Semifinale Alberto Dalla Rossa

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo marzo sveleremo il tema deciso da Luca Mazza e Jack Sensolini. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) I BOSS assegneranno la vittoria.
Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Semifinale Alberto Dalla Rossa

Messaggio#1 » giovedì 30 maggio 2019, 22:25

Immagine

Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Riviera Napalm.
Accedono in semifinale: Salam d'la duja e altre specialità locali e Smorfia insanguinata

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti del girone Angelo Berti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi Maurizio Ferrero e Pretorian possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: domenica 2 giugno alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 2 giugno. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



Avatar utente
maurizio.ferrero
Messaggi: 529

Re: Semifinale Alberto Dalla Rossa

Messaggio#2 » venerdì 31 maggio 2019, 17:28

Salam d'la duja e altre specialità locali

Oggi

La Processione delle Macchine permanente impazza nell’area nuclearizzata ora trasformata in un parcheggio rigorosamente a pagamento. Dopo la scia di distruzione causata dai diserbanti ad alto tasso di mutageni, dalle zanzare giganti, dalla rata vuloira colossale e, infine, dalla bomba H, i gruppi statuari lignei dedicati alla passione di Gesù Cristo sono stati ridotti in cenere e sostituiti da bolidi coperti di spuntoni rugginosi. La nuova passione è messa in scena da tutti coloro che vengono trasformati in scie di sangue sull’asfalto.
La Mariarita attraversa la strada bestemmiando. La sua speranza di non farsi tirare sotto viene esaudita dalla preferenza dei piloti nel prendere di mira i vecchi in bicicletta.
Una coppia di mutanti dalla pelle color merda, sudati come il sottopalla di un maratoneta, si avvicinano alla donna che avanza con aria minacciosa. Hanno dei forconi stretti tra mani abnormi su cui cresce ogni genere di vegetazione contaminata, in particolare il riso che nel Vercessese non può mai mancare. I bulbi piliferi sono stati sostituiti da chicchi ad alto livello di tossine.
«Lon ca t’voeli ti?» dice uno agitando l’arma minaccioso.
«Ch’at levi dai bali sùbit, bidulu.»
Non osano contraddire la Mariarita. Ex-spogliarellista del ConTatto, ex-metalmeccanica, ex-campionessa di lotta greco-romana-druidica, che è come la lotta greco-romana ma con un falcetto stretto tra i denti. Mostra il cannone che porta alla cintura e indica il cannone tra le gambe dei mutanti con un dito.
«Bang-bang» sussurra, e i mutanti si levano di torno.
Un’altra coppia di risaie-su-gambe sta di guardia all’ingresso della vasta piazza invasa dai tendaggi bianchi, da cui provengono urla folli e gieubi di capusin in versione grindcore sparata a volumi da suicidio. Sembrano essere abbastanza quieti, anche se dalla piazza vanno e vengono predoni e merdame umanoide vario. L’enorme cartello tratteggiato con il sangue recita

SAGRA D’LA PANISSA VERCESSESE
NO NOBARESI
DADACHI AS BEV LA BARBERASA


La Mariarita estrae dal sacchetto di plastica un vecchio numero di Vita in Campagna e lo consegna alla guardia all’ingresso, che le stacca un talloncino per un bicchiere di Barbera guardandola in cagnesco con i suoi tre occhi, di cui due ciechi.
Vercessesi, falsi e cortesi. Il fuoco atomico non li ha cambiati.
Nella bolgia infernale della sagra, vecchie ingobbite con più o meno arti del normale si lanciano in passi di danza convulsa con giovanotti che paiono aver smarrito la materia grigia nel vano della mietitrebbia. Per alcuni non è solamente un modo di dire.
La Mariarita lascia correre lo sguardo in cerca di qualcosa di preciso. Al centro della piazza, una fila di risaie-su-gambe si assiepa davanti a un pentolone ribollente e si da una grattata alla pelle marcia, facendo scivolare una cascata di chicchi sudati nell’orgia di fagioli, lardo e salam d’la duja.
Il giusto tributo: se vuoi mangiare, devi essere mangiato. Ormai funziona così.
Dopo essersi fatta riempire il corno di bue da una ragazzina sudaticcia, senza denti in bocca ma con molti denti che le sbucano dalla fronte, la donna dà una sorsata alla barberasa bela spèssa e centra gli occhi sul suo obiettivo.
Il Panzer sembra un incrocio tra il pelato di Brazzers e il Bud Spencer degli anni migliori, ma ora, nudo come un neonato, con un buco rappezzato in pancia e appeso a un’impalcatura di metallo assieme a cinque altri poveri cristi, sembra solo un enorme maiale sudato.
«Varda-là, al farabulon.»
Non avrebbe avuto altre possibilità per salvargli il culo. La Mariarita trangugia ciò che resta del suo vino e si mette all’opera per fare ciò che sa fare meglio.

