Perdonami, ti prego!» ripeté con un tono crescente.
La disperazione stava trovando energie dove nemmeno lui credeva di avere. Era una sorta d'istinto di sopravvivenza, qualcosa di primordiale. Era consapevole che senza quel perdono non sarebbe sopravvissuto, le sue viscere contratte parlavano per lui. «Apri quella porta!» aggiunse, sentendo la testa accalorarsi e le tempie pulsare.
La vena del collo si ingrossò e filamenti di saliva cercavano di tenere unite le due labbra, come nel volerlo mettere a tacere. Si spezzarono all'ennesimo singhiozzo. Renzo si alzò, barcollando sulle gambe deboli. La porta era ancora chiusa, un giudice implacabile, senza toga. Fece pochi passi per raggiungerla e si sbilanciò in avanti, andando a sbatterci con la spalla. Si aggrappò alla maniglia e tentò per l'ennesima volta di abbassarla e spingere. Nulla, restò chiusa.
«Tu devi... Devi darmi una seconda possibilità. Non puoi farmi questo!»
Diede un pugno all'anta, ma dall'altra parte nessuna risposta. Non contento, riprese a sbattervi le nocche, lasciando vistose macchie di sangue. Voleva vederne di più, doveva farsi male, molto male. Ne sentiva l'esigenza. Forse, se riusciva a infliggersi un dolore tanto grande, avrebbe meritato il perdono. Non glielo si poteva negare a un ferito e nemmeno a un pazzo. Il sangue sarebbe stata la firma sulla sua giustificazione, il prezzo che avrebbe equilibrato ogni cosa. Quanto doveva versarne, però, prima di iniziare a vedere la bilancia pendere dalla sua parte? Di più, molto di più. Picchiò ancora e per un attimo gli sembrò di aver sentito l'osso delle nocche scricchiolare. Prima di abbassare ancora la mano violentemente, il petto sussultò, al punto da fermarlo e piegarlo in due. Non riuscendo a buttare fuori altre lacrime, il corpo iniziava a tremare, a contrarsi in spasmi di vomito. Sentiva il sapore della bile in bocca e la gola tornò a fargli tanto male che sembrava voler esplodere. Si mosse verso l'angolo cottura e con la mano traballante riuscì a stento ad afferrare il pomolo di un cassetto. Lo aprì. Dentro c'erano diverse cianfrusaglie: un apribottiglie, tappi di sughero, un termometro, una scatola con medicinali e un mucchio di stuzzicadenti. Prese tutte quelle cose e cominciò a gettarle fuori, facendole cadere rumorosamente sul pavimento in parquet. Strattonò il cassetto, sfilandolo dai binari e lo gettò contro la parete.
«Riuscirò ad entrare. Fosse l'ultima cosa che faccio!»
Aprì il secondo cassetto. Prese forchette, coltelli e cucchiai. Buttò anche quelli per terra, prima di alzare il portaposate e separarlo dal fondo. Era lì, legata a un oggetto rotondo, giallo, rappresentante uno smile. Afferrò la chiave e si mise a ridere nervosamente, tornando alla porta. La infilò nella toppa e girò uno scatto. Bastò ad aprire.
«Devi perdonarmi. Devi guardarmi in faccia e dirmelo.»
Entrò con irruenza nel bagno. La trovò ferma a fissarlo, con gli occhi spalancati e l'espressione sorpresa nell'averlo inaspettatamente davanti a sé. La sua figura riflessa allo specchio era l'unica cosa presente, sopra il lavabo, a mezzo busto. C'era soltanto lei, insieme al water, il bidè e il box doccia. Renzo si chinò, aprì un'anta del mobile del lavabo e vi trovò la pistola. La strinse in pugno e si rialzò, per potersi guardare negli occhi. Si giustifica sempre un ferito, tanto più un pazzo. E cosa si può dire di un morto? Solo cose buone. A un morto si perdona tutto.
«Mi perdoni, vero?» si chiese, con gli occhi lucidi. Poi si puntò la canna alla tempia.