Quattro parti di un cuore infranto
Inviato: sabato 18 gennaio 2020, 15:19
Quattro parti di un cuore infranto
Roberto mette del ghiaccio in un bicchiere e si versa uno sherry. Mentre si gode la sensazione di fresco nello stomaco, riconosce il sommesso bussare di Garrone.
- Avanti.
La testa dell’anziano servitore fa capolino tra i pannelli di mogano.
- Perdoni il disturbo, Signore, ma i suoi ospiti sono arrivati.
- Falli entrare. Poi prenditi pure la giornata libera.
- Come desidera, Signore.
Garrone si allontana, mentre tre persone entrano nella stanza e chiudono la porta dietro di loro.
Una donna vestita di mussola bianca, secondo l’ultima moda inglese; un vescovo cattolico, che giocherella nervosamente con il crocifisso dorato che porta al collo e un giovane ufficiale di cavalleria, con l’uniforme linda e due baffetti alla D’Annunzio perfettamente curati.
- Elena, Carlo, Dario. Ben arrivati.
- Quindici anni che non vedi i tuoi fratelli e questo è tutto quello che hai da dire? Speravo che in Africa ti avessero insegnato un po’ di decoro – gli risponde l’ufficiale, sedendosi sul divano e afferrando la bottiglia di sherry. – Bah, nemmeno a bere ti hanno insegnato.
- In compenso, l’esercito non ha insegnato a te la disciplina – gli risponde Roberto, sorridendo. – Come se non sapessi che indossi quell’uniforme solo per far colpo sulle fanciulle che frequentano il circolo letterario di nostra sorella.
- Può contare solo su quello: l’unica volta che ha provato a scrivere una poesia ed a recitarla, ha tirato fuori una chitarronata così volgare che uno dei miei ospiti si è sentito male.
Dario ribatte alla sorella facendo una battuta sui “tisici cicisbei” che frequentano il suo salotto. Elena e Roberto ridono. Carlo continua a tormentare il crocifisso in silenzio. Alla fine, i convenevoli terminano e le loro risate sfumano in un silenzio carico di tensione. Lentamente, Roberto si avvicina a una statuetta di legno a forma di gestante. Toccando un tasto nascosto, ne apre il ventre concavo, poi ne appoggia il contenuto sul tavolino al centro della stanza.
Il frammento di un pendente a forma di cuore.
Un urlo dal piano inferiore. Roberto e Dario si osservano in silenzio, come per rassicurarsi a vicenda di non esserselo immaginato. Un altro grido. Stavolta Roberto lascia cadere le biglie e si alza in piedi.
- Tu resta qui. Vado a vedere cosa sta succedendo.
Il giovane esce dalla stanza, segue il corridoio e raggiuge il ballatoio che dà sul grande soggiorno del piano terra.
– Meglio che torni subito nella sua stanza – fa Delcati, immobile davanti alla porta dello studio di suo padre.
Prima che Roberto possa rispondere al maggiordomo, un terzo urlo, ancora più forte, risuona nella villa.
Roberto ignora le parole che l’uomo gli rivolge e scende di corsa le scale.
Stavolta è sicuro che le urla appartengano a sua madre.
- Perché ora? – fa Dario, osservando il monile. – Perché abbiamo dovuto aspettare per tutti questi anni?
- Perché ora io ho le mie spedizioni in Africa; tu la tua carriera militare; Elena la sua fama di poetessa e Carlo la santità del suo abito. Le nostre stesse vite sono degli alibi che ci terranno al sicuro da ogni sospetto.
Dario sorride.
- Se avessi la metà del tuo ingegno, potrei marciare su Vienna con degli ascari ubriachi.
Apre il taschino della giubba e ne estrae un altro frammento del cuore, che sistema accanto a quello del fratello.
- Se serve a farlo soffrire, sarà valso ogni istante di attesa.
- Mamma? – fa Dario, alzandosi in piedi. – Mamma, cosa succede?
Non è la prima volta che il bambino sente sua madre urlare, ma qualcosa nel tono di voce accende sensazioni strane nel suo inconscio. Sensazioni che gli fanno battere forte il cuore e riempiono i suoi occhi di lacrime, senza apparente motivo.
Comincia ad osservare la porta con ansia sempre crescente, sperando che suo fratello venga a porre fine alle sue paure, ma nessuno viene ad aiutarlo. Quando sente le prime lacrime rigargli le guance, capisce che deve fare da solo e si arrischia ad uscire. Sente suo fratello parlare a voce alta: quando raggiunge il ballatoio, vede che Roberto sta litigando con uno dei maggiordomi.
- Fammi entrare, Delcati! Devo vedere cosa sta succedendo!
- Suo padre sta avendo un importante incontro d’affari e mi ha ordinato di non far entrare nessuno.
Il tono del maggiordomo è così artefatto che persino Dario si rende conto che sta mentendo.
- Basta stronzate!
Roberto cerca di oltrepassare il guardiano, ma Delcati approfitta della sua maggiore mole per tenerlo lontano dalla porta.
Il ragazzo finisce a terra.
- Lascialo stare!
Dario piomba addosso al servitore con tanto impeto da farlo finire a terra. Poi, mentre l’uomo cerca di rialzarsi, lo tempesta di pugni con le sue manine infantili. Passata la sorpresa, però, Delcati se lo scrolla facilmente di dosso e lo blocca con le gambe. L’uomo alza il braccio per schiaffeggiarlo, ma qualcosa lo interrompe.
- Delcati, lascia stare Dario e lasciaci passare – fa la voce di Elena, – oppure chiederò a Carlo di spezzarti il braccio. E sai che è perfettamente in grado di farlo.
Anche se è bloccato a terra, Dario riesce a voltarsi quel tanto che basta per rendersi conto che Carlo ha afferrato il braccio del maggiordomo e lo sta tenendo bloccato, apparentemente senza alcuno sforzo. Il vecchio fa un debole tentativo di liberarsi, poi, vista la brutta situazione, preferisce fare quanto chiestogli.
- Avete sentito anche voi le urla della mamma?- Fa Roberto, aiutando il fratellino più piccolo a rialzarsi. Elena annuisce.
- Allora vediamo di capire costa sta succedendo.
E apre la porta dello studio.
- Le nostre vite saranno anche degli alibi perfetti, ma non basteranno a proteggerci, se qualcosa va storto – fa Elena, incrociando le braccia e lasciandosi andare sullo schienale del divano. – Voglio sperare che in tutti questi anni tu abbia anche avuto il tempo per trovare una soluzione.
Roberto annuisce, poi appoggia sul tavolino un rozzo flauto di legno e un cofanetto dello stesso materiale.
Quando lo apre, i fratelli vedono che al suo interno c’è una sorta di grossa vespa mummificata.
- Cos’è quell’orrore?
- Uno Ndu-borag. Un “Messaggero del Rancore” dei Makilakki del Congo.
- E quindi?
Roberto sorride, poi comincia a suonare con il flauto.
L’aria si riempie con una cacofonia stonata e selvaggia. Un ritmo diverso da qualunque cosa i tre ascoltatori abbiano mai udito e che evoca nelle loro menti immagini sgradevoli di rovine primordiali illuminate dalla Luna e di paludi soffocate dalla vegetazione marcescente. Persino Carlo ne sembra turbato e il suo volto, solitamente impassibile, si contrae per il disgusto.
Prima che possa chiedere a Roberto di smettere, però, la sua attenzione viene catturata da qualcos’altro.
La vespa mummificata comincia lentamente a muovere le zampe rinsecchite e a far vibrare le ali. Sotto lo sguardo attonito dei tre fratelli, la creatura si solleva in volo e comincia a disegnare dei cerchi sopra le loro teste.
- Gli sciamani Makilakki usano gli Ndu-borag per punire i nemici della loro tribù – fa Roberto, interrompendo la musica. – Il morso di questi feticci non lascia scampo. Chi lo subisce diviene preda di una follia omicida, che non si estingue che con la morte.
La vespa fa un altro paio di giri, poi plana nuovamente nel cofanetto, che l’antropologo si affretta a richiudere.
- E tu come hai appreso ad usare questa… cosa?
- Con tanta pazienza e tante casse di chinino fatte arrivare clandestinamente da Leopoldville. – I fratelli vedono un sorriso obliquo sul suo volto. – E poi, ho avuto modo di esercitarmi durante il ritorno. Non è un caso se io e Garrone siamo tra i pochi sopravvissuti della spedizione…
Carlo e Dario impallidiscono. Elena, invece, apre la borsetta, ne estrae il suo frammento del pendente e lo appoggia accanto agli altri.
- Quel verme di nostro padre, ucciso da una vile creatura sua pari – dice, atteggiando il volto in un ghigno anche più feroce di quella di suo fratello. – La tua idea mi piace, Roberto. C’è un che di… poetico!
C’è un uomo seduto sulla poltrona. Elena deve fare uno sforzo di memoria per riconoscerlo come uno degli stallieri della villa, ma il tentativo di ricordarne il suo nome si rivela fallimentare. Che sia morto soffrendo, lo testimoniano tanto il manico del coltello da caccia gli sporge dal collo, quanto l’espressione di terrore dipinta sul volto. La ragazza muove un passo verso il cadavere, poi un rumore soffocato attira la sua attenzione alla sua sinistra. Un rumore e una parola.
- Puttana.
Suo padre affonda il pugno sul volto di sua moglie. Ne fa sprizzare il sangue. Poi alza lentamente il braccio e chiude le dita.
- Puttana.
Un altro pugno. Un altro insulto. Nessuna risposta: la testa della donna è ridotta a un ammasso di carne sanguinolenta priva di lineamenti.
- Puttana.
Elena non percepisce rabbia nelle sue parole, né nei suoi colpi. Suo padre è perfettamente padrone di sé e la lentezza con cui affonda i suoi pugni può spiegarsi solo nella precisa volontà di infliggere quanto più dolore possibile. È la constatazione di questa lucidità, più che la scena in sé, a strapparle un grido.
Suo padre alza lo sguardo verso di loro.
- E voi cosa diavolo ci fate qui?
Si alza, lasciandosi alle spalle il corpo della moglie.
- Cosa… cosa le hai fatto?!
L’uomo si asciuga il sangue dalla fronte, rivolge uno sguardo dietro di lui, poi alza le spalle con aria indifferente.
- Ho dato a questa puttana e al suo ultimo amichetto quello che meritavano – dice, avvicinandosi a loro. – E, a quanto pare, ora è tempo che anche voi abbiate la vostra parte.
- Come vorresti agire?
- Tra tre giorni ci sarà una cena con numerosi latifondisti del delta. Animerò lo Ndu-borag affinché morda nostro padre nel corso della serata: i suoi ospiti faranno il resto.
- Verrà ricordato come un pazzo omicida! E nessuno potrà risalire a noi! – esclama Dario, eccitato in modo quasi infantile all’idea. – Sei un genio, Roberto!
Il fratello annuisce, compiaciuto, poi si volta verso Carlo, che continua a stringere il crocifisso in silenzio.
- So che per te è difficile accettare questi… strumenti. Se sei contrario, non hai che da dirlo. – dice, facendosi improvvisamente serio. – Non ho intenzione di fare questa cosa senza di te.
Elena e Dario sembrano contrariati dalle sue parole, ma Roberto fa cenno loro di non intervenire. Carlo resta immobile per qualche istante, poi lascia il crocifisso ed estrae dalla tasca l’ultimo frammento del cuore.
D’istinto, Carlo si mette in mezzo ed intercetta il pugno che era destinato a sua sorella. Il tremendo impatto gli riempie la bocca di sangue, ma non riesce a smuoverlo.
Inaspettatamente, suo padre si fa indietro.
- Spostati, Carlo. Non ho niente contro di te: è loro che voglio.
Il giovane fa lentamente cenno di no con la testa ed allarga le braccia, per opporre tutto il suo corpo come scudo ai fratelli.
I due si guardano negli occhi, in silenzio. Stessa altezza e stessa corporatura: Carlo ricorda di aver sentito molte persone dire che sembrava in tutto e per tutto l’immagine ringiovanita di suo padre. Guardandolo negli occhi, dubita di quel giudizio.
- Ti ho detto di spostarti!
Un altro pugno, stavolta allo stomaco. Carlo si piega leggermente, ma non distoglie lo sguardo.
- Spostati!!!
Il naso si rompe. Tagli si aprono sulla sua pelle. Un occhio si gonfia fino a chiudersi. Carlo arriva a piegare un ginocchio, eppure oppone sempre il suo corpo come limite invalicabile. Senza reagire, ma anche senza cedere.
- Lascialo in pace, bastardo!
Alle sue spalle, il terrore che sembrava aver raggelato i suoi fratelli sembra essersi sciolto e Dario si prepara ad attaccare. Facendo forza sui muscoli doloranti, Carlo lo spinge via.
Davanti a quella scena, suo padre interrompe la gragnola di pugni.
- Li proteggi da me… e da loro stessi – sussurra, guardandolo negli occhi. – Faresti lo stesso, anche se ti dicessi che non sono davvero tuoi fratelli?
Il giovane esita. Per un istante, pensa a un inganno, ma negli occhi gelidi di suo padre c’è posto per ben altra malvagità.
- Solo tu mi appartieni – ribadisce l’uomo. - Loro sono il frutto di uno dei tanti passatempi di vostra madre.
Carlo si volta verso i suoi fratelli. Li osserva per qualche istante, poi torna a rivolgersi a suo padre. La sua posizione resta identica.
L’uomo alza ancora il braccio, ma la sua mano resta a mezz’aria. Quando la abbassa, nei suoi occhi il giovane può leggere un misto di disprezzo e compiacimento.
- E va bene: diciamo che mi sono sfogato abbastanza – dice, passando oltre il gruppo compatto dei figli. – Rimanderemo la questione a un’altra volta.
Si ferma, sulla soglia.
- Tutto questo non è mai avvenuto – dice, senza nemmeno voltarsi. – Vostra madre è andata a fare un lungo viaggio all’estero, dal quale non manderà più sue notizie. Ricordatevi di questa verità, se non volete andare a farle compagnia in fondo al fiume.
L’uomo esce dalla stanza.
Carlo lo segue con lo sguardo, poi cade in ginocchio. Dario lo aiuta ad appoggiarsi al muro, mentre Elena gli pulisce il sangue dal volto con l’orlo della gonna.
- Gliela farò pagare– mormora Dario, piangendo. – Lo ammazzerò come un cane.
- Tu non farai niente.
Con l’occhio ancora aperto, Carlo vede che Roberto si è inginocchiato accanto al corpo della madre: dopo qualche istante, si volta verso di loro, stringendo in mano il pendente che la donna portava al collo.
- Fingeremo che tutto questo non sia mai successo. Vivremo le nostre vite. E aspetteremo.
- Cosa dovremmo aspettare?
- Il momento in cui nostra madre potrà avere giustizia.
Elena e Dario non sembrano convinti, ma Carlo si accorge che è soprattutto a lui che Roberto sta guardando. Il ragazzo si sforza di rimettersi in piedi, afferra a sua volta il pendente e ne rompe un pezzo.
La promessa è fatta.
Il pendente è ricostruito. Brilla leggermente alla luce delle candele.
Roberto lo sistema tra la ciotola con i capelli e il cofanetto con la vespa mummificata.
- Ne siete sicuri? Il rituale tende ad avere un effetto sgradevole su chi assiste.
- Non posso assistere alla scena del vecchio porco che dà di matto e si fa ammazzare, quindi mi accontento di quello che ho – fa Elena, seduta sulla poltrona. Dario, accanto a lei, ridacchia.
- Stessa cosa. E poi, come potrei perdermi il saggio di flauto di mio fratello?
Carlo non si unisce alle loro risate. Non indossa alcun segno del suo sacerdozio e gli abiti borghesi gli stanno palesemente scomodi.
Vedendo che i fratelli sono decisi a restare, Roberto accosta una candela alla ciocca di capelli e le da fuoco. Mentre la fiamma comincia lentamente a crepitare, l’uomo prende il flauto, rivolge un inchino ai detestabili idoli di legno che riempiono l’altare e comincia a suonare. È una melodia anche più grottesca di quella che i tre fratelli avevano percepito qualche giorno prima e suscita in loro una repulsione anche più forte. Mentre la cacofonia si intensifica, la luce delle candele comincia a tremolare in modo strano, quasi sincrono con il ritmo e le ombre che ne vengono generate assumono contorni sempre più confusi ed alieni. Davanti agli occhi dei presenti compaiono di nuovo visioni di giungle putrescenti e rovine ancestrali, ma altre le seguono, con anche maggiore intensità. I fratelli vedono le foreste ringiovanire, mentre il cielo e le stelle assumono colori e segni di un’antichità precedente ad ogni traccia di coscienza umana. Le rovine diventano città e i monumenti caduti si rialzano in piedi, più alti delle piramidi e così elaborati da far sembrare le meraviglie dell’Esposizione di Parigi dei giocattoli per bambini. E, tra le loro ombre, si muovono esseri il cui aspetto fa riaffiorare nella mente di Carlo il ricordo di alcuni passi dei Vangeli apocrifi da lui studiati di nascosto in seminario. I millenni scivolano davanti ai loro occhi, mostrando loro lo zenith della civiltà antidiluviana, la sua caduta e la sua orrida sopravvivenza nei fumi maligni delle paludi. Gli stessi fumi che si alzano dai turiboli e che animano lo Ndu-borag.
La vespa mummificata si alza in volo, disegna cerchi nell’aria e si lancia in caccia… piombando a tutta velocità sulla faccia di Carlo!
L’uomo urla, mentre il pungiglione penetra nel suo occhio destro. Quando prova a liberarsene, però, il feticcio schizza di nuovo in volo, dove le sue mani non possono raggiungerlo.
Elena e Dario si lanciano su di lui per aiutarlo, mentre Roberto osserva inorridito la scena.
- Cos’hai combinato? – urla Dario. – Perché quella cosa lo ha attaccato?
- Non… non doveva andare così – mormora l’antropologo. – Gli spiriti dovevano dare la caccia al soggetto del rancore… lo Ndu-Borag doveva attaccare la persona di cui avevo offerto i capelli…
- Roberto… chi ti ha dato quella ciocca?
Un’ombra di terrore e sospetto compare sui loro sguardi ma, prima che possa materializzarsi una risposta, le loro riflessioni sono interrotte da un urlo disumano.
Carlo afferra Elena per la gola, la solleva e comincia a strangolarla con entrambe le mani. Dario cerca di liberarla, ma il fratello lo spinge via come se fosse un bambino. Nel momento in cui si volta, Roberto si accorge che l’occhio che è stato morso è iniettato di sangue e sembra pulsare.
- Ha già cominciato ad impazzire! – urla l’antropologo, afferrando il fratello per un braccio. – Dobbiamo scappare subito!
Senza nemmeno rispondergli, Dario si libera dalla sua presa, sguaina la sciabola e carica il vescovo posseduto. Roberto, invece, comincia a correre verso la porta. Resta sordo alle urla, al rumore di ossa spezzate e ai rantolii dei suoi fratelli: non vede altro che i massicci pannelli di legno con le maniglie d’ottone. Li raggiunge, li spinge. Non si muovono.
- No… l’avevo lasciata aperta… - mormora, spingendo la porta con tutto il suo peso. – Era aperta!
Improvvisamente, il silenzio.
Roberto si volta. Carlo, coperto di sangue da capo a piedi e con la sciabola di Dario piantata fino all’elsa in un fianco, lo osserva. Il suo volto è contratto dalla follia e nella bocca stringe un brandello di carne strappato dal collo del fratello minore.
- No… non posso morire – mormora Roberto, addossandosi alla porta. – Non posso morire senza aver ucciso quel bastardo!
EPILOGO
- Quindi?
- I Carabinieri hanno trovato il Vescovo Decarli nelle campagne attorno alla villa di suo fratello. È riuscito ad abbattere tre militari, prima che qualcuno gli piantasse una pallottola nel cervello.
- Il ragazzo è sempre stato un tipo resistente! – esclama l’anziano, muovendo le ruote della sedia a rotelle fino a quando non riesce a girarsi verso il suo interlocutore. –I miei informatori mi hanno fatto sapere che un emissario della Curia ha già contattato il Prefetto per portare le indagini verso lidi più… presentabili. La notizia che di un vescovo che stermina la sua famiglia dopo aver partecipato a una cerimonia pagana sarebbe troppo imbarazzante…
- Proprio come lei aveva previsto.
L’uomo ride ancora e si accende un sigaro. Dall’altra parte della stanza, invece, il servitore resta immobile.
- Cos’altro c’è?
- Garrone le manda questo, Signore. – dice il maggiordomo, appoggiando un pacchetto sulla scrivania. – Dice che lo ha recuperato dopo le perquisizioni nella villa.
- Fagli avere quello che gli spetta – risponde l’anziano, avvicinandosi. – Un prezzo più che equo per una porta chiusa e una ciocca di capelli sostituita.
Il servitore annuisce e si allontana, mentre l’uomo in sedia a rotelle apre il pacchetto e ne estrae il contenuto: un pendente d’oro a forma di cuore.
L’uomo lo osserva per qualche istante, poi lo avvicina a una foto presente sulla scrivania.
- La riconosci, Mara? – esclama, facendo ondeggiare il monile davanti alla foto. – La indossavi sempre, anche il giorno in cui ti ho ammazzata. I tuoi mocciosi l’hanno conservata per così tanto tempo…
Si rigira nuovamente e torna a rivolgersi verso il camino acceso.
- Hanno fallito, Mara. I tuoi adorati figli hanno finito per ammazzarsi l’un l’altro e la vendetta con cui mi hai maledetto nel il tuo ultimo rantolo è sfumata nel nulla.
Lancia la foto e il pendente nel fuoco e li osserva scomparire.
di Agostino Langellotti
Roberto mette del ghiaccio in un bicchiere e si versa uno sherry. Mentre si gode la sensazione di fresco nello stomaco, riconosce il sommesso bussare di Garrone.
- Avanti.
La testa dell’anziano servitore fa capolino tra i pannelli di mogano.
- Perdoni il disturbo, Signore, ma i suoi ospiti sono arrivati.
- Falli entrare. Poi prenditi pure la giornata libera.
- Come desidera, Signore.
Garrone si allontana, mentre tre persone entrano nella stanza e chiudono la porta dietro di loro.
Una donna vestita di mussola bianca, secondo l’ultima moda inglese; un vescovo cattolico, che giocherella nervosamente con il crocifisso dorato che porta al collo e un giovane ufficiale di cavalleria, con l’uniforme linda e due baffetti alla D’Annunzio perfettamente curati.
- Elena, Carlo, Dario. Ben arrivati.
- Quindici anni che non vedi i tuoi fratelli e questo è tutto quello che hai da dire? Speravo che in Africa ti avessero insegnato un po’ di decoro – gli risponde l’ufficiale, sedendosi sul divano e afferrando la bottiglia di sherry. – Bah, nemmeno a bere ti hanno insegnato.
- In compenso, l’esercito non ha insegnato a te la disciplina – gli risponde Roberto, sorridendo. – Come se non sapessi che indossi quell’uniforme solo per far colpo sulle fanciulle che frequentano il circolo letterario di nostra sorella.
- Può contare solo su quello: l’unica volta che ha provato a scrivere una poesia ed a recitarla, ha tirato fuori una chitarronata così volgare che uno dei miei ospiti si è sentito male.
Dario ribatte alla sorella facendo una battuta sui “tisici cicisbei” che frequentano il suo salotto. Elena e Roberto ridono. Carlo continua a tormentare il crocifisso in silenzio. Alla fine, i convenevoli terminano e le loro risate sfumano in un silenzio carico di tensione. Lentamente, Roberto si avvicina a una statuetta di legno a forma di gestante. Toccando un tasto nascosto, ne apre il ventre concavo, poi ne appoggia il contenuto sul tavolino al centro della stanza.
Il frammento di un pendente a forma di cuore.
Un urlo dal piano inferiore. Roberto e Dario si osservano in silenzio, come per rassicurarsi a vicenda di non esserselo immaginato. Un altro grido. Stavolta Roberto lascia cadere le biglie e si alza in piedi.
- Tu resta qui. Vado a vedere cosa sta succedendo.
Il giovane esce dalla stanza, segue il corridoio e raggiuge il ballatoio che dà sul grande soggiorno del piano terra.
– Meglio che torni subito nella sua stanza – fa Delcati, immobile davanti alla porta dello studio di suo padre.
Prima che Roberto possa rispondere al maggiordomo, un terzo urlo, ancora più forte, risuona nella villa.
Roberto ignora le parole che l’uomo gli rivolge e scende di corsa le scale.
Stavolta è sicuro che le urla appartengano a sua madre.
- Perché ora? – fa Dario, osservando il monile. – Perché abbiamo dovuto aspettare per tutti questi anni?
- Perché ora io ho le mie spedizioni in Africa; tu la tua carriera militare; Elena la sua fama di poetessa e Carlo la santità del suo abito. Le nostre stesse vite sono degli alibi che ci terranno al sicuro da ogni sospetto.
Dario sorride.
- Se avessi la metà del tuo ingegno, potrei marciare su Vienna con degli ascari ubriachi.
Apre il taschino della giubba e ne estrae un altro frammento del cuore, che sistema accanto a quello del fratello.
- Se serve a farlo soffrire, sarà valso ogni istante di attesa.
- Mamma? – fa Dario, alzandosi in piedi. – Mamma, cosa succede?
Non è la prima volta che il bambino sente sua madre urlare, ma qualcosa nel tono di voce accende sensazioni strane nel suo inconscio. Sensazioni che gli fanno battere forte il cuore e riempiono i suoi occhi di lacrime, senza apparente motivo.
Comincia ad osservare la porta con ansia sempre crescente, sperando che suo fratello venga a porre fine alle sue paure, ma nessuno viene ad aiutarlo. Quando sente le prime lacrime rigargli le guance, capisce che deve fare da solo e si arrischia ad uscire. Sente suo fratello parlare a voce alta: quando raggiunge il ballatoio, vede che Roberto sta litigando con uno dei maggiordomi.
- Fammi entrare, Delcati! Devo vedere cosa sta succedendo!
- Suo padre sta avendo un importante incontro d’affari e mi ha ordinato di non far entrare nessuno.
Il tono del maggiordomo è così artefatto che persino Dario si rende conto che sta mentendo.
- Basta stronzate!
Roberto cerca di oltrepassare il guardiano, ma Delcati approfitta della sua maggiore mole per tenerlo lontano dalla porta.
Il ragazzo finisce a terra.
- Lascialo stare!
Dario piomba addosso al servitore con tanto impeto da farlo finire a terra. Poi, mentre l’uomo cerca di rialzarsi, lo tempesta di pugni con le sue manine infantili. Passata la sorpresa, però, Delcati se lo scrolla facilmente di dosso e lo blocca con le gambe. L’uomo alza il braccio per schiaffeggiarlo, ma qualcosa lo interrompe.
- Delcati, lascia stare Dario e lasciaci passare – fa la voce di Elena, – oppure chiederò a Carlo di spezzarti il braccio. E sai che è perfettamente in grado di farlo.
Anche se è bloccato a terra, Dario riesce a voltarsi quel tanto che basta per rendersi conto che Carlo ha afferrato il braccio del maggiordomo e lo sta tenendo bloccato, apparentemente senza alcuno sforzo. Il vecchio fa un debole tentativo di liberarsi, poi, vista la brutta situazione, preferisce fare quanto chiestogli.
- Avete sentito anche voi le urla della mamma?- Fa Roberto, aiutando il fratellino più piccolo a rialzarsi. Elena annuisce.
- Allora vediamo di capire costa sta succedendo.
E apre la porta dello studio.
- Le nostre vite saranno anche degli alibi perfetti, ma non basteranno a proteggerci, se qualcosa va storto – fa Elena, incrociando le braccia e lasciandosi andare sullo schienale del divano. – Voglio sperare che in tutti questi anni tu abbia anche avuto il tempo per trovare una soluzione.
Roberto annuisce, poi appoggia sul tavolino un rozzo flauto di legno e un cofanetto dello stesso materiale.
Quando lo apre, i fratelli vedono che al suo interno c’è una sorta di grossa vespa mummificata.
- Cos’è quell’orrore?
- Uno Ndu-borag. Un “Messaggero del Rancore” dei Makilakki del Congo.
- E quindi?
Roberto sorride, poi comincia a suonare con il flauto.
L’aria si riempie con una cacofonia stonata e selvaggia. Un ritmo diverso da qualunque cosa i tre ascoltatori abbiano mai udito e che evoca nelle loro menti immagini sgradevoli di rovine primordiali illuminate dalla Luna e di paludi soffocate dalla vegetazione marcescente. Persino Carlo ne sembra turbato e il suo volto, solitamente impassibile, si contrae per il disgusto.
Prima che possa chiedere a Roberto di smettere, però, la sua attenzione viene catturata da qualcos’altro.
La vespa mummificata comincia lentamente a muovere le zampe rinsecchite e a far vibrare le ali. Sotto lo sguardo attonito dei tre fratelli, la creatura si solleva in volo e comincia a disegnare dei cerchi sopra le loro teste.
- Gli sciamani Makilakki usano gli Ndu-borag per punire i nemici della loro tribù – fa Roberto, interrompendo la musica. – Il morso di questi feticci non lascia scampo. Chi lo subisce diviene preda di una follia omicida, che non si estingue che con la morte.
La vespa fa un altro paio di giri, poi plana nuovamente nel cofanetto, che l’antropologo si affretta a richiudere.
- E tu come hai appreso ad usare questa… cosa?
- Con tanta pazienza e tante casse di chinino fatte arrivare clandestinamente da Leopoldville. – I fratelli vedono un sorriso obliquo sul suo volto. – E poi, ho avuto modo di esercitarmi durante il ritorno. Non è un caso se io e Garrone siamo tra i pochi sopravvissuti della spedizione…
Carlo e Dario impallidiscono. Elena, invece, apre la borsetta, ne estrae il suo frammento del pendente e lo appoggia accanto agli altri.
- Quel verme di nostro padre, ucciso da una vile creatura sua pari – dice, atteggiando il volto in un ghigno anche più feroce di quella di suo fratello. – La tua idea mi piace, Roberto. C’è un che di… poetico!
C’è un uomo seduto sulla poltrona. Elena deve fare uno sforzo di memoria per riconoscerlo come uno degli stallieri della villa, ma il tentativo di ricordarne il suo nome si rivela fallimentare. Che sia morto soffrendo, lo testimoniano tanto il manico del coltello da caccia gli sporge dal collo, quanto l’espressione di terrore dipinta sul volto. La ragazza muove un passo verso il cadavere, poi un rumore soffocato attira la sua attenzione alla sua sinistra. Un rumore e una parola.
- Puttana.
Suo padre affonda il pugno sul volto di sua moglie. Ne fa sprizzare il sangue. Poi alza lentamente il braccio e chiude le dita.
- Puttana.
Un altro pugno. Un altro insulto. Nessuna risposta: la testa della donna è ridotta a un ammasso di carne sanguinolenta priva di lineamenti.
- Puttana.
Elena non percepisce rabbia nelle sue parole, né nei suoi colpi. Suo padre è perfettamente padrone di sé e la lentezza con cui affonda i suoi pugni può spiegarsi solo nella precisa volontà di infliggere quanto più dolore possibile. È la constatazione di questa lucidità, più che la scena in sé, a strapparle un grido.
Suo padre alza lo sguardo verso di loro.
- E voi cosa diavolo ci fate qui?
Si alza, lasciandosi alle spalle il corpo della moglie.
- Cosa… cosa le hai fatto?!
L’uomo si asciuga il sangue dalla fronte, rivolge uno sguardo dietro di lui, poi alza le spalle con aria indifferente.
- Ho dato a questa puttana e al suo ultimo amichetto quello che meritavano – dice, avvicinandosi a loro. – E, a quanto pare, ora è tempo che anche voi abbiate la vostra parte.
- Come vorresti agire?
- Tra tre giorni ci sarà una cena con numerosi latifondisti del delta. Animerò lo Ndu-borag affinché morda nostro padre nel corso della serata: i suoi ospiti faranno il resto.
- Verrà ricordato come un pazzo omicida! E nessuno potrà risalire a noi! – esclama Dario, eccitato in modo quasi infantile all’idea. – Sei un genio, Roberto!
Il fratello annuisce, compiaciuto, poi si volta verso Carlo, che continua a stringere il crocifisso in silenzio.
- So che per te è difficile accettare questi… strumenti. Se sei contrario, non hai che da dirlo. – dice, facendosi improvvisamente serio. – Non ho intenzione di fare questa cosa senza di te.
Elena e Dario sembrano contrariati dalle sue parole, ma Roberto fa cenno loro di non intervenire. Carlo resta immobile per qualche istante, poi lascia il crocifisso ed estrae dalla tasca l’ultimo frammento del cuore.
D’istinto, Carlo si mette in mezzo ed intercetta il pugno che era destinato a sua sorella. Il tremendo impatto gli riempie la bocca di sangue, ma non riesce a smuoverlo.
Inaspettatamente, suo padre si fa indietro.
- Spostati, Carlo. Non ho niente contro di te: è loro che voglio.
Il giovane fa lentamente cenno di no con la testa ed allarga le braccia, per opporre tutto il suo corpo come scudo ai fratelli.
I due si guardano negli occhi, in silenzio. Stessa altezza e stessa corporatura: Carlo ricorda di aver sentito molte persone dire che sembrava in tutto e per tutto l’immagine ringiovanita di suo padre. Guardandolo negli occhi, dubita di quel giudizio.
- Ti ho detto di spostarti!
Un altro pugno, stavolta allo stomaco. Carlo si piega leggermente, ma non distoglie lo sguardo.
- Spostati!!!
Il naso si rompe. Tagli si aprono sulla sua pelle. Un occhio si gonfia fino a chiudersi. Carlo arriva a piegare un ginocchio, eppure oppone sempre il suo corpo come limite invalicabile. Senza reagire, ma anche senza cedere.
- Lascialo in pace, bastardo!
Alle sue spalle, il terrore che sembrava aver raggelato i suoi fratelli sembra essersi sciolto e Dario si prepara ad attaccare. Facendo forza sui muscoli doloranti, Carlo lo spinge via.
Davanti a quella scena, suo padre interrompe la gragnola di pugni.
- Li proteggi da me… e da loro stessi – sussurra, guardandolo negli occhi. – Faresti lo stesso, anche se ti dicessi che non sono davvero tuoi fratelli?
Il giovane esita. Per un istante, pensa a un inganno, ma negli occhi gelidi di suo padre c’è posto per ben altra malvagità.
- Solo tu mi appartieni – ribadisce l’uomo. - Loro sono il frutto di uno dei tanti passatempi di vostra madre.
Carlo si volta verso i suoi fratelli. Li osserva per qualche istante, poi torna a rivolgersi a suo padre. La sua posizione resta identica.
L’uomo alza ancora il braccio, ma la sua mano resta a mezz’aria. Quando la abbassa, nei suoi occhi il giovane può leggere un misto di disprezzo e compiacimento.
- E va bene: diciamo che mi sono sfogato abbastanza – dice, passando oltre il gruppo compatto dei figli. – Rimanderemo la questione a un’altra volta.
Si ferma, sulla soglia.
- Tutto questo non è mai avvenuto – dice, senza nemmeno voltarsi. – Vostra madre è andata a fare un lungo viaggio all’estero, dal quale non manderà più sue notizie. Ricordatevi di questa verità, se non volete andare a farle compagnia in fondo al fiume.
L’uomo esce dalla stanza.
Carlo lo segue con lo sguardo, poi cade in ginocchio. Dario lo aiuta ad appoggiarsi al muro, mentre Elena gli pulisce il sangue dal volto con l’orlo della gonna.
- Gliela farò pagare– mormora Dario, piangendo. – Lo ammazzerò come un cane.
- Tu non farai niente.
Con l’occhio ancora aperto, Carlo vede che Roberto si è inginocchiato accanto al corpo della madre: dopo qualche istante, si volta verso di loro, stringendo in mano il pendente che la donna portava al collo.
- Fingeremo che tutto questo non sia mai successo. Vivremo le nostre vite. E aspetteremo.
- Cosa dovremmo aspettare?
- Il momento in cui nostra madre potrà avere giustizia.
Elena e Dario non sembrano convinti, ma Carlo si accorge che è soprattutto a lui che Roberto sta guardando. Il ragazzo si sforza di rimettersi in piedi, afferra a sua volta il pendente e ne rompe un pezzo.
La promessa è fatta.
Il pendente è ricostruito. Brilla leggermente alla luce delle candele.
Roberto lo sistema tra la ciotola con i capelli e il cofanetto con la vespa mummificata.
- Ne siete sicuri? Il rituale tende ad avere un effetto sgradevole su chi assiste.
- Non posso assistere alla scena del vecchio porco che dà di matto e si fa ammazzare, quindi mi accontento di quello che ho – fa Elena, seduta sulla poltrona. Dario, accanto a lei, ridacchia.
- Stessa cosa. E poi, come potrei perdermi il saggio di flauto di mio fratello?
Carlo non si unisce alle loro risate. Non indossa alcun segno del suo sacerdozio e gli abiti borghesi gli stanno palesemente scomodi.
Vedendo che i fratelli sono decisi a restare, Roberto accosta una candela alla ciocca di capelli e le da fuoco. Mentre la fiamma comincia lentamente a crepitare, l’uomo prende il flauto, rivolge un inchino ai detestabili idoli di legno che riempiono l’altare e comincia a suonare. È una melodia anche più grottesca di quella che i tre fratelli avevano percepito qualche giorno prima e suscita in loro una repulsione anche più forte. Mentre la cacofonia si intensifica, la luce delle candele comincia a tremolare in modo strano, quasi sincrono con il ritmo e le ombre che ne vengono generate assumono contorni sempre più confusi ed alieni. Davanti agli occhi dei presenti compaiono di nuovo visioni di giungle putrescenti e rovine ancestrali, ma altre le seguono, con anche maggiore intensità. I fratelli vedono le foreste ringiovanire, mentre il cielo e le stelle assumono colori e segni di un’antichità precedente ad ogni traccia di coscienza umana. Le rovine diventano città e i monumenti caduti si rialzano in piedi, più alti delle piramidi e così elaborati da far sembrare le meraviglie dell’Esposizione di Parigi dei giocattoli per bambini. E, tra le loro ombre, si muovono esseri il cui aspetto fa riaffiorare nella mente di Carlo il ricordo di alcuni passi dei Vangeli apocrifi da lui studiati di nascosto in seminario. I millenni scivolano davanti ai loro occhi, mostrando loro lo zenith della civiltà antidiluviana, la sua caduta e la sua orrida sopravvivenza nei fumi maligni delle paludi. Gli stessi fumi che si alzano dai turiboli e che animano lo Ndu-borag.
La vespa mummificata si alza in volo, disegna cerchi nell’aria e si lancia in caccia… piombando a tutta velocità sulla faccia di Carlo!
L’uomo urla, mentre il pungiglione penetra nel suo occhio destro. Quando prova a liberarsene, però, il feticcio schizza di nuovo in volo, dove le sue mani non possono raggiungerlo.
Elena e Dario si lanciano su di lui per aiutarlo, mentre Roberto osserva inorridito la scena.
- Cos’hai combinato? – urla Dario. – Perché quella cosa lo ha attaccato?
- Non… non doveva andare così – mormora l’antropologo. – Gli spiriti dovevano dare la caccia al soggetto del rancore… lo Ndu-Borag doveva attaccare la persona di cui avevo offerto i capelli…
- Roberto… chi ti ha dato quella ciocca?
Un’ombra di terrore e sospetto compare sui loro sguardi ma, prima che possa materializzarsi una risposta, le loro riflessioni sono interrotte da un urlo disumano.
Carlo afferra Elena per la gola, la solleva e comincia a strangolarla con entrambe le mani. Dario cerca di liberarla, ma il fratello lo spinge via come se fosse un bambino. Nel momento in cui si volta, Roberto si accorge che l’occhio che è stato morso è iniettato di sangue e sembra pulsare.
- Ha già cominciato ad impazzire! – urla l’antropologo, afferrando il fratello per un braccio. – Dobbiamo scappare subito!
Senza nemmeno rispondergli, Dario si libera dalla sua presa, sguaina la sciabola e carica il vescovo posseduto. Roberto, invece, comincia a correre verso la porta. Resta sordo alle urla, al rumore di ossa spezzate e ai rantolii dei suoi fratelli: non vede altro che i massicci pannelli di legno con le maniglie d’ottone. Li raggiunge, li spinge. Non si muovono.
- No… l’avevo lasciata aperta… - mormora, spingendo la porta con tutto il suo peso. – Era aperta!
Improvvisamente, il silenzio.
Roberto si volta. Carlo, coperto di sangue da capo a piedi e con la sciabola di Dario piantata fino all’elsa in un fianco, lo osserva. Il suo volto è contratto dalla follia e nella bocca stringe un brandello di carne strappato dal collo del fratello minore.
- No… non posso morire – mormora Roberto, addossandosi alla porta. – Non posso morire senza aver ucciso quel bastardo!
EPILOGO
- Quindi?
- I Carabinieri hanno trovato il Vescovo Decarli nelle campagne attorno alla villa di suo fratello. È riuscito ad abbattere tre militari, prima che qualcuno gli piantasse una pallottola nel cervello.
- Il ragazzo è sempre stato un tipo resistente! – esclama l’anziano, muovendo le ruote della sedia a rotelle fino a quando non riesce a girarsi verso il suo interlocutore. –I miei informatori mi hanno fatto sapere che un emissario della Curia ha già contattato il Prefetto per portare le indagini verso lidi più… presentabili. La notizia che di un vescovo che stermina la sua famiglia dopo aver partecipato a una cerimonia pagana sarebbe troppo imbarazzante…
- Proprio come lei aveva previsto.
L’uomo ride ancora e si accende un sigaro. Dall’altra parte della stanza, invece, il servitore resta immobile.
- Cos’altro c’è?
- Garrone le manda questo, Signore. – dice il maggiordomo, appoggiando un pacchetto sulla scrivania. – Dice che lo ha recuperato dopo le perquisizioni nella villa.
- Fagli avere quello che gli spetta – risponde l’anziano, avvicinandosi. – Un prezzo più che equo per una porta chiusa e una ciocca di capelli sostituita.
Il servitore annuisce e si allontana, mentre l’uomo in sedia a rotelle apre il pacchetto e ne estrae il contenuto: un pendente d’oro a forma di cuore.
L’uomo lo osserva per qualche istante, poi lo avvicina a una foto presente sulla scrivania.
- La riconosci, Mara? – esclama, facendo ondeggiare il monile davanti alla foto. – La indossavi sempre, anche il giorno in cui ti ho ammazzata. I tuoi mocciosi l’hanno conservata per così tanto tempo…
Si rigira nuovamente e torna a rivolgersi verso il camino acceso.
- Hanno fallito, Mara. I tuoi adorati figli hanno finito per ammazzarsi l’un l’altro e la vendetta con cui mi hai maledetto nel il tuo ultimo rantolo è sfumata nel nulla.
Lancia la foto e il pendente nel fuoco e li osserva scomparire.
di Agostino Langellotti