Tre giorni fa

«Pijé ‘sta strada è stata ‘na gran cagà» strilla la Mariarita.
«Risparmiamo tempo, la cunsegna l’è stasera» borbotta Panzer mentre pedala con il fiatone. «Prima il Livio ha la pissa, prima turnuma a ca cu i sold.»
Le biciclette dei due sfrecciano sulla ex-statale Vercessi-NoBara, territorio di guerra permanente per il controllo delle ultime risaie-su-terra solo vagamente contaminate. Giorno e notte percorsa da bande di predoni mutanti, all’alba e al tramonto invasa da zanzare in grado di prosciugare una vacca di sette quintali in tredici secondi netti.
In ogni momento, un posto di merda.
Il rombo di un motore in lontananza trasforma i due in Pantani quando vinceva, ma non è sufficiente a metterli in salvo. La carne è debole, e gli agricoltori Vercessesi sanno che il metallo è destinato a vincere.
Quando la banda motorizzata sgasa con le gomme lisce sull’asfalto semisciolto è già troppo tardi. Il gruppo di zappaterra mutanti, armati di rastrelli e vecchie spingarde, salta fuori dalla cabina del Kubota V8 che si piazza al centro esatto della strada, bloccando ogni possibile via di fuga che non sia tornare verso NoBara. Ma ciò vorrebbe dire disegnarsi un bersaglio sulla schiena.
Il Panzer avvicina le dita al fucile a canne mozze, ma uno sguardo della Mariarita è sufficiente a placarlo. Gli agricoltori hanno tutti un numero di occhi dispari e svapano diserbanti come se non ci fosse un domani.
«NoBaresi?» chiede il capo, l’unico con cinque occhi e una zappatrice automatica innestata al posto del braccio sinistro.
«Ah, fa che dilu. Mi sun varsleisa.» ironizza la Mariarita.
I mutanti sembrano apprezzare il dialetto della donna. Motozappa indica il Panzer con il capo pentaocchiuto.
«Anca mi sun ad Varsej» risponde lui, incerto. Ma gli agricoltori capiscono dall’accento che qualcosa non torna. La Mariarita sa che il Panzer viene da MilAno e il dialetto della zona l’ha imparato a spizzichi e bocconi, solo perché ha capito che era il modo migliore per sopravvivere.
Il gruppetto avanza, spinge lontano la predatrice e la sua bicicletta, circonda il nerboruto compagno.
«’ntla panissa al va la verza?» chiede uno.
La Mariarita scuote il capo ferocemente, sperando che il suo ignorante amico colga il gesto. Ma lui, incurante del futuro e troppo orgoglioso per giocarsi l’aiuto del pubblico, decide che la mossa più saggia consiste nel rispondere a casaccio.
«Sì».
Il dagli-al-NoBarese è feroce e repentino. Motozappa affonda il braccio meccanico nelle carni molli del Panzer, mentre gli altri ci danno dentro a colpirlo con i rastrelli manco fosse un cane feroce.
La Mariarita estrae il cannone, spara un paio di colpi, ma il gruppo è troppo diserbato per sentire il dolore. I proiettili ronzano più rumorosi delle zanzare. La predatrice viene colpita di striscio a una gamba, monta sulla bici e si lancia in una pedalata feroce. Gli agricoltori perdono troppo tempo per fare inversione con il trattore sulla stretta strada, e lei riesce a defilarsi.
Il Panzer, mezzo dissanguato, perde i sensi ricordandosi che una volta la Mariarita gli aveva detto che in quella provincia la differenza tra panissa e paniscia è fondamentale come la differenza tra acqua e veleno.

Oggi

Il Panzer lancia un’occhiata supplice alla Mariarita, ma proprio in quel momento lo strazio sonoro viene interrotto. Al ritmo dei motori dei trattori truccati, il Bicciolano fa il suo ingresso nel parco feste.
Un tempo maschera dominante del carnevale Vercessese, ora mezzo busto mutante intossicato dai diserbanti, innestato su un carro biomeccanico munito di spara-petardi e fauce triturante a prua. Il tricorno marrone è saldamente bullonato sul cranio esposto.
Da re del carnevale, a re del mattatoio. La carne vale, dopo la bomba H.
Dietro di lui, una parata di fighetti abbruttiti dall’alcol, damigelle imbustate in sacchi della spazzatura, lanciatori di caramelle al gusto biodiesel. Infine, spinto da un mutante largo quanto un minivan messo di traverso, sulla cui schiena cresce un intero orto botanico, spunta il salamatore: un macchinario in grado di frullare, insaccare e mettere sotto grasso cento chili di carne al minuto. I maiali non hanno retto al fallout, ora per fare il salam d’la duja viene usato il porco a due zampe.
Il Panzer è già stato marchiato a fuoco dal suo allevatore.
Lesta, la Mariarita abbandona i festeggiamenti e si dirige verso un tendaggio che emana un odore di merda che le ricorda la campagna dei bei vecchi tempi. I mutanti sono così presi a incensare la loro maschera che nessuno la nota, mentre si muove sull’asfalto con la grazia di una nutria rabbiosa.
Nella grossa tenda, gli escrementi riempiono l’aria. La Mariarita si riempie i polmoni, perché un profumo così naturale potrebbe non sentirlo mai più. Suddivisi a coppie in quattro grosse stalle colme di paglia e separate da transenne, otto buoi ruminano da un trogolo colmo di resti vegetali e umani ridotti a una polvere fine, roba da sindrome della mucca pazza. Ma, a parte un numero sbagliato di corna e un feto siamese che spunta da una gobba, gli esemplari sono perfetti e robusti come non se ne erano mai visti.
Allineati in fondo alla tenda, quattro birocci sono pronti a essere utilizzati per la tipica corsa dei buoi. Sono sempre stati legati alle tradizioni, i Vercessesi e, da quando i paesi dei dintorni sono stati fatti saltare in aria, hanno deciso di adottare tutte quelle che erano le usanze tipiche della provincia.
La Mariarita intinge un dito nel trogolo e lo lecca. Custi chi mangiu mej che mi, si trova a pensare.
È nervosa, si guarda intorno per qualche istante, poi si avvicina ai birocci. Dalla busta della spesa estrae un insieme di vecchie cinghie e cavi di trasmissione, e inizia ad armeggiare per produrre un’imbracatura. Con la coda dell’occhio vede la tenda scostarsi. Istintivamente porta la mano all’arma, e un mutante dalla pelle viscida fa il suo ingresso.
Sudori freddi, gambe arcuate, sguardo da batrace. Un altro che ha esagerato con il fritto di rane.
«Eh madamin, scusemi, lon ca t’fè ti chi denta?» chiede, e in quel momento la donna si accorge che l’avversario stringe già un fucile da caccia al cinghiale tra le zampe. Alzare l’arma significherebbe trovarsi bruciata.
«Mi? Ah, son ciuca.»
«Eh, chi dent l’è area riservata. Ma dimi n’poc, ti t’è la dona del Vasetu?»
«Eh» biascica lei, sperando di prendere la rana al laccio.
L’uomo-rana alza il fucile.
«Par mi ti t’è na scapà d’ca.»
La predatrice fa scattare le dita verso la pistola.
Poi la tenda si scosta nuovamente, e un altro mutante arriva a dare manforte.

Ieri

I colpi secchi della Mariarita sulla serranda blindata svegliano l’intera popolazione della palazzina cadente, composta principalmente da piccioni inferociti dalla mancanza di monumenti su cui cacare. Dopo due giorni passati a pedalare e a nascondersi nei fossi, la donna è riuscita ad arrivare a destinazione con tutti gli arti al loro posto.
«Livio, apri! So che t’è chi denta! Son la Marita!»
Un paio di fischi consecutivi provengono dall’interno.
«Cristu!» risponde lei al segnale convenuto.
La saracinesca motorizzata viene sollevata il necessario a farla passare. La Mariarita sguscia all’interno, e subito trova i ratti a farle compagnia. I cani da guardia sono inaffidabili, distratti dai troppi odori chimici. I roditori funzionano meglio, e sono anche buoni da mangiare.
Il Livio lo sa bene.
Il mutante si presenta sulla cima della prima rampa di scale. Occhiali rossi dalla montatura spessa su un viso vecchio e cadente, baffetti all’ultima moda del Terzo Reich, completo da domenica in chiesa più largo di due taglie. La Mariarita sa che è meglio non stargli troppo vicino – l’odore emesso dalle sue ghiandole sudorifere ultramutate è in grado di portare un uomo alla follia.
«Oh, bela bionda, t’è in ritard, Cristu! T’è purtami l’bianchin?»
La predatrice dai capelli neri apre la sacca ed estrae una bottiglia di plastica colma di liquido giallognolo. La lancia al Livio, che la afferra al volo e la vuota in un paio di sorsate. Vercessi, terra del Barbera. Ogni altro vino è vietato dalla legge del Bicciolano, ma il Livio ha bisogno del suo bianchino. La Mariarita e il Panzer sono i suoi corrieri a tempo pieno.
«Ah, ides sì c’al va ben. T’an ghiè ‘ncura quaicòs?»
«No Livio, l’è capità ‘na roba. Ai’en arestà al Panzer.»
La Mariarita spiega al Livio che il suo amico ha confuso la panissa vercessese con la paniscia noBarese, un errore che viene punito con la morte. Il vecchio mutante, privo di pissa e ora anche di corrieri, appare sconfortato.
«Duman ghi è la sagra d’la panissa. Al to amìs l’è già n’salam.»
«Dimi nen cusì, Livio! Duvuma fè quaicos, su!»
«Eh, duvuma fè quaicos… và campeti n’t la fioca.»
«Ghi è nen la fioca, Livio» risponde la Mariarita. L’ultima neve c’era stata durante l’inverno nucleare, poi solo umidità e inferno agli ultravioletti. «E ghi è gnanca al bianchin se ti m’de mija ‘na man!»
Il Livio pare pensieroso. L’odore dei suoi feromoni imbizzarriti riempie l’aria. La Mariarita afferra al volo il sacchetto di plastica e si mette a respirare al suo interno, come una vittima di un attacco di panico.
«Ghi è la solussion» dice lui dopo un po’.

Oggi

Quando il Livio barcolla nella tenda dei buoi, la Mariarita molla la pistola e s’affretta a tapparsi il naso. L’odore di merda viene spazzato via dall’afrore chimico proveniente dai vestiti del mutante bevi-pissa. L’uomo rana non fa in tempo a difendersi dall’attacco. Il fucile gli scivola tra le mani, poi lui crolla a terra sbavando, con un’espressione sghemba stampata in volto.
«T’è rivà finalment» sussurra la predatrice.
Il Livio non dice nulla, emette solo un lungo fischio e lancia un pacchetto alla donna, che lo afferra con la mano libera.
«Mi sac gnenti ad sa roba, eh.»
«Va tranquil, Livio. Va fòra dai bali, ad pensi mi a liberé al me amìs.»
Il Livio se ne esce, dopotutto anche lui ha diritto al suo piatto di panissa prima che il macello al C4 esploda. La Mariarita piazza il pacco sotto il biroccio imbracato e si allontana in silenzio.

La musica è ripresa, ora le colonne di amplificatori alte otto metri intonano oh munsu che caud mixata con l’amour tojours. La panissa, bollente come il crogiolo di una fonderia, sta venendo servita in piatti di plastica che si squagliano al solo contatto, così da creare quell’aroma di post-apocalisse che dà il tocco in più. Il salamatore viene portato nei pressi degli appesi, e senza troppe cerimonie il primo diavolaccio viene scagliato dentro, che gli insaccati per l’anno prossimo devono essere preparati. Le sue urla si mixano al mixaggio.
La Mariarita è felice che non sia il Panzer.
In breve, i buoi vengono condotti fuori dai loro alloggiamenti e preparati sulla linea di partenza. Assieme ai loro conducenti dovranno percorrere l’intera circonferenza dell’area feste due volte. Sparatorie e colpi bassi sono ovviamente consentiti.
Le quattro coppie di mutanti prescelti per questo onore prendono posto sui birocci, un paio si diserbano prima di iniziare, gli altri caricano i mitragliatori.
La Mariarita si avvicina all’impalcatura degli appesi.
Il Bicciolano si piazza vicino alla linea di partenza, un paio di damigelle si arrampicano sul mostro biomeccanico e ricevono la comunione con i biscotti alla cannella che portano il suo stesso nome. Poi, dai megafoni che gli fanno da corde vocali, il re urla il VIA! alla gara.
I mutanti si riparano dietro pannelli di lamiera e acciaio, i proiettili iniziano a volare tra gli equipaggi.
La Mariarita si fa un tiro di coca, poi estrae il telecomando che era nel pacchetto del Livio. Aspetta che i due birocci in testa giungano a metà del primo giro e preme il pulsante.
L’esplosione sconquassa l’area feste e fonde in un’unica massa gorgogliante le pile di piatti di plastica ancora inutilizzati. I mutanti impazziscono, le risaie-su-gambe più vicine si trovano con le piante in fiamme. Gli animali disintegrati trasformano la festa nella sagra del bue grasso.
Alimentata dalla droga, la Mariarita s’arrampica sull’impalcatura e sgancia il Panzer, che atterra incespicando e reggendosi l’uccello.
«’nduma, stùpid!» gli grida.
Un mutante più sveglio degli altri capisce cosa sta succedendo e si lancia verso i due brandendo un forcone arrugginito. La Mariarita lo fa incespicare, ma questo cade addosso al Panzer, spingendolo verso il salamatore. L’omone allunga un braccio per frenare la caduta, con l’unico risultato di infilarlo nelle fauci trituranti. La macchina si attiva, l’arto superiore sinistro del Panzer viene trasformato in poltiglia e mischiato a pepe, sale, aglio e vino. La donna lo spinge via, con un calcione butta il mutante nel macchinario e tira un paio di schiaffi al suo amico dal braccio mutilato, che sta gridando come uno sbarellato. Dalla sacca delle droghe prêt-à-porter sfodera una siringa di adrenalina e gliela schiaffa direttamente nella ferita sanguinolenta. Il Panzer urla, afferra dal macchinario i salami freschi ricavati dal suo braccio e si lancia verso l’uscita spintonando e schiacciando mutanti.
La Mariarita corre più lenta, e i mutanti hanno ormai capito cosa è accaduto.
Si guadagna l’uscita sparando e bestemmiando. Il gigante-orto è troppo impegnato a piangere i buoi affumicati per accorgersi dei proiettili che gli trapassano il cranio deforme.
Dai megafoni, il Bicciolano ringhia e fa rombare i motori. Le damigelle gli iniettano diserbante in quantità mortali, aprono tutti i serbatoi di diesel agricolo e si lanciano giù dal carro prima che la biomacchina decida che anche loro devono essere pasturate.
Il re del mattatoio travolge umani, mutanti, pentoloni ribollenti e cadaveri fumanti. La Mariarita spara a una vecchia a cavallo di una Graziella, gliela ciula e si lancia in mezzo alla Processione delle Macchine.
Il Panzer, quel coglione monco, s’è defilato. Alla faccia della gratitudine.
I piloti, cristiani ancora in pieno fervore religioso, fanno di tutto per tirarla sotto le ruote. Lei derapa rifacendosi tutta la fiancata destra, che rimane a ornare l’asfalto bollente.
Sbucciata come un bambino a cui hanno appena tolto le rotelline.
Il Bicciolano travolge e fa esplodere la prima delle Macchine Sacre, incurante di ogni conseguenza. A carnevale ogni scherzo vale, e la Mariarita è sua, rea di avergli rovinato la festa.
La donna capisce di avere una sola possibilità.
A testa bassa, pedalando sulla bici bianco sporco, si lancia verso un frontale assicurato con le restanti Macchine. I piloti lanciano un amen, il signore ha ascoltato le loro preghiere.
«An pé, ghi è la parsisiòn!» grida uno dal finestrino.
Il Bicciolano le è alle spalle, lei sente che il trituratore è sempre più vicino.
La predatrice frena, si ferma in mezzo al parcheggio infinito. Attende che i rombi dei motori e le urla del re dei mutanti siano più fastidiose della zanzara che ti ronza nell’orecchio di notte.
Poi, si butta di lato.
Il Bicciolano è potente, ma nemmeno lui può reggere a uno scontro frontale con l’intera Processione delle Macchine. L’esplosione diesel viene ulteriormente alimentata dai diserbanti nervini.
Fuoco atomico verde assenzio.
La metà escoriata della Mariarita viene inghiottita dalle fiamme. Se la sua carriera da spogliarellista era già chiusa, ora c’è proprio da metterci una croce sopra.

Riprende i sensi quando sente qualcosa di caldo carezzarle il volto. Il Panzer è chino su di lei, ancora pieno di adrenalina e altra merda chimica, ma ha avuto la grazia di trovare chissà dove delle mutande. Le sta accarezzando il volto semicarbonizzato con il braccio mutilato.
I salami sanguinolenti sono ancora ben stretti nell’altra mano.
«T’a ste ben?» le chiede.
«Ti t’è propri n’turluburlu.» bofonchia lei.
«Eh.»

Domani

A Vercessi l’umidità ti si attacca addosso, ti entra dentro, ti fonde la materia grigia.
Trovare un posto per far asciugare quei salami sarà un cazzo di casino.

Avatar utente
Pretorian
Messaggi: 727

Re: Semifinale Alberto Dalla Rossa

Messaggio#3 » sabato 1 giugno 2019, 22:25

Smorfia insanguinata

Decine di mascheranti affollano la grande sala sotterranea, spingendosi l’un l’altro per poter guadagnare spazio. Al centro della folla, il Celebrante e il Gran Caporazzia siedono uno di fronte all’altro.
Il Celebrante è anziano, la pelle bianchissima ormai tendente al grigio e il corpo, persino più ossuto del normale, rivestito solo con un perizoma di pelle consumata. La maschera di bubboni neri che copre il naso e circonda gli occhi della sua gente è attraversata da decine di cicatrici rituali, che sembrano sempre lucide di pus infetto.
- Ne, Mast’Prievte: cche virite?
Il Gran Caporazzia indossa una sorta di corazza fatta di rottami metallici. I suoi bubboni facciali sono coperti da una mezza maschera dipinta di nero, segno del suo ruolo. Il Celebrante non risponde, ma prende tra le mai un cranio mutante e comincia ad agitarlo. Sulla punta vagamente conica del teschio è stato aperto un foro: quando il vecchio lo rovescia, ne fuoriescono due piccoli gettoni d’osso levigati.
- Quarantuno: 'o curtiello – dice il vecchio, leggendo i numeri che vi sono dipinti sopra. – Dicessette: 'a disgrazia.

Tamburi nell’abisso.
Migliaia di mascheranti risalgono dalle profondità della Napoli Sotterranea, armati di coltelli, spade fatte con rottami o semplici ossa appuntite. La luce delle torce squarcia il buio dei tunnel e si riflette sulle zanne giallastre dei mutanti. Fauci spalancate in sorrisi innaturalmente grandi, che schioccano al pensiero del premio per la razzia: carne e sangue. Non il misero pasto offerto dagli animali delle profondità o dal cannibalismo, ma i corpi sodi degli imperiali di Proxima. Carni umane a cui la permanenza su pianeti lontani ha donato il sapore di spezie sconosciute.
Aizzata dalle urla dei capirazzia, l’orda attraversa le profondità sotto Ercolano e Portici ed oltrepassa le fondamenta di cemento delle mura che gli uomini-alieni hanno innalzato sulle rovine di Napoli. Per scavare quelle mine, migliaia di mascheranti sono morti, ma il loro sacrificio ha nutrito i guerrieri più forti e ne ha fomentato l’odio, preparandoli al momento della razzia. Le buche verso la superficie sono mascherate da diaframmi di terra profondi poche decine di metri. Quando gli operai cominciano a smontare le impalcature metalliche che li sostengono, la frenesia dei razziatori si trasforma in un’attesa impaziente.

I guerrieri si agitano alle visioni del Celebrante. Alcuni di loro, presi dalla fame, cominciano a colare bava dai lati delle fauci bestiali. Qualcuno sfoga la propria frenesia battendo il piede a terra, qualcun altro mette mano a un flauto d’osso o a qualche altro strumento musicale e la sala puzzolente si riempie di una cacofonia rabbiosa. Il Celebrante e il Gran Caporazzia sono gli unici a mantenere la calma: sanno che la previsione non è ancora finita.
Altri due gettoni cadono a terra.
- Durece: 'o surdato. Quarantasette: 'o muorto.

Quando i diaframmi vengono fatti crollare, i mutanti si arrampicano fuori dalle buche usando i coltelli o le nude mani artigliate. Molti cadono, ma non ci vuole più di una manciata di secondi prima che le voragini comincino ad eruttare centinaia di figure pallide con crani conici allungati. Arrivano inattesi: i loro ululati di guerra gettano nel panico i civili, che scappano in ogni direzione o cercano scampo negli edifici coloniali che sono sorti sulle rovine di San Giorgio a Cremano.
I soldati presenti sulle mura cercano di intervenire, colpendo nel mucchio con mitragliatrici pesanti e fucili a proiezione. I mutanti non hanno difesa contro simili armi, ma, per ognuno di loro che cade, altri dieci prendono il suo posto. Alcuni capirazzia fanno arrampicare i loro uomini sui tetti degli edifici e cominciano a bersagliare i difensori con frecce e pietre. I loro proiettili sono poco efficaci contro le protezioni dei miliziani, ma attirano la loro attenzione per il tempo che serve ad altri gruppi per scalare le mura interne e ingaggiarli in un furioso corpo a corpo. Gli uomini della milizia coloniale si difendono strenuamente, sparando dai capisaldi fortificati o tentando disperate cariche alla baionetta, ma è tutto inutile. In meno di mezz’ora, anche l’ultima mitragliatrice tace ed i pesanti cancelli vengono spalancati, facendo entrare nella colonia il resto dell’immensa fiumana mutante.


La musica disordinata si intensifica, trascinando i guerrieri in una danza altrettanto grottesca. Persino il Gran Caporazzia sembra lasciarsi prendere dall’entusiasmo dei suoi uomini e comincia a battere le mani a tempo. Non per questo, però, trascura i gesti del Celebrante, che continua a gettare le sorti.
Stavolta il presagio è insolito: i due gettoni che escono dal cranio sono attaccati tra loro. Il vecchio li prende e li stacca con una leggera pressione, facendo vedere che erano uniti da una sostanza rossastra.
- Deciott’: o ' sanghe. Vintun’: 'a femmena annura.

L’orda dei mascheranti dilaga in ogni area della colonia, massacrando chiunque si trovi sul suo cammino. Chi resiste, viene travolto. Chi fugge, viene inseguito e braccato come selvaggina. Chi si ferma per pregare, viene macellato sul posto come bestiame. Artigli e coltelli squarciano le carni, versando a terra il sangue degli uomini-alieni. Sangue rosso, infinitamente più dolce della poltiglia grigiastra che scorre nelle vene dei mutanti. Ogni volta che un imperiale viene atterrato, subito gli si forma attorno un capannello di mascheranti, che affondano freneticamente i denti nel suo corpo, senza neppure curarsi se sia vivo o morto.
Ma quella dello stomaco non è l’unica fame che le orde mostruose hanno covato nella lunga attesa nel sottosuolo.
Una donna viene braccata da un caporazzia e dai suoi gregari in un vicolo dell’antica Poggioreale. Viene sbattuta a terra e i vestiti le vengono strappati di dosso. Le sue resistenze vengono spente da un coltello puntato alla gola. Le lacrime sono tutto ciò che le resta, mentre il caporazzia si toglie di dosso i pochi cenci imbrattati e comincia a violentarla, aizzato dalle urla di approvazione dei suoi guerrieri, che aspettano a loro volta il loro turno per lo stupro e per il pasto. Né per gli uomini va meglio: in molti punti della città, femmine mutanti, distinguibili dai loro compagni solo per i seni cadenti e rugosi, afferrano i giovani più attraenti e li violentano, spesso cominciando a divorarli prima ancora di aver terminato lo stupro.
I nuovi edifici coloniali vengono dati alle fiamme, mentre gli antichi ruderi sopravvissuti all’olocausto nucleare vengono battuti palmo a palmo in cerca di disgraziati in fuga.
L’odio covato nel buio per tempo immemorabile trova il suo sfogo e le urla dei coloni riempiono la città fino al tramonto.


I ruggiti di trionfo fanno tremare le rocce delle profondità. Influenzati dalle visioni, i canti dei guerrieri si fanno sempre più lascivi e la musica assume una tonalità più languida. Alcune guerriere e capirazzia si spogliano e invitano i loro compagni all’accoppiamento, lanciando ululati osceni. La festa degenera in un’orgia sfrenata, mentre brocche piene di liquori scuri cominciano a passare di mano in mano. Sono bevande ottenute con le muffe che crescono nell’ambiente infetto delle tane più profonde, attecchendo su rifiuti e resti di cadaveri. Velenosi per chiunque altro, quei miscugli bruciano nelle gole dei mascheranti ed eccitano le loro menti feroci.
Il Gran Caporazzia si alza in piedi. Due delle sue compagne gli si strusciano addosso, accarezzandogli la pelle non coperta dalla corazza con i bubboni neri delle loro maschere facciali. Il mutante, visibilmente eccitato, alza in alto la sua enorme scure metallica.
- Ce ripigliamm' tutt' chell che è 'o nuost!! – urla, per poi avvicinare il volto a quello del Celebrante, ostentando un ghigno di sfida mentre accarezza l’arma – Cu chesta c’arripigliamm!
Il vecchio non reagisce alla provocazione. Solo, agita il cranio e lo rovescia.
- Sittantasette: 'e riavulille – dice, fissando negli occhi il Gran Caporazzia con uno sguardo che va oltre la risposta alla sua sfida. - Sissantuno: 'o cacciatore.

Mentre il sole si avvia a calare nel Golfo di Napoli, la marea mutante converge sull’ultimo punto ancora non occupato: l’antico Castel dell’Ovo, ora utilizzato come residenza del console. I coloni superstiti si preparano a difenderlo, bloccando la sottile lingua di terra che lo collega alla terra con fortificazioni improvvisate.
Ogni imperiale rimasto, uomo, donna, o bambino, è mobilitato. Chi non imbraccia un’arma, rinforza le barricate, porta le munizioni, o assiste in ogni modo i combattenti. Per l’ultima resistenza, anche le guardie del console sono state mobilitate: un pugno di triarii imperiali, chiusi nei loro poderosi esoscheletri da guerra potenziati e armati con mitragliatrici pesanti a proiezione.
Quando i mascheranti si presentano sulla costa e lanciano il loro grido di guerra, stavolta si alza una risposta altrettanto rabbiosa.
- Per Proxima e per il Genius des Kaiser!
I coloni aprono il fuoco contro l’orda. Le raffiche di proiettili tranciano arti, spappolano teste e fanno letteralmente a pezzi i razziatori delle prime linee. La marea di mascheranti sbanda, ma altri ne affluiscono dalle retrovie. Alcuni di loro si gettano in acqua e tentano di raggiungere il castello a nuoto: chi non annega, viene abbattuto con estrema facilità dai coloni, a cui non sembra vero di poter colpire bersagli così lenti e visibili.
I mascheranti cadono a centinaia, eppure continuano a farsi avanti, resi persino più pazzi dall’odore di morte e dalla vista del sangue.
Vedendo l’inefficacia dell’assalto diretto, i capirazzia fanno demolire gli edifici conquistati e ne fanno accumulare i detriti lungo la costa o sulla lingua di terra che porta alla fortezza. Dietro quei ripari improvvisati, arcieri e frombolieri fanno piovere una pioggia di proiettili contro i difensori, mentre gli altri guerrieri tentano di tirar su barricate che, metro dopo metro, gli consentano di raggiungere i loro odiati nemici.
Rendendosi conto del pericolo, il decano che guida la difesa dei coloni lancia un ordine che sovrasta persino il rumore degli spari.
- Portate subito quell’H-Ragnarr Loðbrók! Tirate giù quelle maledette barricate!
Pochi minuti dopo, sotto lo sguardo attonito dei mascheranti, accanto ai difensori compare una figura vagamente umanoide, alta quasi due metri e mezzo e con una corazza persino più poderosa di quella dei triarii. Un mech di classe Heros, le cui braccia sono costituite da due cannoncini gemelli da 20 mm e i cui visori rossastri scrutano le orde di mutanti in un modo che fa scorrere un brivido in più di un razziatore veterano. Il mostro d’acciaio comincia un bombardamento serrato dei mascheranti, spazzando via le barricate di detriti in pochi istanti e massacrando sul posto decine di assalitori. I pochi metri conquistati a caro prezzo vanno perduti, e le coste del porto si ricoprono di cadaveri e di moribondi dai corpi martoriati. L’avanzata dei mutanti si infrange e con essa la furia che li aveva guidati fino a quel momento. Un razziatore, coperto da capo a piedi dal sangue grigiastro dei suoi compagni, getta via l’arma e comincia a scappare.
- Fuitevenne! Ca c’ murimm tutt’ quant’! – Urla, prima che un caporazzia lo faccia tacere con un colpo di mazza che gli spacca il cranio. Ma il danno è fatto: i mascheranti si danno alla fuga, calpestandosi l’un l’altro nel tentativo di mettersi al sicuro dai proiettili dei coloni. La marea pallida defluisce, lasciando dietro di sé solo un mutante emaciato e vestito con un perizoma consunto.
Il Celebrante.


Mano a mano che la visione procede, la musica cacofonica e i rumori dell’orgia si diradano, lasciando il posto a un silenzio carico di tensione. I mascheranti non storditi dai liquori si guardano l’un l’altro con apprensione mentre, nelle retrovie più lontane dell’assembramento, qualche guerriero si allontana nel buio, preferendo l’ambiente infetto delle tane profonde al rischio di essere fatto a pezzi da avversari apparentemente invincibili.
Il Gran Caporazzia sente su di sé lo sguardo dei suoi guerrieri e trema: la promessa di vendetta e di cibo ha cementato il suo potere contro i suoi rivali, anche davanti ai sacrifici che lo scavo delle mine ha comportato, ma difficilmente potrebbe rimanere al comando se quella speranza dovesse rivelarsi falsa. La prospettiva di essere divorato vivo davanti all’assemblea, come lui ha fatto con il Gran Caporazzia precedente, non lo entusiasma per niente. Trattiene il respiro mentre il rumore del cranio sacro che viene agitato rompe il silenzio. Il Celebrante raccoglie altri due gettoni d’osso: mentre legge il risultato, la sua ombra sembra incombere sempre di più sulla figura ingobbita del Gran Caporazzia.
- Trentasette: 'o monaco. Uttantacinche: l'aneme d' 'o priatorio.

Il vecchio avanza lentamente, le braccia tese a croce, indifferente ai proiettili che fischiano a pochi millimetri da lui. Chiama a gran voce l'aneme d' 'o priatorio, gli spiriti degli antenati che sono rimasti sulla Terra, rintanandosi nelle profondità del suolo per sopravvivere all’olocausto nucleare e biochimico. Ne invoca l’odio e il terrore accumulati nei lunghi millenni di agonia sotterranea, quando l’unica cosa che li spingeva a scavare nel buio era la speranza di sopravvivere. Sopravvivere in attesa di vendicarsi di coloro che avevano distrutto il loro mondo, per poi scappare impuniti su pianeti lontani.
Un proiettile gli strappa un pezzo di carne sulla spalla sinistra, un altro gli fa esplodere uno dei mignoli artigliati, eppure il Celebrante continua a camminare, urlando ancora più forte le sue preghiere.
Offre il sangue umano dei suoi nemici e quello grigio della sua gente in olocausto al rancore infinito delle aneme d' 'o priatorio e all’odio che le ha vincolate a quel mondo in agonia. Una cannonata del mech esplode a poco lontano da lui, sbalzandolo ad alcuni metri di distanza. Il vecchio sputa un grumo di sangue e si alza in piedi: una scheggia di pietra gli ha traforato il torace, eppure ha la forza per maledire ancora i nemici della sua gente.
Quando l’eco delle sue parole di spegne, nei pochi istanti che passano prima che i coloni puntino nuovamente la mira su di lui, la terra prende improvvisamente a tremare e il Celebrante comprende che le sue preghiere sono state ascoltate.
In ogni direzione, la terra si riempie di voragini, che inghiottono vivi e morti come fauci affamate. Anche l’acqua comincia a bollire ed assume una colorazione verdastra, mentre su tutto incombe un odore asfissiante di decomposizione, come se l’intero Golfo di Napoli si fosse trasformato in un immenso cimitero.
Poi, dalle profondità degli squarci, emerge una densa nebbia, la cui fosforescenza illumina il mare con una fredda luce verdastra. Il fumo dell’abisso si contorce, si estende su ogni cosa, e nelle sue volute compaiono figure umane e mostruose, che scrutano i coloni con milioni di occhi malvagi.
Quando gli imperiali comprendono di essere in pericolo, per loro è già troppo tardi.
Una colonna di nebbia si trasforma in una gigantesca chela, che afferra uno dei difensori e lo spezza a metà, inondando i suoi compagni con una pioggia di sangue. La donna accanto a lui urla e si fa indietro ma, prima che possa reagire in alcun modo, viene afferrata da decine di mani umane spettrali, che la sollevano in alto mentre smembrano il suo corpo pezzo per pezzo. La vista di simili orrori manda nel panico i coloni, molti dei quali abbandonano le barricate e fuggono. Non serve a nulla: il più veloce a fuggire si ferma dopo pochi metri, soffocato dalle spire di fumo che gli entrano nella bocca e nel naso. Quando si volta verso i suoi compagni, in cerca di aiuto, la sua pancia si gonfia in modo innaturale, poi esplode, rilasciando una miriade di topi deformi. Davanti a quella vista, ciò che resta del coraggio dei coloni crolla definitivamente. Nemmeno il Golfo è sicuro: un bambino si butta in mare per scappare a nuoto, ma dall’acqua riemerge solo la sua testa, agganciata all’estremità del peduncolo di un immenso pesce abissale. Ancora gocciolante di sangue, maledice i suoi compagni in una lingua sconosciuta.
Il decano dei triarii, che ha incitato fino all’ultimo i suoi compagni alla resistenza, viene inghiottito da un’immensa testa d’insetto comparsa dal nulla, le cui mandibole squarciano il suo esoscheletro potenziato come se fosse fatto di carta. Anche il Ragnarr Loðbrók viene distrutto, o meglio, fatto a pezzi da decine di tentacoli muniti di occhi, che gli strappano gli arti d’acciaio con la malvagia minuzia di un bambino che tormenta un insetto.
Uno dopo l’altro, i coloni superstiti vengono trucidati e i loro corpi vengono trascinati nelle voragini delle profondità. Quando anche l’ultimo grido di dolore viene inghiottito dalla nebbia, il silenzio cala sul Golfo di Napoli.
L'aneme d' 'o priatorio hanno reclamato il loro tributo.


L’assemblea dei razziatori prorompe in un grido di trionfo. La musica riprende, stavolta modulata come un inno sacro, con cui i mascheranti rendono grazie ai loro antenati e al loro infinito rancore. Molti si inginocchiano e fanno voti sacri, promettendo ricompense di sangue in cambio di cibo e vittoria. Ma non sono solo l'aneme d' 'o priatorio ad essere ringraziate: molti guerrieri si inginocchiano intorno al Celebrante, supplicandolo per una benedizione. Persino i più potenti dei capirazzia si avvicinano a lui e gli offrono le armi in segno di sottomissione.
Il vecchio sorride e dispensa le parole di rito a chiunque le chieda. Ad ogni benedizione, il suo ghigno feroce si allarga e i suoi occhi incrociano per un istante lo sguardo del Gran Caporazzia. Quest’ultimo osserva con rabbia malcelata il sacerdote, stringendo le mani sull’impugnatura della scure per ogni suo razziatore che fa atto di sottomissione. Si guarda intorno, alla ricerca di qualcuno che esiti in quelle manifestazioni di devozione, ma trova solo sguardi adoranti: in pochi minuti, è praticamente l’unico a non essersi sottomesso all’autorità del Celebrante.
A quel punto, Il vecchio si volta verso di lui e muove alcuni passi nella sua direzione. A quel gesto, su tutta la sala cade un silenzio improvviso. Il Gran Caporazzia si scopre circondato e sente il cuore fermarsi quando si rende conto che i suoi stessi guerrieri lo stanno guardando con odio, le mani strette sulle armi, in attesa dell’ordine che decida della sua sorte. La rabbia evapora in terrore e si getta immediatamente a terra, offrendo al Celebrante la sua ascia con un gesto di totale sottomissione.
Il silenzio della sala è rotto dal suono della risata del vecchio, che si avvicina al Gran Caporazzia, lo abbraccia e lo fa rialzare, alzando insieme a lui la scure di ferro…

…la cui lama stacca un’altra testa da un cadavere imperiale. Il Gran Caporazzia la alza in segno di trionfo, poi la consegna con aria solenne al Celebrante. Il vecchio annuisce e la solleva in alto, portandola tra due file di mascheranti allineati, al termine delle quali si apre un immenso squarcio nel terreno. Il vecchio prega ad alta voce ed offre la testa al rancore inestinguibile delle aneme d' 'o priatorio, poi la lascia cadere. Per un istante, il buio delle profondità si accende di una luce verdastra, punteggiata di innumerevoli occhi. Gli antenati stanno gradendo il sacrificio, ma non sono ancora soddisfatti.
Il vecchio ne è consapevole e torna sui suoi passi. Gli spettri del buio hanno sussurrato a lungo nella sua mente e gli hanno rivelato molti segreti.
Quella che hanno distrutto non è l’unica colonia: gli uomini-alieni ne hanno edificate a dozzine su tutto il pianeta, inconsapevoli del rancore millenario che si contorce nelle sue profondità. Ora quell’odio si è svegliato, e la sua fame incontenibile non potrà essere placata con nessun altro sacrificio, che non sia quello degli invasori. Una fame molto simile a quella dei mascheranti, che di quel mondo contaminato sono gli unici, veri, figli.
Il Celebrante prende dal Gran Caporazzia un’altra testa e sorride. Quel massacro è solo l’inizio: le visioni gli hanno mostrato il futuro. Gli hanno mostrato il fato che attende da ora in poi i loro nemici.
- Nuvanta: 'a paura.


Agostino Langellotti

Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Re: Semifinale Alberto Dalla Rossa

Messaggio#4 » mercoledì 19 giugno 2019, 23:12

Salam d'la duja
Un racconto salace, che mi ricorda da vicino le atmosfere di Mad Max al guazzetto verde. Ho apprezzato soprattutto il senso grandguignolesco mischiato a elementi assolutamente terragni e locali come la sagra del porco e il girare in bicicletta: si sente l'influenza della Riviera Napal. Molto bene, quindi, questo racconto che mi ha divertito parecchio, reso speciale da un semplicissimo quanto fondamentale gioco di parole. Unico appunto che mi sento di fare è legato all'esagerazione, che talvolta sembra sfuggire al controllo. È il pericolo maggiore quando si maneggia letteratura tossica: che il piede scivoli sull'acceleratore inzaccherato di sangue e viscere e il carrozzone si ribalti a bordo strada. Nel tuo caso sei riuscito a tenere il controllo proprio grazie al senso dell'assurdo e della frase. Qualche sbucciatura di sicuro c'è, ma basta una sniffata di solvente e vernice argentata e sei pronto a urlare di nuovo "Ammiratemi".



Smorfia insanguinata
Apri bene ma - a mio modesto parere - perdi il controllo in fretta. Perché il tutto, sebbene carico di violenza, non riesce a reggersi sulle sue gambe e finisce per diventare un lungo elenco di bubboni neri e deformazioni. A differenza del tuo contendente, la cui ambientazione è fondamentale e funzionale alla storia, Napoli fa solo da sfondo; se al posto della città partenopea ci fosse stata una colonia mineraria nel settore di Orione, non avrebbe fatto alcuna differenza. Il risultato è un ottimo cosplay di warhammer40k, ma perde il reale senso del mutante locale. C'è il postapocalittico, sì, ci sono i mech e il tecnobabble che però aggiungono poco all'ambientazione: vedevo solo un tavolo da gioco, con tanto di dry brushing sulle minie. Insomma, avrei preferito più originalità, tanto più che avresti davvero potuto sfruttare l'aspetto locale e macchiettistico dei rioni e della napoletanità in genere, in un gioco di autoironia che avrebbe fatto la differenza. Insomma, troppo wh40k e troppo lovecraft, troppa poca pastiera e cazzimma.

Immagino a questo punto che sia evidente a chi va il mio voto. Passa il turno e accede alla finale: Salam d'la duja!
Scusate, devo andare ad addestrare le Mutrie.

Torna a “La Sfida a Riviera Napalm”

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite