L'ultimo olocausto - Andrea Partiti
Inviato: martedì 16 aprile 2019, 0:02
Il vecchio sale verso la cima del monte. I suoi passi sono pesanti. Il fiato è spezzato da singhiozzi e fatica. Sulle spalle ha tre fascine di legna secca per il sacrificio. Le ha portate il loro asino fino alla base del monte, ma ora è tutto per lui quel peso che gli taglia la carne.
Il figlio lo segue, ma il vecchio non lo guarda, non riesce a gioire delle sue corse, del suo raccogliere insetti e fiori.
Il grande altare di pietra, visibile da ogni angolo del monte come un corvo su un palo, diventa sempre più incombente, nero del sangue rappreso e bruciato di mille sacrifici all’unico Dio.
Il vecchio prende la mano del figlio che obbediente ferma i suoi giochi e lo segue su per l’ultima gradinata scavata nella roccia. Prende il bambino e lo solleva sulla pietra lucida. Posa le fascine, le disfa e le distribuisce attorno all’altare.
Sotto alla tunica il vecchio porta il pugnale d’argento dei sacrifici. Il pugnale usato da suo padre, da suo nonno e da tutti i loro antenati fino alla creazione. Sgancia l’arma dalle cinghie e la estrae dalla guaina. Il figlio, che ha assistito a molti sacrifici prima di quello, non si scompone. Si domanda appena quale sarà il sacrificio, perché non hanno portato animali come d’uso. Neppure l’asino è con loro.
Il vecchio pensa che sarà lui l’ultimo a sollevare quel pugnale, che la stirpe di uomini che ininterrotta l’ha portato con sé finiva quel giorno, su quella roccia. Pensa alla promessa di una progenie numerosa come le stelle del cielo e stringe i denti con rabbia e confusione. Ma la promessa è stata infranta da quella richiesta impietosa. Può solo obbedire all’unico Dio.
Il bambino solleva le gambe sulla pietra: sente che c’è qualcosa di diverso nell’aria, ma ha fiducia nel genitore.
È il suo ultimo sacrificio, il suo ultimo atto di fede. Il vecchio seppellirà il pugnale con il figlio, perché a lui era destinato in vita e a lui sarà destinato nella morte. Un destino beffardo essere sepolto con l’arma che lo uccide, ma l’arma non è che uno strumento. È la mano che la impugna, è il dio che la guida ad avere la responsabilità.
Il vecchio invita il figlio a sdraiarsi. Questi obbedisce, non oppone resistenza. Il pugnale si alza, tremante. Resta sospeso nell’aria, una goccia di sudore cala dal palmo della mano, scorre giù per l’impugnatura e per la lama, fino a cadere sul torace esposto del bambino. La punta cala, perfora la pelle, le ossa, un cuore stupito. Il figlio rivolge gli occhi al padre in cerca di una spiegazione che non ha tempo di ricevere. La gola gli si riempie di sangue. Gorgoglia.
Il vecchio lascia l’arma conficcata e cade in ginocchio, piange.
Un giovane ariete si avvicina. Non ne ha sentito i passi felpati mentre saliva la scalinata. L’animale tocca il vecchio con le corna attirandone l’attenzione, gli lecca le mani bagnate di lacrime, calde e salate.
Il vecchio gli carezza la testa come faceva con il figlio.
L’ariete capisce il suo dolore e il vecchio vede il divino nei suoi occhi.
In quel momento capisce. Solo un Dio malvagio poteva chiedergli suo figlio, mentre i vecchi Dei ancora hanno la compassione che vede in quegli occhi, hanno ancora la pietà di consolare un povero vecchio sciocco che li ha traditi. Sprecano le loro poche energie per mandare un segno della loro presenza, del loro supporto.
Il vecchio estrae il pugnale dal petto del figlio, il sangue che già si rapprende uscendo dalla ferita e colando grumoso sulla pietra. Pulisce la lama con un panno.
Non sarà l’ultimo sacrificio del pugnale, sconsacrato dalla malvagità. La sua storia non è finita.
Il vecchio ha obbedito, ha pagato per i suoi peccati e non avrà la progenie promessagli grazie a quel figlio miracoloso. Ma sorride comunque, perché ora non ha debiti con l’unico Dio.
Per mano sua i vecchi Dei vivranno. Li nutrirà col suo pugnale e i vecchi Dei nutriranno lui.
Il vecchio accende le fascine e siede sui sassi insieme all’ariete. Dedica l’olocausto ai vecchi Dei, ne respira i fumi e le energie tornano nel suo corpo devastato.
Il figlio lo segue, ma il vecchio non lo guarda, non riesce a gioire delle sue corse, del suo raccogliere insetti e fiori.
Il grande altare di pietra, visibile da ogni angolo del monte come un corvo su un palo, diventa sempre più incombente, nero del sangue rappreso e bruciato di mille sacrifici all’unico Dio.
Il vecchio prende la mano del figlio che obbediente ferma i suoi giochi e lo segue su per l’ultima gradinata scavata nella roccia. Prende il bambino e lo solleva sulla pietra lucida. Posa le fascine, le disfa e le distribuisce attorno all’altare.
Sotto alla tunica il vecchio porta il pugnale d’argento dei sacrifici. Il pugnale usato da suo padre, da suo nonno e da tutti i loro antenati fino alla creazione. Sgancia l’arma dalle cinghie e la estrae dalla guaina. Il figlio, che ha assistito a molti sacrifici prima di quello, non si scompone. Si domanda appena quale sarà il sacrificio, perché non hanno portato animali come d’uso. Neppure l’asino è con loro.
Il vecchio pensa che sarà lui l’ultimo a sollevare quel pugnale, che la stirpe di uomini che ininterrotta l’ha portato con sé finiva quel giorno, su quella roccia. Pensa alla promessa di una progenie numerosa come le stelle del cielo e stringe i denti con rabbia e confusione. Ma la promessa è stata infranta da quella richiesta impietosa. Può solo obbedire all’unico Dio.
Il bambino solleva le gambe sulla pietra: sente che c’è qualcosa di diverso nell’aria, ma ha fiducia nel genitore.
È il suo ultimo sacrificio, il suo ultimo atto di fede. Il vecchio seppellirà il pugnale con il figlio, perché a lui era destinato in vita e a lui sarà destinato nella morte. Un destino beffardo essere sepolto con l’arma che lo uccide, ma l’arma non è che uno strumento. È la mano che la impugna, è il dio che la guida ad avere la responsabilità.
Il vecchio invita il figlio a sdraiarsi. Questi obbedisce, non oppone resistenza. Il pugnale si alza, tremante. Resta sospeso nell’aria, una goccia di sudore cala dal palmo della mano, scorre giù per l’impugnatura e per la lama, fino a cadere sul torace esposto del bambino. La punta cala, perfora la pelle, le ossa, un cuore stupito. Il figlio rivolge gli occhi al padre in cerca di una spiegazione che non ha tempo di ricevere. La gola gli si riempie di sangue. Gorgoglia.
Il vecchio lascia l’arma conficcata e cade in ginocchio, piange.
Un giovane ariete si avvicina. Non ne ha sentito i passi felpati mentre saliva la scalinata. L’animale tocca il vecchio con le corna attirandone l’attenzione, gli lecca le mani bagnate di lacrime, calde e salate.
Il vecchio gli carezza la testa come faceva con il figlio.
L’ariete capisce il suo dolore e il vecchio vede il divino nei suoi occhi.
In quel momento capisce. Solo un Dio malvagio poteva chiedergli suo figlio, mentre i vecchi Dei ancora hanno la compassione che vede in quegli occhi, hanno ancora la pietà di consolare un povero vecchio sciocco che li ha traditi. Sprecano le loro poche energie per mandare un segno della loro presenza, del loro supporto.
Il vecchio estrae il pugnale dal petto del figlio, il sangue che già si rapprende uscendo dalla ferita e colando grumoso sulla pietra. Pulisce la lama con un panno.
Non sarà l’ultimo sacrificio del pugnale, sconsacrato dalla malvagità. La sua storia non è finita.
Il vecchio ha obbedito, ha pagato per i suoi peccati e non avrà la progenie promessagli grazie a quel figlio miracoloso. Ma sorride comunque, perché ora non ha debiti con l’unico Dio.
Per mano sua i vecchi Dei vivranno. Li nutrirà col suo pugnale e i vecchi Dei nutriranno lui.
Il vecchio accende le fascine e siede sui sassi insieme all’ariete. Dedica l’olocausto ai vecchi Dei, ne respira i fumi e le energie tornano nel suo corpo devastato.