Post-partum
Inviato: mercoledì 17 marzo 2021, 18:37
Buonasera a tutti.
Vorrei sottoporre alla vostra attenzione un racconto di 18.000 caratteri (circa). Spero di non aver infranto nessuna regola - sono niubbo, mi sto ancora ambientando - e di ricevere dei preziosi consigli.
Grazie a tutti.
Post-partum
Adele è sotto il tavolo della cucina, la bocca incollata sul cordless. «Sì, casa-famiglia Il Girasole, siamo solo io e un’altra educatrice, sbrigatevi!»
Schiaccio la schiena contro la porta d'ingresso. Le ante scricchiolano, il compensato che le riempie non reggerà ancora per molto.
L’uomo all’esterno colpisce la serratura con un calcio. La vibrazione mi risale dai lombi fino alla radice dei capelli. «Apritemi, cazzo!»
Natalino affonda il viso sul mio collo, un singhiozzo gli strappa il ciuccio dalla bocca. «Ma… Mara…»
Lo dondolo sulle braccia. «Dormi, tesoro mio, non è niente.»
Adele cammina gattoni fino alla finestra. Scosta la tendina con un dito. «È il padre di un bambino in affido. Come? Non lo so, dice che ha un coltello.»
L'uomo all'esterno spinge le ante, le chiavi nella toppa mi pungono il sedere. «Vi ammazzo, aprite!»
Natalino smorza un grido sul mio collo.
Lo bacio sul capo. Stai buono, piccolo mio, non ti ridaremo a quel mostro, promesso.
Francesca sbuca dal corridoio. Ha il grembiulino azzurro e lo zainetto di Barbie stretto sul petto.
Si avvicina. «Chi c’è fuori, Mara?»
Le torco la spallina del grembiule con due dita. «Torna in camera tua, forza!»
Si tira su il moccolo e corre in cucina.
Adele lascia la tenda e le circonda le spalle con il braccio. «Tranquilla, amore mio, la polizia sarà qui da un momento all’al―».
Un oggetto colpisce il muro vicino alla finestra e s’infrange in un tintinnio di vetri rotti. «Rivoglio mio figlio, troie!»
Adesso basta!
Corro in cucina, afferro un coltello dall’acquaio e mi fermo davanti alla porta.
Adele fa un verso e copre gli occhi di Francesca con il gomito. «Se-sei impazzita? Tu-tu non stai bene, Mara, dico sul serio.»
Lascio Natalino per terra. «Vuole uccidere i miei bambini, devo farlo.»
Apro la porta. L’anta colpisce Natalino e lo fa rotolare sul tappeto. Scusami, amore mio, lo sto facendo solo per voi.
All’esterno l’uomo indietreggia, barcolla da una piastrella all’altra del parcheggio.
Sollevo il coltello. «Vattene, forza!»
L’uomo poggia la mano sul cofano della mia Ritmo. «Natalino è mio, non potete farlo.»
Stringo i denti. «Dillo al giudice, non a me.»
Si apre il giaccone a quadri ed estrae una pistola dalla tasca interna. «Voglio solo il mio bambino, fottuta troia.»
Indietreggio, urto le scapole contro la porta. Che cosa mi è preso? Perché sono uscita?
L’uomo abbassa il cane della pistola. La bocca di fuoco trema per tenermi a tiro.
Apro la bocca, ventilo, ho un bambino piccolo, ti prego, morirà di crepacuore se mi uccidi.
La pantera della polizia entra nel parcheggio e sgomma. Un tanfo di copertoni bruciati mi pizzica il naso.
L’uomo batte la mano sul cofano. «Andatevene, sbirri del cazzo.»
Una portiera si apre. «Fermo, non ti muovere!»
Mi sposto di lato e prendo a pugni la finestra. Apritemi, vi prego, apritemi, sono io, la vostra mamma.
Adele mi fissa al di là del vetro. Ha gli occhi socchiusi, il mento tirato e le labbra ridotte a una linea sottile. Scuote la testa. Non ti aprirò, Mara, devi farti curare, te l’ho già detto, non sei più la stessa da quando hai ―.
Un colpo di pistola mi rimbomba nel cranio. Mi tappo le orecchie, grido, l’uomo si accascia a terra e ruota la pistola verso di me. «Mio figlio… ridatemi mio figlio.»
Getto la borsa sul tavolo della cucina e apro il frigo. Sui ripiani sono rimaste tre zucchine e una confezione smezzata di sottilette. La bottiglia di Chianti è vuota. Toccava a Giovanni fare la spesa. Stanco o non stanco, quando torna dal lavoro lo faccio riuscire.
Apro la credenza del salotto e mi verso due dita di whisky. Le mani mi tremano ancora. Quella stronza di Adele mi ha sbattuta fuori, non posso crederci. Così avrai più tempo per stare con il tuo bambino, ha detto. Sì, ne hai bisogno, e ti consiglio anche una visita psichiatrica.
Fanculo.
Mia madre sbuca dal corridoio con Antony in braccio. Dorme, la mia creatura, mi avrà atteso tutto il giorno per la poppata. Forse oggi riesco a dargli un po’ di latte: il seno, rispetto a ieri, si è gonfiato e i capezzoli mi fanno male.
Mia madre fissa il mio bicchiere. «Ciao, Mara.»
Accarezzo la manina di Antony. È piccolissima, mi basterebbe premerla con due dita per spezzarla. «Come sta?»
«Butta quel veleno, Mara, non ti fa bene.»
Poggio il bicchiere sul tavolo. «Allora?»
Emette un sospiro. «Adesso dorme, ma ha avuto la febbre alta tutto il giorno.»
«Cosa?» Le strappo Antony dal petto. Ha la fronte bollente, il naso gocciolante e le guance puntellate di efelidi rosse. È tutta colpa mia, non dovevo lasciarlo solo con lei.
Solleva il mio bicchiere dal tavolo e lo ripone nell’acquaio. «Ho chiamato il pediatra, stamattina. Ha detto di dargli una supposta di tachipirina ogni dodici ore. La prima gliel’ho data alle nove, quindi fra mezz’ora deve prenderne un’altra. Non ti dimenticare.»
Antony emette un verso roco, come se respirasse spilli. Lo dondolo un po’, gli batto la mano dietro la schiena. Le sue gambine scalciano, non mi riconoscono. È la nonna, la sua vera madre, io sono solo un’estranea.
Schiaccio con il tacco un pupazzo di gomma. Il salotto trasborda di giocattoli e videocassette Disney. Nemmeno ai tempi dell’università e degli ostelli ho visto tutta questa merda.
Do un calcio a una giostrina di plastica. Il tacco mi si sfila e urta contro una giraffa di pezza. Antony spalanca gli occhi e scoppia a piangere.
Mia madre mi tocca la spalla. «Che cosa ti prende?»
Faccio ricadere Antony sulle sue braccia. Lei allunga le mani e lo afferra per la collottola del bavaglino. «Mara, Cristo santo, fallo di nuovo e ti prendo a sberle.»
Mi scoppia la testa, ho bisogno di una doccia. «Sono stanca, Mà, non oggi.»
«Be’, sono tua madre, sai benissimo che puoi contare su di me. Non devi prenderti tutto questo peso da sola, capito?» Fissa l’orologio sulla parete. «Alle nove, non scordarti, e misuragli la febbre ogni tanto. Adesso vado, domani ho il primo ciclo di chemio.» Mi mette Antony in braccio e lo bacia sulla fronte. «A domani, piccolo mio.»
Esce.
Corro in camera e metto Antony nella culla. Il bambino mi guarda, piange, non ce la fa proprio a riconoscermi. Forse le ostetriche si sono sbagliate, nel nido; forse mi hanno ridato un bambino non mio.
Ma sì che è tuo, scema. Dovete solo imparare a conoscervi.
Mi chino e lo bacio sulla fronte. Antony gira la testa dall’altra parte. «Vado a fare una doccia e torno, amore mio. La mamma ti darà il latte, appena torna. Ce la fai a stare dieci minuti senza di lei? Oh, sì che ce la fai.»
Il getto della doccia mi inonda il corpo. L’acqua è fredda, mi irrigidisce le spalle. Giovanni avrebbe dovuto chiamare l’idraulico, ieri, ma ieri avevo un lavoro e oggi no. Ce la teniamo così, fa nulla, meglio gelata che niente.
Passo la spugna sotto l’ombelico. La cicatrice del cesareo è rossa, non andrà più via. La strofino, il sapone sfrigola sui punti ancora freschi. Bruciano. Mi premo la pancia. Queste smagliature sui fianchi resteranno per sempre. Anche il seno resterà gonfio e floscio, come quello di una vecchia. Ho solo trent’anni, Cristo, e sono già la fotocopia di mia madre.
La porta di casa si apre. Un mazzo di chiavi tintinna sul tavolo dell’ingresso. È Giovanni. Spero abbia fatto la spesa e comprato il latte per il piccolo. Questa sera potrei non farcela, ad allattarlo.
Bussa alla porta del bagno. «Resta lì, amore, che fra un minuto ti raggiungo.»
Pensa solo a scopare, quello.
Chiudo il rubinetto, mi infilo l’accappatoio e mi passo il phon davanti allo specchio.
La voce di Giovanni rimbomba nella casa.
Grida, sì, grida pure, appena saprai che ho perso il lavoro ti si ammosceranno le palle.
La porta del bagno si spalanca. Gli occhi sgranati di mio marito mi fissano dal riflesso dello specchio. «Antony sta male, corri!»
Getto il phon a terra, scanso Giovanni con la spalla e mi precipito in camera.
Il bimbo è nella culla. Ha la schiuma alla bocca, le palpebre rovesciate e le mani ritorte come una gallina.
Una fitta di dolore mi attraversa il cranio. Mi porto le mani alle tempie, grido.
Giovanni mi afferra per i fianchi, mi tiene in piedi. «Mara… Mara…»
La sua voce è lontana, è ovattata da un muro. Anche il resto dei suoni è smorzato da una parete: il lamento di Antony nella culla; il vento che risucchia l’aria nelle tubature; il phon acceso nel bagno; lo squittio di un animale che striscia sopra la mia testa.
La mia testa…
Rovescio il capo. Ragni neri, grandi come piatti, corrono da una parte all’altra del soffitto. Sono neri, lucidi, con una macchia rossa sull’addome.
Giovanni mi scuote, grida. Ma i ragni mi scendono in faccia, mi entrano nelle orecchie. Hai ucciso il tuo bambino, gridano nei timpani, e ora farai la stessa fine.
Un oggetto appuntito mi pizzica il braccio. Apro gli occhi. Una donna vestita di bianco mi tiene il gomito con due dita. Ha il volto pallido e due orbite nere al posto degli occhi.
Grido.
Il mostro in camice bianco spinge lo stantuffo della siringa. Una sensazione di calore mi parte dai piedi fino alla radice dei capelli.
La donna mi accarezza la guancia. I suoi occhi sono azzurrissimi, come quelli di Antony. «Devi riposarti, Mara, hai subito un forte shock.»
La testa mi gira, voglio dormire, risvegliarmi a quando avevo vent’anni e trenta chili di meno. Non avevo paura di nulla, all'epoca, mai una febbre, mai un riposo. Dov'è finita quella Mara? Dove sta precipitando, adesso?
Il pianto di un bambino mi comprime le tempie.
Giovanni è seduto accanto al letto. Tiene in braccio un neonato. Da chi lo ha preso? Forse è quello che ha scambiato l’ostetrica il giorno del parto.
Sollevo la schiena sul cuscino. «Antony dov’è?»
«È lui, Mara, sta bene.»
La tenda della finestra si apre. Dietro il vetro, due poliziotti mi fissano da sotto la tesa del berretto. Sappiamo quello che hai fatto, piccina, adesso l’ergastolo non te lo toglie più nessuno.
Mi stringo il cuscino sul petto. «Chi sono quelle persone sul balcone?»
Giovanni si gira. «Non c’è nessun balcone, Mara, è solo uno stupido quadro.»
Gli lancio addosso il cuscino. Il bambino smette di piangere, ride. «Sì, ci sono, stai mentendo. Vogliono prendermi e portarmi in prigione. Oddio… come ho potuto uccidere mio figlio?»
Il dottore si siede al tavolo, poggia il ricettario e indica il mio cuscino da notte sul pavimento. «È lì che dorme la sera? Sotto il divano?»
Il volto mi avvampa, abbasso la testa.
Giovanni si siede accanto a me, mi accarezza la nuca.
Il dottore allunga la penna sul foglio, ci scrive su qualcosa. «Riesce a parlarmi di queste voci che sente? Che cosa le dicono?»
Mia madre poggia sul tavolo la camomilla.
Afferro la tazza e passo il calore da un palmo all’altro. «Sono nella mia stanza. Mi…»
Giovanni mi strofina la schiena. «È tutto ok, amore.»
Bevo un sorso. «Mi dicono che sono un’assassina, che passerò il resto della mia vita in prigione. Ma non è questo il peggio: sono i teschi, sì, i teschi dei bambini che ritrovo nel mio letto la sera.»
Mia madre mi passa un fazzoletto. Mi asciugo gli occhi. «Non voglio andare in prigione, dottore. Piuttosto mi ammazzo.»
Sfila dalla cartellina una ricetta rossa e la poggia sul tavolo. «Non ha ucciso nessuno, Mara. Suo figlio è vivo, sta bene, e non desidera altro che riallacciare il suo rapporto con lei.» Mi fissa da sopra gli occhiali, sospira. «Ma la psicosi post parto è una malattia seria, molto più grave della depressione che colpisce di solito le neo mamme. Dovrà seguire scrupolosamente la cura che le darò, chiaro? In caso contrario, dovrò richiedere per lei un ricovero forzato.»
Mi tiro su il moccolo. «Questo è il suo modo di aiutarmi? Sbattermi in manicomio come una pazza?»
«Non la lasceremo sola, tranquilla.»
Il passeggino cigola. Il bambino mi fissa da sotto la coperta con un sorriso. «Non ti lasceremo sola, mami.»
Una zampetta di ragno gli esce dalla bocca. Tasta il profilo del mento, la fossetta del naso e rientra dentro le labbra con un guizzo.
Urto le scapole contro lo schienale della sedia. La tazza di camomilla mi scivola e si frantuma in mille pezzi. «A-avete visto?» Mi alzo, i cocci di vetro mi tagliano i talloni nudi. «Non è Antony quello.» Indietreggio, i miei piedi slittano nel sangue. Scivolo, mi aggancio all’appendiabiti dell’ingresso e due cappotti neri mi cadono sul viso. Li prendo a pugni. «È un mostro, via, un mostro, un mostro…»
Un rumore di tapparelle mi sveglia. La luce del sole mi spilla lacrime calde dagli occhi.
Giovanni è seduto accanto al mio cuscino, in mano ha una scarpa sporca di cemento. «Scusami se ti ho svegliata così, amore, ma devo andare al lavoro.» S’infila la scarpa e mi indica il tavolo. «Ti ho scritto un promemoria per le medicine, leggilo.»
Prendo il bicchiere d’acqua accanto al cuscino. «Quando torni?»
Mi afferra le mani. «Non ti preoccupare, tua madre dovrebbe essere qui per le dieci. Il bambino è in camera nostra, dorme, non devi fargli nulla. Ma se dovesse piangere o ti venissero strani pensieri, il numero del dottore è in quel foglio che ti ho lasciato.» Mi bacia la fronte, apre la porta ed esce.
Cammino gattoni fino al tavolo. Sopra la mia testa, squittii e strusci di zampette. Devo stare bassa, più bassa che posso dal soffitto.
Tasto il bordo del tavolo. Sulla testa mi ricade una scatola bianca di paroxitina. Il foglio non c’è, quel cretino lo avrà messo al centro della fruttiera.
Tolgo una pastiglia dal blister e la ingoio. Ho bisogno di dormire, solo due ore, il tempo che arrivi mia madre e allontani con la scopa i ragni.
Dalla camera da letto giunge un lamento. La porta è aperta, quello scemo non l’ha chiusa.
Nascondo la faccia dietro la gamba del tavolo. Sbircio con un occhio il corridoio che porta alle camere.
Le ruote della culla cigolano, attraversano tutta la stanza e si fermano oltre la porta, sul corridoio.
Devo rispingerla dentro. Ha imparato a camminare, il mostro, è qui per prendermi e darmi in pasto alle sue vedove. I teschi sono le sue vittime, sì, tutti i bambini ai quali si è sostituito prima di ucciderli.
Cammino gattoni nel corridoio.
La culla dondola. Le lenzuola si scoperchiano e due manine rosa spuntano dal bordo. «Mami?»
Corro verso il mostro, i polsi mi scricchiolano, le ginocchia si sbucciano sulle piastrelle.
Il bambino ride.
Afferro le ruote della culla, le spingo all’interno.
Il mostro si mette in piedi. È nero, ha otto braccia e una macchia rossa a forma di clessidra sulla pancia.
Muove gli aculei sulla bocca. «Non puoi sfuggirmi, mami, nulla può sfuggire al nostro amore materno.»
Urto la testa contro il muro alle mie spalle. Scintille bianche e rosse mi danzano negli occhi.
Il mostro mi sale sul petto, mi sfiora il seno con gli aculei. «È l’ora della poppata, mami.»
Tolgo la lasagna dal forno. L’odore di sugo e polpettine di vitello mi ubriaca le papille. «È pronto.»
Mia madre porta due piatti. «A me poca, Mara, il sugo non lo digerisco più.»
Prende il coltello dal cassetto e me lo porge. Le trema la mano, è ancora incerta sul darmelo.
Lo afferro e taglio tre porzioni ripiene di uova e macinato. Le metto nei piatti e indico a mia madre la tavola. «Penso a tutto io, vai.»
Obbedisce.
Mi tocco il reggipetto. La bustina con il sonnifero triturato è scivolata sull’ombelico. La recupero con due dita e la nascondo nell’incavo del palmo.
Mia madre e Giovanni sono seduti dietro di me, guardano il notiziario delle venti alla tv.
È il momento.
Riverso il contenuto della bustina nei loro piatti. La polverina imbianca le sfoglie, sembra a tutti gli effetti parmigiano.
Faccio l’occhiolino al mio volto riflesso sul coltello. Ottimo lavoro, Mara.
Giovanni ne manda giù un boccone grande. Si asciuga la bocca con la tovaglia. «È ottima, amore, meglio di quella che fa mia suocera.»
Rido.
Mia madre brontola e mi accarezza i capelli. «Sono contenta che stai meglio, tesoro.»
Annuisco.
La fronte di Giovanni cade nel piatto. La lasagna gli si spiaccica sul viso come una torta.
Mia madre si alza, si tiene la fronte con una mano. «Che cosa ci hai fatto, Ma… » Barcolla fino al divano, si inginocchia per terra e affonda la faccia nei cuscini.
Il mix di paroxitina e xanax dovrebbe tenerli a nanna per due giorni. Ho tutto il tempo per ―.
Dalla mia camera il bambino piange. «Ho-ho paura, mami, che co-cosa vuoi farmi?»
Lo saprei presto, mostro.
Scendo in garage.
Risalgo in casa con la carriola e la tanica di benzina. Poggio la tanica a terra e mi accosto a Giovanni.
Lo afferro per le spalle e gli spingo il busto all’interno del cassone. Il piatto di lasagne cade, le piastrelle si macchiano di polpette e macinato al sugo. Sopra la mia testa i ragni squittiscono. Hanno fame, i mostri, vogliono suggermi altro latte.
Trascino il corpo fuori, è pesante, la ruota è sgonfia e cigola nel silenzio del palazzo. Rovescio mio marito accanto all’ascensore. Non emette un verso. Ottimo.
Torno dietro e carico mia madre. È leggera, il cancro allo stomaco le ha già divorato metà del peso.
La scarico sopra a Giovanni. Ronfano come due ubriachi in un cartone. Al loro risveglio sarò già nel letto di una clinica psichiatrica. La stampa invocherà l’ergastolo, la gente farà la fila per sputarmi in faccia, ma con la patologia che ho non possono farmi nulla. Incapace di intendere e di volere. Qualche mese in cura, forse un anno, e ne uscirò più pulita di prima.
Tiro fuori l’accendino. Vediamo come te la cavi con il fuoco, mostriciattolo.
Il bambino piange nella culla. Apre e chiude le manine, il volto è rigato dalle lacrime. Non sembra nemmeno il mostro che ha divorato Antony e tormentato me per tutto questo tempo. Ma il suo bluff non mi commuove.
Gli rovescio addosso metà della tanica. I suoi occhi diventano rossi, si stringono, non può nemmeno gridare con tutto il carburante che gli è entrato in bocca.
Traccio una linea di benzina dalla camera di Antony alla porta d’ingresso. Mi abbasso, gratto la pietrina dell’accendino e passo la fiammella sull’estremità della miccia. Una vampata azzurra e rossa si solleva e ripercorre il corridoio fino alla camera.
Chiudo a chiave, indietreggio e mi siedo sulla schiena di mia madre. Un filo di fumo esce dallo svincolo della porta. Il pianto del bambino è acuto, le fiamme gli staranno già cuocendo i piedini. I ragni sfrigolano, squittiscono, cadono sulle piastrelle a tonfi regolari.
Il cellulare squilla.
Premo il pulsante verde. «Dottore…»
«Mara?»
«Sì, sono io.»
«Ah, bene. Oggi non sono riuscito a chiamarla. Come va con la terapia?»
Mia madre e Giovanni sono sotto di me, ronfano come il bue e l’asinello nella capanna. Il bambino, all’interno della casa, ha smesso di piangere e sopra la mia testa non ci sono più ragni. È tutto finito, posso tornare a vivere.
«A cosa sta pensando, Mara?»
Sorrido. «Penso che una nuova gravidanza potrebbe giovarmi, dottore.»
Vorrei sottoporre alla vostra attenzione un racconto di 18.000 caratteri (circa). Spero di non aver infranto nessuna regola - sono niubbo, mi sto ancora ambientando - e di ricevere dei preziosi consigli.
Grazie a tutti.
Post-partum
Adele è sotto il tavolo della cucina, la bocca incollata sul cordless. «Sì, casa-famiglia Il Girasole, siamo solo io e un’altra educatrice, sbrigatevi!»
Schiaccio la schiena contro la porta d'ingresso. Le ante scricchiolano, il compensato che le riempie non reggerà ancora per molto.
L’uomo all’esterno colpisce la serratura con un calcio. La vibrazione mi risale dai lombi fino alla radice dei capelli. «Apritemi, cazzo!»
Natalino affonda il viso sul mio collo, un singhiozzo gli strappa il ciuccio dalla bocca. «Ma… Mara…»
Lo dondolo sulle braccia. «Dormi, tesoro mio, non è niente.»
Adele cammina gattoni fino alla finestra. Scosta la tendina con un dito. «È il padre di un bambino in affido. Come? Non lo so, dice che ha un coltello.»
L'uomo all'esterno spinge le ante, le chiavi nella toppa mi pungono il sedere. «Vi ammazzo, aprite!»
Natalino smorza un grido sul mio collo.
Lo bacio sul capo. Stai buono, piccolo mio, non ti ridaremo a quel mostro, promesso.
Francesca sbuca dal corridoio. Ha il grembiulino azzurro e lo zainetto di Barbie stretto sul petto.
Si avvicina. «Chi c’è fuori, Mara?»
Le torco la spallina del grembiule con due dita. «Torna in camera tua, forza!»
Si tira su il moccolo e corre in cucina.
Adele lascia la tenda e le circonda le spalle con il braccio. «Tranquilla, amore mio, la polizia sarà qui da un momento all’al―».
Un oggetto colpisce il muro vicino alla finestra e s’infrange in un tintinnio di vetri rotti. «Rivoglio mio figlio, troie!»
Adesso basta!
Corro in cucina, afferro un coltello dall’acquaio e mi fermo davanti alla porta.
Adele fa un verso e copre gli occhi di Francesca con il gomito. «Se-sei impazzita? Tu-tu non stai bene, Mara, dico sul serio.»
Lascio Natalino per terra. «Vuole uccidere i miei bambini, devo farlo.»
Apro la porta. L’anta colpisce Natalino e lo fa rotolare sul tappeto. Scusami, amore mio, lo sto facendo solo per voi.
All’esterno l’uomo indietreggia, barcolla da una piastrella all’altra del parcheggio.
Sollevo il coltello. «Vattene, forza!»
L’uomo poggia la mano sul cofano della mia Ritmo. «Natalino è mio, non potete farlo.»
Stringo i denti. «Dillo al giudice, non a me.»
Si apre il giaccone a quadri ed estrae una pistola dalla tasca interna. «Voglio solo il mio bambino, fottuta troia.»
Indietreggio, urto le scapole contro la porta. Che cosa mi è preso? Perché sono uscita?
L’uomo abbassa il cane della pistola. La bocca di fuoco trema per tenermi a tiro.
Apro la bocca, ventilo, ho un bambino piccolo, ti prego, morirà di crepacuore se mi uccidi.
La pantera della polizia entra nel parcheggio e sgomma. Un tanfo di copertoni bruciati mi pizzica il naso.
L’uomo batte la mano sul cofano. «Andatevene, sbirri del cazzo.»
Una portiera si apre. «Fermo, non ti muovere!»
Mi sposto di lato e prendo a pugni la finestra. Apritemi, vi prego, apritemi, sono io, la vostra mamma.
Adele mi fissa al di là del vetro. Ha gli occhi socchiusi, il mento tirato e le labbra ridotte a una linea sottile. Scuote la testa. Non ti aprirò, Mara, devi farti curare, te l’ho già detto, non sei più la stessa da quando hai ―.
Un colpo di pistola mi rimbomba nel cranio. Mi tappo le orecchie, grido, l’uomo si accascia a terra e ruota la pistola verso di me. «Mio figlio… ridatemi mio figlio.»
Getto la borsa sul tavolo della cucina e apro il frigo. Sui ripiani sono rimaste tre zucchine e una confezione smezzata di sottilette. La bottiglia di Chianti è vuota. Toccava a Giovanni fare la spesa. Stanco o non stanco, quando torna dal lavoro lo faccio riuscire.
Apro la credenza del salotto e mi verso due dita di whisky. Le mani mi tremano ancora. Quella stronza di Adele mi ha sbattuta fuori, non posso crederci. Così avrai più tempo per stare con il tuo bambino, ha detto. Sì, ne hai bisogno, e ti consiglio anche una visita psichiatrica.
Fanculo.
Mia madre sbuca dal corridoio con Antony in braccio. Dorme, la mia creatura, mi avrà atteso tutto il giorno per la poppata. Forse oggi riesco a dargli un po’ di latte: il seno, rispetto a ieri, si è gonfiato e i capezzoli mi fanno male.
Mia madre fissa il mio bicchiere. «Ciao, Mara.»
Accarezzo la manina di Antony. È piccolissima, mi basterebbe premerla con due dita per spezzarla. «Come sta?»
«Butta quel veleno, Mara, non ti fa bene.»
Poggio il bicchiere sul tavolo. «Allora?»
Emette un sospiro. «Adesso dorme, ma ha avuto la febbre alta tutto il giorno.»
«Cosa?» Le strappo Antony dal petto. Ha la fronte bollente, il naso gocciolante e le guance puntellate di efelidi rosse. È tutta colpa mia, non dovevo lasciarlo solo con lei.
Solleva il mio bicchiere dal tavolo e lo ripone nell’acquaio. «Ho chiamato il pediatra, stamattina. Ha detto di dargli una supposta di tachipirina ogni dodici ore. La prima gliel’ho data alle nove, quindi fra mezz’ora deve prenderne un’altra. Non ti dimenticare.»
Antony emette un verso roco, come se respirasse spilli. Lo dondolo un po’, gli batto la mano dietro la schiena. Le sue gambine scalciano, non mi riconoscono. È la nonna, la sua vera madre, io sono solo un’estranea.
Schiaccio con il tacco un pupazzo di gomma. Il salotto trasborda di giocattoli e videocassette Disney. Nemmeno ai tempi dell’università e degli ostelli ho visto tutta questa merda.
Do un calcio a una giostrina di plastica. Il tacco mi si sfila e urta contro una giraffa di pezza. Antony spalanca gli occhi e scoppia a piangere.
Mia madre mi tocca la spalla. «Che cosa ti prende?»
Faccio ricadere Antony sulle sue braccia. Lei allunga le mani e lo afferra per la collottola del bavaglino. «Mara, Cristo santo, fallo di nuovo e ti prendo a sberle.»
Mi scoppia la testa, ho bisogno di una doccia. «Sono stanca, Mà, non oggi.»
«Be’, sono tua madre, sai benissimo che puoi contare su di me. Non devi prenderti tutto questo peso da sola, capito?» Fissa l’orologio sulla parete. «Alle nove, non scordarti, e misuragli la febbre ogni tanto. Adesso vado, domani ho il primo ciclo di chemio.» Mi mette Antony in braccio e lo bacia sulla fronte. «A domani, piccolo mio.»
Esce.
Corro in camera e metto Antony nella culla. Il bambino mi guarda, piange, non ce la fa proprio a riconoscermi. Forse le ostetriche si sono sbagliate, nel nido; forse mi hanno ridato un bambino non mio.
Ma sì che è tuo, scema. Dovete solo imparare a conoscervi.
Mi chino e lo bacio sulla fronte. Antony gira la testa dall’altra parte. «Vado a fare una doccia e torno, amore mio. La mamma ti darà il latte, appena torna. Ce la fai a stare dieci minuti senza di lei? Oh, sì che ce la fai.»
Il getto della doccia mi inonda il corpo. L’acqua è fredda, mi irrigidisce le spalle. Giovanni avrebbe dovuto chiamare l’idraulico, ieri, ma ieri avevo un lavoro e oggi no. Ce la teniamo così, fa nulla, meglio gelata che niente.
Passo la spugna sotto l’ombelico. La cicatrice del cesareo è rossa, non andrà più via. La strofino, il sapone sfrigola sui punti ancora freschi. Bruciano. Mi premo la pancia. Queste smagliature sui fianchi resteranno per sempre. Anche il seno resterà gonfio e floscio, come quello di una vecchia. Ho solo trent’anni, Cristo, e sono già la fotocopia di mia madre.
La porta di casa si apre. Un mazzo di chiavi tintinna sul tavolo dell’ingresso. È Giovanni. Spero abbia fatto la spesa e comprato il latte per il piccolo. Questa sera potrei non farcela, ad allattarlo.
Bussa alla porta del bagno. «Resta lì, amore, che fra un minuto ti raggiungo.»
Pensa solo a scopare, quello.
Chiudo il rubinetto, mi infilo l’accappatoio e mi passo il phon davanti allo specchio.
La voce di Giovanni rimbomba nella casa.
Grida, sì, grida pure, appena saprai che ho perso il lavoro ti si ammosceranno le palle.
La porta del bagno si spalanca. Gli occhi sgranati di mio marito mi fissano dal riflesso dello specchio. «Antony sta male, corri!»
Getto il phon a terra, scanso Giovanni con la spalla e mi precipito in camera.
Il bimbo è nella culla. Ha la schiuma alla bocca, le palpebre rovesciate e le mani ritorte come una gallina.
Una fitta di dolore mi attraversa il cranio. Mi porto le mani alle tempie, grido.
Giovanni mi afferra per i fianchi, mi tiene in piedi. «Mara… Mara…»
La sua voce è lontana, è ovattata da un muro. Anche il resto dei suoni è smorzato da una parete: il lamento di Antony nella culla; il vento che risucchia l’aria nelle tubature; il phon acceso nel bagno; lo squittio di un animale che striscia sopra la mia testa.
La mia testa…
Rovescio il capo. Ragni neri, grandi come piatti, corrono da una parte all’altra del soffitto. Sono neri, lucidi, con una macchia rossa sull’addome.
Giovanni mi scuote, grida. Ma i ragni mi scendono in faccia, mi entrano nelle orecchie. Hai ucciso il tuo bambino, gridano nei timpani, e ora farai la stessa fine.
Un oggetto appuntito mi pizzica il braccio. Apro gli occhi. Una donna vestita di bianco mi tiene il gomito con due dita. Ha il volto pallido e due orbite nere al posto degli occhi.
Grido.
Il mostro in camice bianco spinge lo stantuffo della siringa. Una sensazione di calore mi parte dai piedi fino alla radice dei capelli.
La donna mi accarezza la guancia. I suoi occhi sono azzurrissimi, come quelli di Antony. «Devi riposarti, Mara, hai subito un forte shock.»
La testa mi gira, voglio dormire, risvegliarmi a quando avevo vent’anni e trenta chili di meno. Non avevo paura di nulla, all'epoca, mai una febbre, mai un riposo. Dov'è finita quella Mara? Dove sta precipitando, adesso?
Il pianto di un bambino mi comprime le tempie.
Giovanni è seduto accanto al letto. Tiene in braccio un neonato. Da chi lo ha preso? Forse è quello che ha scambiato l’ostetrica il giorno del parto.
Sollevo la schiena sul cuscino. «Antony dov’è?»
«È lui, Mara, sta bene.»
La tenda della finestra si apre. Dietro il vetro, due poliziotti mi fissano da sotto la tesa del berretto. Sappiamo quello che hai fatto, piccina, adesso l’ergastolo non te lo toglie più nessuno.
Mi stringo il cuscino sul petto. «Chi sono quelle persone sul balcone?»
Giovanni si gira. «Non c’è nessun balcone, Mara, è solo uno stupido quadro.»
Gli lancio addosso il cuscino. Il bambino smette di piangere, ride. «Sì, ci sono, stai mentendo. Vogliono prendermi e portarmi in prigione. Oddio… come ho potuto uccidere mio figlio?»
Il dottore si siede al tavolo, poggia il ricettario e indica il mio cuscino da notte sul pavimento. «È lì che dorme la sera? Sotto il divano?»
Il volto mi avvampa, abbasso la testa.
Giovanni si siede accanto a me, mi accarezza la nuca.
Il dottore allunga la penna sul foglio, ci scrive su qualcosa. «Riesce a parlarmi di queste voci che sente? Che cosa le dicono?»
Mia madre poggia sul tavolo la camomilla.
Afferro la tazza e passo il calore da un palmo all’altro. «Sono nella mia stanza. Mi…»
Giovanni mi strofina la schiena. «È tutto ok, amore.»
Bevo un sorso. «Mi dicono che sono un’assassina, che passerò il resto della mia vita in prigione. Ma non è questo il peggio: sono i teschi, sì, i teschi dei bambini che ritrovo nel mio letto la sera.»
Mia madre mi passa un fazzoletto. Mi asciugo gli occhi. «Non voglio andare in prigione, dottore. Piuttosto mi ammazzo.»
Sfila dalla cartellina una ricetta rossa e la poggia sul tavolo. «Non ha ucciso nessuno, Mara. Suo figlio è vivo, sta bene, e non desidera altro che riallacciare il suo rapporto con lei.» Mi fissa da sopra gli occhiali, sospira. «Ma la psicosi post parto è una malattia seria, molto più grave della depressione che colpisce di solito le neo mamme. Dovrà seguire scrupolosamente la cura che le darò, chiaro? In caso contrario, dovrò richiedere per lei un ricovero forzato.»
Mi tiro su il moccolo. «Questo è il suo modo di aiutarmi? Sbattermi in manicomio come una pazza?»
«Non la lasceremo sola, tranquilla.»
Il passeggino cigola. Il bambino mi fissa da sotto la coperta con un sorriso. «Non ti lasceremo sola, mami.»
Una zampetta di ragno gli esce dalla bocca. Tasta il profilo del mento, la fossetta del naso e rientra dentro le labbra con un guizzo.
Urto le scapole contro lo schienale della sedia. La tazza di camomilla mi scivola e si frantuma in mille pezzi. «A-avete visto?» Mi alzo, i cocci di vetro mi tagliano i talloni nudi. «Non è Antony quello.» Indietreggio, i miei piedi slittano nel sangue. Scivolo, mi aggancio all’appendiabiti dell’ingresso e due cappotti neri mi cadono sul viso. Li prendo a pugni. «È un mostro, via, un mostro, un mostro…»
Un rumore di tapparelle mi sveglia. La luce del sole mi spilla lacrime calde dagli occhi.
Giovanni è seduto accanto al mio cuscino, in mano ha una scarpa sporca di cemento. «Scusami se ti ho svegliata così, amore, ma devo andare al lavoro.» S’infila la scarpa e mi indica il tavolo. «Ti ho scritto un promemoria per le medicine, leggilo.»
Prendo il bicchiere d’acqua accanto al cuscino. «Quando torni?»
Mi afferra le mani. «Non ti preoccupare, tua madre dovrebbe essere qui per le dieci. Il bambino è in camera nostra, dorme, non devi fargli nulla. Ma se dovesse piangere o ti venissero strani pensieri, il numero del dottore è in quel foglio che ti ho lasciato.» Mi bacia la fronte, apre la porta ed esce.
Cammino gattoni fino al tavolo. Sopra la mia testa, squittii e strusci di zampette. Devo stare bassa, più bassa che posso dal soffitto.
Tasto il bordo del tavolo. Sulla testa mi ricade una scatola bianca di paroxitina. Il foglio non c’è, quel cretino lo avrà messo al centro della fruttiera.
Tolgo una pastiglia dal blister e la ingoio. Ho bisogno di dormire, solo due ore, il tempo che arrivi mia madre e allontani con la scopa i ragni.
Dalla camera da letto giunge un lamento. La porta è aperta, quello scemo non l’ha chiusa.
Nascondo la faccia dietro la gamba del tavolo. Sbircio con un occhio il corridoio che porta alle camere.
Le ruote della culla cigolano, attraversano tutta la stanza e si fermano oltre la porta, sul corridoio.
Devo rispingerla dentro. Ha imparato a camminare, il mostro, è qui per prendermi e darmi in pasto alle sue vedove. I teschi sono le sue vittime, sì, tutti i bambini ai quali si è sostituito prima di ucciderli.
Cammino gattoni nel corridoio.
La culla dondola. Le lenzuola si scoperchiano e due manine rosa spuntano dal bordo. «Mami?»
Corro verso il mostro, i polsi mi scricchiolano, le ginocchia si sbucciano sulle piastrelle.
Il bambino ride.
Afferro le ruote della culla, le spingo all’interno.
Il mostro si mette in piedi. È nero, ha otto braccia e una macchia rossa a forma di clessidra sulla pancia.
Muove gli aculei sulla bocca. «Non puoi sfuggirmi, mami, nulla può sfuggire al nostro amore materno.»
Urto la testa contro il muro alle mie spalle. Scintille bianche e rosse mi danzano negli occhi.
Il mostro mi sale sul petto, mi sfiora il seno con gli aculei. «È l’ora della poppata, mami.»
Tolgo la lasagna dal forno. L’odore di sugo e polpettine di vitello mi ubriaca le papille. «È pronto.»
Mia madre porta due piatti. «A me poca, Mara, il sugo non lo digerisco più.»
Prende il coltello dal cassetto e me lo porge. Le trema la mano, è ancora incerta sul darmelo.
Lo afferro e taglio tre porzioni ripiene di uova e macinato. Le metto nei piatti e indico a mia madre la tavola. «Penso a tutto io, vai.»
Obbedisce.
Mi tocco il reggipetto. La bustina con il sonnifero triturato è scivolata sull’ombelico. La recupero con due dita e la nascondo nell’incavo del palmo.
Mia madre e Giovanni sono seduti dietro di me, guardano il notiziario delle venti alla tv.
È il momento.
Riverso il contenuto della bustina nei loro piatti. La polverina imbianca le sfoglie, sembra a tutti gli effetti parmigiano.
Faccio l’occhiolino al mio volto riflesso sul coltello. Ottimo lavoro, Mara.
Giovanni ne manda giù un boccone grande. Si asciuga la bocca con la tovaglia. «È ottima, amore, meglio di quella che fa mia suocera.»
Rido.
Mia madre brontola e mi accarezza i capelli. «Sono contenta che stai meglio, tesoro.»
Annuisco.
La fronte di Giovanni cade nel piatto. La lasagna gli si spiaccica sul viso come una torta.
Mia madre si alza, si tiene la fronte con una mano. «Che cosa ci hai fatto, Ma… » Barcolla fino al divano, si inginocchia per terra e affonda la faccia nei cuscini.
Il mix di paroxitina e xanax dovrebbe tenerli a nanna per due giorni. Ho tutto il tempo per ―.
Dalla mia camera il bambino piange. «Ho-ho paura, mami, che co-cosa vuoi farmi?»
Lo saprei presto, mostro.
Scendo in garage.
Risalgo in casa con la carriola e la tanica di benzina. Poggio la tanica a terra e mi accosto a Giovanni.
Lo afferro per le spalle e gli spingo il busto all’interno del cassone. Il piatto di lasagne cade, le piastrelle si macchiano di polpette e macinato al sugo. Sopra la mia testa i ragni squittiscono. Hanno fame, i mostri, vogliono suggermi altro latte.
Trascino il corpo fuori, è pesante, la ruota è sgonfia e cigola nel silenzio del palazzo. Rovescio mio marito accanto all’ascensore. Non emette un verso. Ottimo.
Torno dietro e carico mia madre. È leggera, il cancro allo stomaco le ha già divorato metà del peso.
La scarico sopra a Giovanni. Ronfano come due ubriachi in un cartone. Al loro risveglio sarò già nel letto di una clinica psichiatrica. La stampa invocherà l’ergastolo, la gente farà la fila per sputarmi in faccia, ma con la patologia che ho non possono farmi nulla. Incapace di intendere e di volere. Qualche mese in cura, forse un anno, e ne uscirò più pulita di prima.
Tiro fuori l’accendino. Vediamo come te la cavi con il fuoco, mostriciattolo.
Il bambino piange nella culla. Apre e chiude le manine, il volto è rigato dalle lacrime. Non sembra nemmeno il mostro che ha divorato Antony e tormentato me per tutto questo tempo. Ma il suo bluff non mi commuove.
Gli rovescio addosso metà della tanica. I suoi occhi diventano rossi, si stringono, non può nemmeno gridare con tutto il carburante che gli è entrato in bocca.
Traccio una linea di benzina dalla camera di Antony alla porta d’ingresso. Mi abbasso, gratto la pietrina dell’accendino e passo la fiammella sull’estremità della miccia. Una vampata azzurra e rossa si solleva e ripercorre il corridoio fino alla camera.
Chiudo a chiave, indietreggio e mi siedo sulla schiena di mia madre. Un filo di fumo esce dallo svincolo della porta. Il pianto del bambino è acuto, le fiamme gli staranno già cuocendo i piedini. I ragni sfrigolano, squittiscono, cadono sulle piastrelle a tonfi regolari.
Il cellulare squilla.
Premo il pulsante verde. «Dottore…»
«Mara?»
«Sì, sono io.»
«Ah, bene. Oggi non sono riuscito a chiamarla. Come va con la terapia?»
Mia madre e Giovanni sono sotto di me, ronfano come il bue e l’asinello nella capanna. Il bambino, all’interno della casa, ha smesso di piangere e sopra la mia testa non ci sono più ragni. È tutto finito, posso tornare a vivere.
«A cosa sta pensando, Mara?»
Sorrido. «Penso che una nuova gravidanza potrebbe giovarmi, dottore.»