Semifinale Biancamaria Massaro

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo luglio sveleremo il tema deciso da Marina Crescenti. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) I BOSS assegneranno la vittoria.
Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Semifinale Biancamaria Massaro

Messaggio#1 » venerdì 2 agosto 2019, 0:44

Immagine

Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Il branco uccide.
Accedono in semifinale: L'erba cattiva e Uno splendido sorriso.

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: domenica 4 agosto alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 4 agosto. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



Avatar utente
Massimo Tivoli
Messaggi: 396
Contatta:

L'erba cattiva – di Massimo Tivoli

Messaggio#2 » venerdì 2 agosto 2019, 12:01

L’erba cattiva
(di Massimo Tivoli)


Il sole è rosso come una ferita nuova.
È tardi, devo tornare a casa. Mamma starà in pensiero. Guardo l’orologio che ho al polso, quello uscito dalla scatola dei cereali. È passata mezz’ora da quando sono tornato a dirgli che lo faccio, il lavoro. Mario puzzava di quell’acqua che tiene nella borraccia di metallo, che odora come lo spirito che usa mamma per fermare il sangue dal naso. Io lo vedo rosso, il sangue di mamma. Ma i dottori dicono che è pieno di cose bianche. Blasti, li chiamano.
Mica che Mario è cattivo quando puzza. Cattivo è stato stamattina. Quando mi ha detto che penso solo a me e che non m’interessa se mia madre non ha i soldi per comprare la medicina. Mi ha pure detto che, se lei muore, io resto da solo ché lui non vuole essere amico di uno che prende senza mai dare qualcosa in cambio. Infine, mi ha urlato che sono come gli altri, che non capisco l’importanza del suo lavoro, e che sono un bugiardo. Quindi sono scappato piangendo.
Quando sono tornato mezz’ora fa, Mario era diverso: occhi da pazzo e puzzava, ma non mi ha strillato le cattiverie. Siccome ho deciso di aiutarlo con il lavoro, mi ha perdonato e mi ha dato già metà dei soldi.
“Per curare mamma, faccio qualsiasi cosa”, gli ho detto, con i pugni chiusi e la pipì sulla punta del pisello. Per fargli capire che non è come dice lui. Solo che poi ha iniziato a piangere e mi ha detto un segreto sul sasso di papà. Allora ho iniziato a piangere pure io. Mamma non lo sa ma non glielo dico, ché sicuro le dispiace.
Mario piange ancora. Mi rattrista perché è l’unico amico che ho. È vero, qualche volta mi dice le cattiverie ringhiando come un cane rabbioso, ma non si scoccia che mamma mi porta da lui. Lei gli chiese il permesso quella volta che gli voleva comprare le zucchine. Mario le diede il permesso e le zucchine senza prendersi i soldi, disse che l’orto era solo per passare tempo e scacciare i ricordi. Infatti, il lavoro di Mario è un altro. “Falcio l’erba cattiva”, mi disse. E aggiunse pure che era il migliore a farlo. Forse è per questo che ogni tanto sparisce. “Vado fuori città, a fare un lavoro grosso”, mi dice tutte le volte. Deve essere proprio bravo se lo chiamano dappertutto. Solo che ormai è diventato vecchio e gli serve un aiutante. Mi ha detto che ha aspettato tanto, e che gli altri lavori erano solo per prepararsi a questo. “Stavolta è più rischioso perché qui mi conoscono tutti. Ma io sono il migliore, e non devo sbagliare”, ha aggiunto, e io ho pensato che avesse paura di fare una figuraccia con la gente del paese.
Ora Mario urla al cielo, urla a Lele. Strano, i papà arrabbiati con i figli sono cattivi. Invece Mario è buono. Stamattina si è comportato male, ma io penso che lo abbia fatto solo per il mio bene e per quello di mamma.
Mi asciugo le lacrime con la mano e Mario fa lo stesso. Vorrei dargli una carezza, ma ha la barba lunga. Sembra Babbo Natale, ma i capelli e la barba non sono ovatta, sono le nuvole del temporale.
«Mi dispiace» dico, guardando in basso e dando un calcetto alla gamba della sua sedia, «non volevo che piangevi.»
«Sta’ tranquillo, cinesino.» Mi accarezza la guancia e sorride appena. «Non sei tu, è il ricordo. È come l’erba cattiva» dice, indicando il prato vicino all’orto, «non muore mai.» Il sorriso è sparito.
Mi chiama così per gli occhi a mandorla. Mica che pure gli altri, loro usano un soprannome che mi fa sentire le formiche e il fuoco alle guance.
Però è vero, l’erba cattiva non muore mai. Ma Mario conosce un modo per spezzarla.
Mi mette una mano sulla spalla. «Aspettami, vado a prendere il decespugliatore.» Si alza dalla sedia e va verso il trullo. Le bretelle gli tirano così su i pantaloni che gli fanno il culo grosso.
Ogni volta che guardo il trullo di Mario, sento come una goccia di sudore freddo che mi scivola lungo la schiena. Il bianco delle pareti è mangiato dalla muffa e sul tetto ci sono zolle di erbacce puzzolenti. Non è come gli altri trulli. Quello di Mario sembra malato, ha le macchie come il sangue di mamma. E poi non c’è mai tanta luce. Mica che ho paura del buio. È che non si vede bene e posso cadere o sbattere, e bucare la tuta di jeans. E poi mamma si arrabbia, ché sta sempre a mettermi toppe. Però è davvero buio là dentro; l’oscurità ti inghiotte e non sai mai se ne uscirai. Quelle macchie mi fanno pensare al buio che s’infila in ogni crepa, in ogni ferita del trullo, per schizzare fuori, libero di andare dove gli pare. Mi vengono i brividi, certe volte Mario è proprio come il trullo, e le cattiverie che gli scappano mi sa che sono le sue macchie.
Viene verso di me, tiene il coso che taglia con una mano. «Tieni.» Mi passa il coso e devo stringere le chiappe per tenerlo. «Falcia ’sto pezzo.» Il braccio indica di nuovo il prato vicino all’orto.
Sorrido sbattendo gli occhi. Mica che mi piace il lavoro che dovrò fare. Ma i soldi sono la felicità, papà glielo diceva sempre a mamma.
Mario è rientrato nella pancia del trullo e io ho iniziato a falciare.
Il braccio trema e mi fa male. Ma quanto ci mette?
Sento qualcosa che mi sfiora la spalla. Mi volto. «Ehi, fa’ attenzione!» urla Mario, indietreggiando e mostrandomi le mani aperte.
Spengo il coso. «Scusa, mi hai fatto paura» gli dico, guardando per terra.
«Sono dieci minuti che ti chiamo dal trullo. Non hai sentito?»
«No.» Continuo a guardare in basso.
«Neanche quando mi sono messo a gridare aiuto?»
Mi sto agitando, Mario sembra il prof di matematica durante l’interrogazione. «No, neanche quello.»
«Bene» conclude soddisfatto. «L’altra metà te la do a fine lavoro, okay?»
Alzo il viso e il pollice, e gli faccio l’occhiolino. «Un Lannister paga sempre i propri debiti.» E quando che lo dice l’attore che fa Tyrion mica lo dice meglio. Ma perché mi esce la lingua di lato? Quando che lo dice il nano mica esce.
Mario si avvicina sorridente e mi spettina con la mano. Poi, facendo sparire il sorriso, mi guarda dritto negli occhi. «Domani fa’ attenzione. Nessun errore o dubbio, se è vero che vuoi bene a tua madre.»
Sento le formiche nella pancia e mi viene da fare pipì, e vorrei dirgli di non guardarmi in quel modo.

***

L’orologio che sta sopra l’entrata della scuola segna le 8.00. Per fortuna che ha i numeri. Sbadiglio e mi tira la faccia, ieri notte non ho dormito. Pensavo al segreto che mi ha detto Mario sul sasso di papà e ripetevo a mente le istruzioni che mi ha dato per non fare errori. Le ho ripetute cinquanta volte, io voglio bene a mamma.
Mi volto e vado verso i giardinetti.
Mi allungo dietro il cespuglio con le palline rosse. Mi piace l’aria dei giardinetti, sa di pulito. Mica che sono l’unico che ci viene, ci stanno pure gli altri compagni. E, soprattutto, ci sta Nico. Quest’anno me lo sono ritrovato in classe. Dicono che non gli piace la scuola, però mica che vuole lasciarla. Stacco una pallina e me la metto in tasca. Poi, ne stacco un’altra, e un’altra…
Ora l’orologio segna le 8.10. Mi viene quasi da fare pipì.
Mentre conto le palline che ho in tasca, sento la voce di Nico, e di una ragazza. Mi inginocchio e infilo la faccia nel cespuglio, spostando i rami per spiarli.
Si mettono a sedere proprio sulla panchina di fronte a me. Prima della campanella, Nico porta le ragazze sempre qui. Se faccio rumore, mi sentono di sicuro ché sono solo quattro passi dal cespuglio. Di quelli che mi ha insegnato a fare Mario per misurare i metri di prato.
Le loro lingue si leccano, che nemmeno nei film. Nico si prende tutte le ragazze della scuola. Eppure ha la pancia e sembra una puzzola con quella striscia di capelli ricci in mezzo alla testa, e ha pure il naso storto, con la pelle rotta da una ferita vecchia. Ma alle ragazze piacciono quelli che fanno paura solo a guardarli. L’ha portata sulla panchina così fa sapere a tutti che è la sua ragazza.
Lei ha le lentiggini e i capelli biondi e la pelle bianca, come me. E un braccialetto alla caviglia che mi fa girare la testa: quando lo vedo, il pisello si muove da solo e diventa duro, che quasi assomiglia a un tronco. Mica che spero di avercela io, una così. Semmai, una cinesina. Così, per una volta, non mi dispiace che la lingua mi esce sempre fuori.
Sento l’aria nella pancia. Mi alzo e scoreggio.
«Ma che cazz…» Nico si volta, il naso gli fa le pieghe come a un cane che ringhia. Mi ha sentito pure lei e allora abbasso lo sguardo. Che brutta figura. «Ma guarda ’sto mongolo» dice Nico, indicandomi con la mano. Sento le formiche e il fuoco alle guance. Dondolo: lo faccio per calmarmi, e quasi sempre funziona.
«E dai, lascialo stare» gli dice lei, mettendogli le mani sul petto. «Lo sai com’è, Tony.» Lei è buona, anche se le piacciono i cattivi.
«Tu non rompere le palle.» La prende per un braccio e la tira via. «E vaffanculo.»
«Sei… sei uno stronzo.» Lei piange. Va via. Vorrei dirle scusa.
Nico si alza e viene verso di me, ritirando la pancia e gonfiando il petto. «Ci spiavi? Magari ti tiravi pure una sega.» Agita la mano, mica che lo so perché. «Ma tanto tu usi il pisello solo per pisciare.» Mi dà una spinta e cado col culo per terra. «Ritardato di merda.»
Mi guardo intorno, cercando qualche compagno che mi aiuti. Paolo ci punta col telefonino. Forse sta facendo un film. Deve essere bravo, una volta glieli chiese persino il preside, i film. Ada ride e dà una gomitata a Sergio, il suo ragazzo del giorno, che ride pure lui. Giovanni parla all’orecchio di Davide, il vicino di banco. Dicono che si piacciono, ma io non ci credo. Ai ragazzi piacciono le ragazze, ce lo insegnano a religione.
Ai giardinetti ci stanno sempre tanti compagni di classe, ma non mi vedono. Allora mi sento che devo scomparire e la testa mi va da un’altra parte, dove vivono i ricordi.

Sul marciapiede, spiavo Nico da dietro la siepe. Stava nel giardino di casa sua e col braccio teneva un bastone. Lo avvicinò alla bocca e si mise a cantare.
Wild boys, never loose it…
Aveva una voce forte, ma che era pure dolce, quasi come le carezze di mamma. Si muoveva leggero, non sembrava lui. Anche Nico era da un’altra parte, dove persino lui non era cattivo.
Il papà uscì in giardino, in giacca e cravatta, e tanto gel nei capelli. Sembrava Jordan di The wolf of Wall Street. Gli arrivò da dietro e gli tirò i capelli. Lo buttò a terra e gli rubò il bastone. Nico agitava le braccia e le gambe, e piangeva e urlava di non fargli male. Ma il papà lo menò col bastone in faccia. Nico coprì il naso con le mani, ma il sangue arrivò presto sulle guance e sul collo. Poi lo menò sulla pancia e Nico si piegò come un bambino appena nato. Allora il papà gli diede un calcio alla schiena. Il botto mi fece saltare, e quasi mi faceva male la schiena. Nico si distese come un arco quando si tira la corda, la bocca spalancata, il viso viola. Poi, urlò. Iniziai a piangere.
Il papà gli schiacciò la faccia con la scarpa. «Se ti ribecco a fare il frocio che canta, ti levo da scuola e ti mando a lavorare. Fa’ l’uomo, invece di usare il pisello solo per pisciare.» Guardai la faccia e gli occhi del papà, e bagnai tutti i pantaloni, persino il marciapiede.
Erano gli occhi di Nico adesso.

Il ricordo mi scappa dalla bocca: «E tu sei un frocio che canta.» Mica che lo so che significa ma è stato come quando che la lingua mi esce fuori.
Tutti scoppiano a ridere.
Nico li guarda, a uno a uno. Poi, quando prende un sasso da terra, ritorna il silenzio. «Sei morto, mongolo.»
Mi spinge sul petto con la gamba, facendomi sbattere la schiena a terra. Sta a gambe larghe sopra di me. Carica il braccio. Sento il pisello che mi pizzica, adesso mi scappa davvero. Ma poi penso che sono The Ultimate Warrior e che lui è Macho Man, e allora ruoto sul fianco e schivo il sasso. Il botto ha rimbombato nelle orecchie.
Mica che lo so come ho fatto.
Ruoto di nuovo. Nico prepara un pugno. Scatto con la gamba e gli do un calcio nelle palle. Si porta le mani in mezzo alle gambe, tossisce e sbatte i tacchi sul terreno. Mi alzo e mi metto a correre.
Mi volto un secondo. Nico mi insegue, la faccia rossa e le vene della fronte e del collo gonfie. Nonostante i vestiti, ho riconosciuto la ciccia che faceva le onde. Corro più veloce.
Tante cose non le capisco e non le so fare come gli altri. Però, quando corro, le gambe vanno da sole. Come quando che viaggio con la testa o mi esce la lingua di fuori. Sento i botti del cuore e le gambe gli vanno dietro.
Un botto, un passo. Un botto, un passo…
E quando che mi sembra che non respiro più, la testa viaggia di nuovo e mi riporta da papà. E allora mi vedo uscire dal furgoncino e corro con tutta la forza che ho.

Papà stava alla guida, una mano sul volante e l’altra teneva il cellulare all’orecchio. Il furgoncino puzzava talmente di vernice che mi girava la testa. Io gli sedevo a fianco. Le mani di papà erano sporche di vernice, e pure le braccia e la faccia, come anche la tuta da cantiere. Aveva la pancia. Ma le braccia erano piene di vene e muscoli. Era Hulk.
«Rita, te l’ho già detto. Siamo in rosso!» Quando urlava contro mamma, a me faceva sempre un po’ di paura, e anche tristezza. «Basta con ’sta stronzata della scrittura. Non ci ricacci niente.» Il furgoncino sbandò e, per poco, non finimmo nel fosso. Papà non aveva visto lo scooter che ci veniva addosso dopo un sorpasso. «Ti devi trovare un lavoro… cazzo, pensa a Tony!» Pensai che litigavano per colpa mia. Ma poi papà disse: «Svegliati, i soldi sono la felicità.» Litigavano ancora per i soldi, litigavano sempre per i soldi.
Allora capii che i soldi mettono tutto a posto. E, forse, avrebbero sistemato pure papà. E pensai che fu per quello che il sasso cascò sul vetro della macchina, distruggendolo, perché non avevamo i soldi. E sempre per i soldi, papà non teneva la cintura. Io sì, ma la sua era rotta. Da un paio di anni, mi sa.
Il furgoncino superò il ponte da dove cascò il sasso. Lo superò girando su se stesso. Ridevo, sembravano le giostre. Ma poi finimmo nel fosso, il furgoncino batté il muso contro una pietra grossa. Papà venne lanciato fuori, la pietra si sporcò di rosso. Non ridevo più, e bagnai i pantaloni e il sedile. Il fumo usciva dal muso della macchina, poi seguirono le fiamme. Tossivo, la puzza di bruciato mi era entrata nel naso ed era arrivata in gola. Faceva caldo che non riuscivo a respirare. Le gambe di papà scattarono, due o tre volte, come se gli davano la scossa.
«Co… corri.» Sembrò che teneva una patata in bocca.
Io uscii dalla macchina e corsi. Non mi fermai neanche quando sentii il botto. Corsi fino a casa dove ormai il sole era scappato dietro le montagne.

Arrivo al trullo di Mario e mi ci ficco dentro, accostando la porta. Penso a Nico che forse non mi ha visto, e mi viene da fare pipì.
Invece entra, spalancando la porta fino a farla sbattere, ma non ci arriva a toccare il muro. Dal rumore che ha fatto, sembra che la porta abbia sbattuto contro un materasso. Trattengo un sorriso.
Nico sta sulla soglia, ha il fiatone e si appoggia con le mani alle ginocchia. Io sto di spalle al tavolo di lavoro, che sta attaccato alla parete di fronte a lui. Indietreggio e sbatto il culo sul bordo del tavolo, facendo tintinnare tutti gli attrezzi. Sento un ticchettio liquido sul pavimento: gocce di sangue mi colano dalla mano. Prima, poggiandola d’istinto sul piano del tavolo, mi sono graffiato con la sega. È grande e lunga. I denti sembrano quelli dello Squalo 4 e sono tutti macchiati di un rosso che ormai è quasi nero, come la pece. Mario dice che è ruggine, ma la lama puzza di pesce marcio. La stessa puzza che viene dalla botola che porta al sotterraneo, dove lui mi ha detto che sta la cisterna. Spero che Mario non beva quell’acqua, ché sicuro si prende qualche malattia.
Mentre Nico riprende fiato, penso alla porta ancora spalancata. È l’unica uscita perché non ci sono finestre. Devo attirarlo verso di me. “Il trullo è perfetto per giocare a nascondino”, dice Mario. Sfruttando la poca luce che entra, individuo la scala a pioli che sale al soppalco di legno, dove dorme Mario. A casa sua non ci dorme più. “Troppi ricordi”, dice. Ho le bolle nella pancia e scoreggio di nuovo: davanti a me Nico e sopra la tana di Mario. Io non ci sono mai salito e il solo pensiero mi fa fare altre scoregge. “Non ti azzardare ad andarci, per nessun motivo!” mi dice sempre, guardandomi con occhi che sembrano di un altro. È in questi momenti che la faccia di Mario sembra la maschera che copre il viso di un cattivo dei film, come Joker di Batman. Però penso che è il posto dove dorme il mio amico, e non può essere peggio delle botte di Nico. Scatto veloce e salgo la scala quasi a occhi chiusi. Quindi la tiro su per non farlo salire.
Sporgendomi, vedo Nico che ha ripreso fiato. Avanza di un passo, ma sta ancora troppo vicino alla porta. Ritira la pancia e gonfia il petto. «Sei in trappola, stronzo di un down!» mi urla da sotto, puntandomi un dito contro. Sulla bocca la stessa bava del papà. «Finirai come quell’altro spastico. Ma la soddisfazione di suicidarti non te la do. Ti ammazzo io.»

Stavamo in chiesa, io e mamma. C’erano pure i compagni di scuola, di tutte le classi, e c’era pure Mario. Seduto da solo in prima fila, stava con la testa bassa. Le spalle gli saltavano, come che quando uno ha il singhiozzo.
Io e i compagni ci mettemmo in fila per salutare Lele. Mica che capii perché. Dormiva come Dracula nella bara, e non ci avrebbe sentito.
Ero quasi arrivato, davanti a me stava Nico e due amici suoi. «Che figata, la paresi non si nota più» disse Nico a bassa voce, ma non abbastanza per il rimbombo della chiesa. Mario si girò di scatto verso di lui. Era una statua, stava con i pugni chiusi e la faccia rossa e le lacrime ferme sulle guance. Ringhiò qualcosa tra i denti che io non riuscii a sentire. Per la prima volta, nei suoi occhi vidi il buio del trullo. «Pure in foto è uscito meglio» aggiunse Nico, forse perché la foto era circondata di fiori. «Era uno sfigato solo da vivo.» Il viso dei due amici arrossiva e sembrava che non riuscivano a respirare, e col naso facevano le pernacchie. Uno si avvicinò a Nico e gli disse: «E adesso, con chi cazzo ci divertiamo?»
Mica che Lele si divertiva con loro. A Lele piaceva solo volare. Però io glielo dicevo che mica che era un uccello. E lui mi diceva che non ce la faceva più e che ci avrebbe provato dal balcone di casa.

Nico prende una sedia e la mette dove prima stava la scala. Poi ci poggia sopra un bidone dell’olio. «Sto arrivando, scarto!»
Finalmente si è tolto dalla soglia. Eppure da dietro la porta non esce nessuno.
E se avessi dimenticato qualche dettaglio?
Se continuo a pensarci me la faccio addosso. Mentre con una mano mi strizzo la punta del pisello, con lo sguardo cerco qualcosa con cui difendermi, ma rimango a bocca aperta e bagno i pantaloni: una foto di Lele è incollata alla parete dove sta addossata la brandina, il sorriso monco a causa della paresi. Più in basso sta appiccicato un biglietto che sembra firmato da lui, però non è la sua scrittura perché è frettolosa come quella di un adulto: “Sono fiero di avere un padre come te. Sei il migliore”.
È la scrittura di Mario.
Di fianco stanno appesi quattro ritagli di giornale. Ognuno mostra il viso in primo piano di un ragazzo. Riesco a leggere i nomi delle città da dove provengono quei volti. Non ci sono mai stato, e quei ragazzi non li ho mai visti. Eppure riconosco il modo in cui mi fissano perché quegli sguardi sono simili a quelli che incrocio a scuola. Occhi malvagi come quelli di Nico, e bocche che sembrano urlarmi: «Sei in trappola, stronzo di un down!». Leggo parole che conosco, come “scomparso”, e altre che non capisco, come “bullismo”, “giustiziere dei bulli”. Ma il motivo per cui me la sono fatta addosso è che sopra a quelle foto stanno appesi trofei di caccia, diversi da quelli che ho visto all’agriturismo in paese, perché più veri. Quattro teste che sembrano imbalsamate. Teste falciate via, come l’erba cattiva.
Le teste di quei ragazzi.
La porta sbatte. Quindi segue un suono metallico, sembra quello di una campana. Un tonfo, dei versi. Mi affaccio: finalmente Mario si è scocciato di starsene nascosto dietro la porta. Ora sta in piedi al centro del trullo. Indossa una torcia frontale e tiene una pala sporca di sangue. Nico è a terra, e la pozza rossa che sta sul pavimento si allarga che mi pare quasi un lago. Si lamenta e tenta di alzarsi, ma non ci riesce sbattendo di nuovo il muso per terra. Prova a dire qualcosa, ma fa sempre e solo versi. Sembrano gli stessi che d’inverno sento per le campagne, quando i contadini fanno il maiale. Bagno di nuovo i pantaloni.
«Scendi e prendi il decespugliatore» mi dice Mario, «e va’ fuori a falciare.»
Appena arrivo giù, sento che lui puzza di nuovo di spirito. Gli occhi pieni di tante vene rosse.
«Tieni sempre acceso il motore. Mi raccomando, al massimo dei giri.»
Prendo il coso che taglia e apro la porta. Sulla soglia, mi volto. Mario gli dà un calcio alle costole. Nico non si muove, ma fa ancora i versi. Poi, poggia la pala al muro e va al tavolo. Prende la sega. Scoreggio e stavolta le mutande mi si appiccicano sotto le chiappe.
«Allora, non vai?» Le pupille gli ballano dentro il bianco degli occhi.
Sorrido sbattendo le palpebre. «Un Lannister paga sempre i propri debiti.»
«Hai ragione.» Mario viene verso di me e, come promesso, mi dà gli altri cinquanta euro.
Forse con cento euro ci curo mamma. Mica che lo so quanti sono tanti soldi, so solo che contare fino a cento non è uno scherzo. Di sicuro faccio sorridere papà dal paradiso, che sarà arrabbiato con Nico per il sasso. Mario mi ha detto che lo vide su quel ponte, e io gli credo. I bugiardi non gli piacciono, quindi perché avrebbe dovuto mentirmi? Mi ha pure assicurato che farò altri lavori.
Dopotutto, l’erba cattiva non muore mai.

Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Re: Semifinale Biancamaria Massaro

Messaggio#3 » mercoledì 21 agosto 2019, 15:24

L’erba cattiva (voto 6: con pochi cambiamenti può migliorare molto)

La storia è abbastanza originale. Buona la spiegazione del perché Nico è passato da vittima a bullo: poche ma azzeccate pennellate che lo rendono tridimensionale e non troppo stereotipato.
Come una rondine non fa primavera, non basta però un trullo per fare la Puglia, soprattutto nella realtà di un paesino. È necessario inserire parole in dialetto nei dialoghi e nei pensieri. Anche per alcuni attrezzi tipici della campagna andrebbero usati termini non in italiano puro.
ATTENZIONE: soprattutto in Italia, per dei ragazzini uccisi in posti diversi anche se in modo simile, prima di parlare di “giustiziere di bulli” ci vogliono molto più che 4 morti.



Uno splendido sorriso (voto 5)

L’idea della coppia narcisista maligno-innamorata folle potrebbe e dovrebbe essere sfruttata meglio e in modo più originale, qui è invece sviluppata in modo piatto e senza creare molta empatia con i personaggi. Rimane l’impressione di aver visto il primo quarto d’ora di una qualsiasi serie poliziesca americana con il serial killer stereotipato di turno: mentre ci appisoliamo sul divano, aspettiamo l’arrivo della simpatica coppia di investigatori che prima o poi andranno a letto insieme, o della squadra FBI/CSI/altro composta da bizzarri elementi. Si consiglia di rivedere almeno il ritmo della narrazione e il personaggio di Giusi: mostrare in maniera credibile che è in realtà è LEI l’elemento dominante della coppia omicida darebbe una marcia in più al tutto.

Passa il turno: L'erba cattiva, di Massimo Tivoli!

Torna a “La Sfida a Il branco uccide”

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite