Semifinale Arianna Rossi

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il due gennaio sveleremo il tema deciso da Dario Orilio. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Arianna Rossi

Messaggio#1 » domenica 2 febbraio 2020, 23:13

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Dreamscapers.
Accedono in semifinale: Quattro parti di un cuore infranto, di Pretorian e Riscatto di Polly Russell.

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: martedì 04 febbraio alle 23:59
Limite battute: 21.666


Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 04 febbraio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Pretorian
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Re: Semifinale Adriana Rossi

Messaggio#2 » lunedì 3 febbraio 2020, 23:21

Quattro parti di un cuore infranto


Roberto mette del ghiaccio in un bicchiere e si versa uno sherry. Mentre si gode la sensazione di fresco nello stomaco, riconosce il bussare sommesso di Garrone.
- Avanti.
La testa dell’anziano servitore fa capolino tra i pannelli di mogano.
- Perdoni il disturbo, Signore, ma i suoi ospiti sono arrivati.
- Falli entrare. Poi prenditi pure la giornata libera.
- Come desidera, Signore.
Garrone si allontana, mentre tre persone entrano nella stanza e chiudono la porta dietro di loro.
Una donna vestita di mussola bianca, secondo l’ultima moda inglese; un vescovo cattolico, che giocherella nervosamente con il crocifisso dorato che porta al collo e un giovane ufficiale di cavalleria, con l’uniforme linda e due baffetti alla D’Annunzio perfettamente curati.
- Elena, Carlo, Dario. Ben arrivati.
- Quindici anni che non vedi i tuoi fratelli e questo è tutto quello che hai da dire? Speravo che in Africa ti avessero insegnato un po’ di decoro – gli risponde l’ufficiale, sedendosi sul divano e afferrando la bottiglia di sherry. – Bah, nemmeno a bere ti hanno insegnato.
- In compenso, l’esercito non ha insegnato a te la disciplina – gli risponde Roberto, sorridendo. – Come se non sapessi che indossi quell’uniforme solo per far colpo sulle fanciulle che frequentano il circolo letterario di nostra sorella.
- Può contare solo su quello: l’unica volta che ha provato a scrivere una poesia ed a recitarla, ha tirato fuori una chitarronata così volgare che uno dei miei ospiti si è sentito male.
Dario ribatte alla sorella facendo una battuta sui “tisici cicisbei” che frequentano il suo salotto. Elena e Roberto ridono. Carlo continua a tormentare il crocifisso in silenzio. Alla fine, i convenevoli terminano e le loro risate sfumano in un silenzio carico di tensione. Lentamente, Roberto si avvicina a una statuetta di legno a forma di gestante. Toccando un tasto nascosto, ne apre il ventre concavo, poi ne appoggia il contenuto sul tavolino al centro della stanza.
Il frammento di un pendente a forma di cuore.

Un urlo dal piano inferiore. Roberto e Dario si osservano in silenzio, come per rassicurarsi a vicenda di non esserselo immaginato. Un altro grido. Stavolta Roberto lascia cadere le biglie e si alza in piedi.
- Tu resta qui. Vado a vedere cosa sta succedendo.
Il giovane esce dalla stanza, segue il corridoio e raggiuge il ballatoio che dà sul grande soggiorno del piano terra.
– Meglio che torni subito nella sua stanza – esclama Delcati, immobile davanti alla porta dello studio di suo padre.
Prima che Roberto possa rispondere al maggiordomo, un terzo urlo, ancora più forte, risuona nella villa.
Roberto ignora le parole che l’uomo gli rivolge e scende di corsa le scale.
Stavolta è sicuro che le urla appartengano a sua madre.

- Perché ora? – fa Dario, osservando il monile. – Perché abbiamo dovuto aspettare per tutti questi anni?
- Perché ora io ho le mie spedizioni in Africa; tu la tua carriera militare; Elena la sua fama di poetessa e Carlo la santità del suo abito. Le nostre stesse vite sono degli alibi che ci terranno al sicuro da ogni sospetto.
Dario sorride.
- Se avessi la metà del tuo ingegno, potrei marciare su Vienna con degli ascari ubriachi.
Apre il taschino della giubba e ne estrae un altro frammento del cuore, che sistema accanto a quello del fratello.
- Se serve a farlo soffrire, sarà valso ogni istante di attesa.

- Mamma? – sussurra Dario, alzandosi in piedi. – Mamma, cosa succede?
Non è la prima volta che il bambino sente sua madre urlare, ma qualcosa nel tono di voce accende sensazioni strane nel suo inconscio. Sensazioni che gli fanno battere forte il cuore e riempiono i suoi occhi di lacrime, senza apparente motivo.
Comincia ad osservare la porta con ansia sempre crescente, sperando che suo fratello venga a porre fine alle sue paure, ma nessuno viene ad aiutarlo. Quando sente le prime lacrime rigargli le guance, capisce che deve fare da solo e si arrischia ad uscire. Sente suo fratello parlare a voce alta: quando raggiunge il ballatoio, vede che Roberto sta litigando con uno dei maggiordomi.
- Fammi entrare, Delcati! Devo vedere cosa sta succedendo!
- Suo padre sta avendo un importante incontro d’affari e mi ha ordinato di non far entrare nessuno.
Il tono del maggiordomo è così artefatto che persino Dario si rende conto che sta mentendo.
- Basta stronzate!
Roberto cerca di oltrepassare il guardiano, ma Delcati approfitta della sua maggiore mole per tenerlo lontano dalla porta.
Il ragazzo finisce a terra.
- Lascialo stare!
Dario piomba addosso al servitore con tanto impeto da farlo finire a terra. Poi, mentre l’uomo cerca di rialzarsi, lo tempesta di pugni con le sue manine infantili. Passata la sorpresa, però, Delcati se lo scrolla facilmente di dosso e lo blocca con le gambe. L’uomo alza il braccio per schiaffeggiarlo, ma qualcosa lo interrompe.
- Delcati, lascia stare Dario e lasciaci passare – fa la voce di Elena, – oppure chiederò a Carlo di spezzarti il braccio. E sai che è perfettamente in grado di farlo.
Anche se è bloccato a terra, Dario riesce a voltarsi quel tanto che basta per rendersi conto che Carlo ha afferrato il braccio del maggiordomo e lo sta tenendo bloccato, apparentemente senza alcuno sforzo. Il vecchio fa un debole tentativo di liberarsi, poi, vista la brutta situazione, preferisce fare quanto chiestogli.
- Avete sentito anche voi le urla della mamma?- chiede Roberto, aiutando il fratellino più piccolo a rialzarsi. Elena annuisce.
- Allora vediamo di capire costa sta succedendo.
E apre la porta dello studio.


- Le nostre vite saranno anche degli alibi perfetti, ma non basteranno a proteggerci, se qualcosa va storto – Elena incrocia le braccia e si lascia andare sullo schienale del divano. – Voglio sperare che in tutti questi anni tu abbia anche avuto il tempo per trovare una soluzione.
Roberto annuisce, poi appoggia sul tavolino un rozzo flauto di legno e un cofanetto dello stesso materiale.
Quando lo apre, i fratelli vedono che al suo interno c’è una sorta di grossa vespa mummificata.
- Cos’è quell’orrore?
- Uno Ndu-borag. Un “Messaggero del Rancore” dei Makilakki del Congo.
- E quindi?
Roberto sorride, poi comincia a suonare con il flauto.
L’aria si riempie con una cacofonia stonata e selvaggia. Un ritmo diverso da qualunque cosa i tre ascoltatori abbiano mai udito e che evoca nelle loro menti immagini sgradevoli di rovine primordiali illuminate dalla Luna e di paludi soffocate dalla vegetazione marcescente. Persino Carlo ne sembra turbato e il suo volto, solitamente impassibile, si contrae per il disgusto.
Prima che possa chiedere a Roberto di smettere, però, la sua attenzione viene catturata da qualcos’altro.
La vespa mummificata comincia lentamente a muovere le zampe rinsecchite e a far vibrare le ali. Sotto lo sguardo attonito dei tre fratelli, la creatura si solleva in volo e comincia a disegnare dei cerchi sopra le loro teste.
- Gli sciamani Makilakki usano gli Ndu-borag per punire i nemici della loro tribù – dice Roberto, interrompendo la musica. – Il morso di questi feticci non lascia scampo. Chi lo subisce diviene preda di una follia omicida, che non si estingue che con la morte.
La vespa fa un altro paio di giri, poi plana nuovamente nel cofanetto, che l’antropologo si affretta a richiudere.
- E tu come hai imparato ad usare questa… cosa?
- Con tanta pazienza e tante casse di chinino fatte arrivare clandestinamente da Leopoldville. – I fratelli vedono un sorriso obliquo sul suo volto. – E poi, ho avuto modo di esercitarmi durante il ritorno. Non è un caso se io e Garrone siamo tra i pochi sopravvissuti della spedizione…
Carlo e Dario impallidiscono. Elena, invece, apre la borsetta, ne estrae il suo frammento del pendente e lo appoggia accanto agli altri.
- Quel verme di nostro padre, ucciso da una vile creatura sua pari – dice, atteggiando il volto in un ghigno anche più feroce di quella di suo fratello. – La tua idea mi piace, Roberto. C’è un che di… poetico!

C’è un uomo seduto sulla poltrona. Elena deve fare uno sforzo di memoria per riconoscerlo come uno degli stallieri della villa, ma il tentativo di ricordarne il suo nome si rivela fallimentare. Che sia morto soffrendo, lo testimoniano tanto il manico del coltello da caccia gli sporge dal collo, quanto l’espressione di terrore dipinta sul volto. La ragazza muove un passo verso il cadavere, poi un rumore soffocato attira la sua attenzione alla sua sinistra. Un rumore e una parola.
- Puttana.
Suo padre affonda il pugno sul volto di sua moglie. Ne fa sprizzare il sangue. Poi alza lentamente il braccio e chiude le dita.
- Puttana.
Un altro pugno. Un altro insulto. Nessuna risposta: la testa della donna è ridotta a un ammasso di carne sanguinolenta priva di lineamenti.
- Puttana.
Elena non percepisce rabbia nelle sue parole, né nei suoi colpi. Suo padre è perfettamente padrone di sé e la lentezza con cui affonda i suoi pugni può spiegarsi solo nella precisa volontà di infliggere quanto più dolore possibile. È la constatazione di questa lucidità, più che la scena in sé, a strapparle un grido.
Suo padre alza lo sguardo verso di loro.
- E voi cosa diavolo ci fate qui?
Si alza, lasciandosi alle spalle il corpo della moglie.
- Cosa… cosa le hai fatto?!
L’uomo si asciuga il sangue dalla fronte, rivolge uno sguardo dietro di lui, poi alza le spalle con aria indifferente.
- Ho dato a questa puttana e al suo ultimo amichetto quello che meritavano – dice, avvicinandosi a loro. – E, a quanto pare, ora è tempo che anche voi abbiate la vostra parte.


- Come vorresti agire?
- Tra tre giorni ci sarà una cena con numerosi latifondisti del delta. Animerò lo Ndu-borag affinché morda nostro padre nel corso della serata: i suoi ospiti faranno il resto.
- Verrà ricordato come un pazzo omicida! E nessuno potrà risalire a noi! – esclama Dario, eccitato in modo quasi infantile all’idea. – Sei un genio, Roberto!
Il fratello annuisce, compiaciuto, poi si volta verso Carlo, che continua a stringere il crocifisso in silenzio.
- So che per te è difficile accettare questi… strumenti. Se sei contrario, non hai che da dirlo. – dice, facendosi improvvisamente serio. – Non ho intenzione di fare questa cosa senza di te.
Elena e Dario sembrano contrariati dalle sue parole, ma Roberto fa cenno loro di non intervenire. Carlo resta immobile per qualche istante, poi lascia il crocifisso ed estrae dalla tasca l’ultimo frammento del cuore.

D’istinto, Carlo si mette in mezzo ed intercetta il pugno che era destinato a sua sorella. Il tremendo impatto gli riempie la bocca di sangue, ma non riesce a smuoverlo.
Inaspettatamente, suo padre si fa indietro.
- Spostati, Carlo. Non ho niente contro di te: è loro che voglio.
Il giovane fa lentamente cenno di no con la testa ed allarga le braccia, per opporre tutto il suo corpo come scudo ai fratelli.
I due si guardano negli occhi, in silenzio. Stessa altezza e stessa corporatura: Carlo ricorda di aver sentito molte persone dire che sembrava in tutto e per tutto l’immagine ringiovanita di suo padre. Guardandolo negli occhi, dubita di quel giudizio.
- Ti ho detto di spostarti!
Un altro pugno, stavolta allo stomaco. Carlo si piega leggermente, ma non distoglie lo sguardo.
- Spostati!!!
Il naso si rompe. Tagli si aprono sulla sua pelle. Un occhio si gonfia fino a chiudersi. Carlo arriva a piegare un ginocchio, eppure oppone sempre il suo corpo come limite invalicabile. Senza reagire, ma anche senza cedere.
- Lascialo in pace, bastardo!
Alle sue spalle, il terrore che sembrava aver raggelato i suoi fratelli sembra essersi sciolto e Dario si prepara ad attaccare. Facendo forza sui muscoli doloranti, Carlo lo spinge via.
Davanti a quella scena, suo padre interrompe la gragnola di pugni.
- Li proteggi da me… e da loro stessi – sussurra, guardandolo negli occhi. – Faresti lo stesso, anche se ti dicessi che non sono davvero tuoi fratelli?
Il giovane esita. Per un istante, pensa a un inganno, ma negli occhi gelidi di suo padre c’è posto per ben altra malvagità.
- Solo tu sei mio – ribadisce l’uomo. - Loro sono il frutto di uno dei tanti passatempi di vostra madre.
Carlo si volta verso i suoi fratelli. Li osserva per qualche istante, poi torna a rivolgersi a suo padre. La sua posizione resta identica.
L’uomo alza ancora il braccio, ma la sua mano resta a mezz’aria. Quando la abbassa, nei suoi occhi il giovane può leggere un misto di disprezzo e compiacimento.
- E va bene: diciamo che mi sono sfogato abbastanza – dice, passando oltre il gruppo compatto dei figli. – Rimanderemo la questione a un’altra volta.
Si ferma, sulla soglia.
- Tutto questo non è mai avvenuto – dice, senza nemmeno voltarsi. – Vostra madre è andata a fare un lungo viaggio all’estero, dal quale non manderà più sue notizie. Ricordatevi di questa verità, se non volete andare a farle compagnia in fondo al fiume.
L’uomo esce dalla stanza.
Carlo lo segue con lo sguardo, poi cade in ginocchio. Dario lo aiuta ad appoggiarsi al muro, mentre Elena gli pulisce il sangue dal volto con l’orlo della gonna.
- Gliela farò pagare– mormora Dario, piangendo. – Lo ammazzerò come un cane.
- Tu non farai niente.
Con l’occhio ancora aperto, Carlo vede che Roberto si è inginocchiato accanto al corpo della madre: dopo qualche istante, si volta verso di loro, stringendo in mano il pendente che la donna portava al collo.
- Fingeremo che tutto questo non sia mai successo. Vivremo le nostre vite. E aspetteremo.
- Cosa dovremmo aspettare?
- Il momento in cui nostra madre potrà avere giustizia.
Elena e Dario non sembrano convinti, ma Carlo si accorge che è soprattutto a lui che Roberto sta guardando. Il ragazzo si sforza di rimettersi in piedi, afferra a sua volta il pendente e ne rompe un pezzo.
La promessa è fatta.


Il pendente è ricostruito. Brilla leggermente alla luce delle candele.
Roberto lo sistema tra la ciotola con i capelli e il cofanetto con la vespa mummificata.
- Ne siete sicuri? Il rituale tende ad avere un effetto sgradevole su chi assiste.
- Non posso assistere alla scena del vecchio porco che dà di matto e si fa ammazzare, quindi mi accontento di quello che ho – risponde Elena, seduta sulla poltrona. Dario, accanto a lei, ridacchia.
- Stessa cosa. E poi, come potrei perdermi il saggio di flauto di mio fratello?
Carlo non si unisce alle loro risate. Non indossa alcun segno del suo sacerdozio e gli abiti borghesi gli stanno palesemente scomodi.
Vedendo che i fratelli sono decisi a restare, Roberto accosta una candela alla ciocca di capelli e le da fuoco. Mentre la fiamma comincia lentamente a crepitare, l’uomo prende il flauto, rivolge un inchino ai detestabili idoli di legno che riempiono l’altare e comincia a suonare. È una melodia anche più grottesca di quella che i tre fratelli avevano percepito qualche giorno prima e suscita in loro una repulsione anche più forte. Mentre la cacofonia si intensifica, la luce delle candele comincia a tremolare in modo strano, quasi sincrono con il ritmo e le ombre che ne vengono generate assumono contorni sempre più confusi ed alieni. Davanti agli occhi dei presenti compaiono di nuovo visioni di giungle putrescenti e rovine ancestrali, ma altre le seguono, con anche maggiore intensità. I fratelli vedono le foreste ringiovanire, mentre il cielo e le stelle assumono colori e segni di un’antichità precedente ad ogni traccia di coscienza umana. Le rovine diventano città e i monumenti caduti si rialzano in piedi, più alti delle piramidi e così elaborati da far sembrare le meraviglie dell’Esposizione di Parigi dei giocattoli per bambini. E, tra le loro ombre, si muovono esseri il cui aspetto fa riaffiorare nella mente di Carlo il ricordo di alcuni passi dei Vangeli apocrifi da lui studiati di nascosto in seminario. I millenni scivolano davanti ai loro occhi, mostrando loro lo zenith della civiltà antidiluviana, la sua caduta e la sua orrida sopravvivenza nei fumi maligni delle paludi. Gli stessi fumi che si alzano dai turiboli e che animano lo Ndu-borag.
La vespa mummificata si alza in volo, disegna cerchi nell’aria e si lancia in caccia… piombando a tutta velocità sulla faccia di Carlo!
L’uomo urla, mentre il pungiglione penetra nel suo occhio destro. Quando prova a liberarsene, però, il feticcio schizza di nuovo in volo, dove le sue mani non possono raggiungerlo.
Elena e Dario si lanciano su di lui per aiutarlo, mentre Roberto osserva inorridito la scena.
- Cos’hai combinato? – urla Dario. – Perché quella cosa lo ha attaccato?
- Non… non doveva andare così – mormora l’antropologo. – Gli spiriti dovevano dare la caccia al soggetto del rancore… lo Ndu-Borag doveva attaccare la persona di cui avevo offerto i capelli…
- Roberto… chi ti ha dato quella ciocca?
Un’ombra di terrore e sospetto compare sui loro sguardi ma, prima che possa materializzarsi una risposta, le loro riflessioni sono interrotte da un urlo disumano.
Carlo afferra Elena per la gola, la solleva e comincia a strangolarla con entrambe le mani. Dario cerca di liberarla, ma il fratello lo spinge via come se fosse un bambino. Nel momento in cui si volta, Roberto si accorge che l’occhio che è stato morso è iniettato di sangue e sembra pulsare.
- Ha già cominciato ad impazzire! – urla l’antropologo, afferrando il fratello per un braccio. – Dobbiamo scappare subito!
Senza nemmeno rispondergli, Dario si libera dalla sua presa, sguaina la sciabola e carica il vescovo posseduto. Roberto, invece, comincia a correre verso la porta. Resta sordo alle urla, al rumore di ossa spezzate e ai rantolii dei suoi fratelli: non vede altro che i massicci pannelli di legno con le maniglie d’ottone. Li raggiunge, li spinge. Non si muovono.
- No… l’avevo lasciata aperta… - mormora, spingendo la porta con tutto il suo peso. – Era aperta!
Improvvisamente, il silenzio.
Roberto si volta. Carlo, coperto di sangue da capo a piedi e con la sciabola di Dario piantata fino all’elsa in un fianco, lo osserva. Il suo volto è contratto dalla follia e nella bocca stringe un brandello di carne strappato dal collo del fratello minore.
- No… non posso morire – mormora Roberto, addossandosi alla porta. – Non posso morire senza aver ucciso quel bastardo!

EPILOGO
- Quindi?
- I Carabinieri hanno trovato il Vescovo Decarli nelle campagne attorno alla villa di suo fratello. È riuscito ad abbattere tre militari, prima che qualcuno gli piantasse una pallottola nel cervello.
- Il ragazzo è sempre stato un tipo resistente! – esclama l’anziano, muovendo le ruote della sedia a rotelle fino a quando non riesce a girarsi verso il suo interlocutore. –I miei informatori mi hanno fatto sapere che un emissario della Curia ha già contattato il Prefetto per portare le indagini verso lidi più… presentabili. La notizia che di un vescovo che stermina la sua famiglia dopo aver partecipato a una cerimonia pagana sarebbe troppo imbarazzante…
- Proprio come lei aveva previsto.
L’uomo ride ancora e si accende un sigaro. Dall’altra parte della stanza, invece, il servitore resta immobile.
- Cos’altro c’è?
- Garrone le manda questo, Signore. – dice il maggiordomo, appoggiando un pacchetto sulla scrivania. – Dice che lo ha recuperato dopo le perquisizioni nella villa.
- Fagli avere quello che gli spetta – risponde l’anziano, avvicinandosi. – Un prezzo più che equo per una porta chiusa e una ciocca di capelli sostituita.
Il servitore annuisce e si allontana, mentre l’uomo in sedia a rotelle apre il pacchetto e ne estrae il contenuto: un pendente d’oro a forma di cuore.
L’uomo lo osserva per qualche istante, poi lo avvicina a una foto presente sulla scrivania.
- La riconosci, Mara? – esclama, facendo ondeggiare il monile davanti alla foto. – La indossavi sempre, anche il giorno in cui ti ho ammazzata. I tuoi mocciosi l’hanno conservata per così tanto tempo…
Si rigira nuovamente e torna a rivolgersi verso il camino acceso.
- Hanno fallito, Mara. I tuoi adorati figli hanno finito per ammazzarsi l’un l’altro e la vendetta con cui mi hai maledetto nel il tuo ultimo rantolo è sfumata nel nulla.
Lancia la foto e il pendente nel fuoco e li osserva scomparire.

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Polly Russell
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Riscatto

Messaggio#3 » martedì 4 febbraio 2020, 16:31

La stanza era spoglia e sporca, solo delle stuoie accatastate da un lato: ricovero di mosche e pulci. Alcuni schiavi entrarono senza badare a lui, presero delle stuoie e, dopo averle scrollate vi si sdraiarono.
Fuscus non sapeva ancora quale sarebbe stata la sua mansione da quel giorno in avanti, ma era sicuro, non avrebbe potuto essere peggiore della precedente.
Era solo un ragazzo quando lo strapparono dalla sua terra, tanto giovane da ricordare della Tracia ben poche cose. Il suo bell’aspetto gli aveva risparmiato il lavoro nei campi in qualche villa patrizia ma lo aveva condannato alle attenzioni del suo padrone. Nutrire gli aspidi del suo signore e compiacerlo erano la sua quotidianità ma ora che i muscoli dell’uomo avevano soppiantato il corpo del ragazzo, il dominus aveva perso ogni interesse. Quella notte aveva abusato di lui per l’ultima volta, lo aveva baciato anche: quasi una sorta di commiato.

Una mano tra i capelli, la presa si fece salda in corrispondenza della nuca e lo schiacciò contro la parete. «Ecco il giocattolo del padrone. Dai Trace, facci divertire!»
Un secondo schiavo lo aveva afferrato per i polsi. «Da quello che udivo, devi essere meglio di una puttana numida!»
Un calcio al torace, un altro e uno ancora prima che il tintinnio di una delle campane di chiamata lo salvasse. Lo lasciarono a terra, precipitandosi nell’atrio. Lui riuscì a raggiungerli solo dopo qualche minuto, la destra stretta sul fianco e il mento sporco di sangue.
Nella stanza più importante della domus tutti gli schiavi reperibili attendevano ordini con lo sguardo fisso sul mosaico, raffigurante un grosso cane nero, che decorava il pavimento.
«Che ti è accaduto, Trace?»
«Sono caduto.» Si costrinse a rispondere all’archimagirus.
«Improbabile. Ma non importa, ora devo ricollocarti. Sostituirai Gurges alla portantina della padrona quando ne avrà bisogno. Per ora vieni con me.»
L’egiziano si voltò con pronunciata lentezza, le spalle curvate dal tempo. Sollevò una mano e con un gesto distratto congedò gli altri.
«Ti hanno fatto del male?» Lui scosse la testa, facendo ondeggiare le ciocche corvine.
Il maggiordomo procedeva con passo lento e cadenzato, abituato a scortare ospiti illustri e a dar loro il tempo per ammirare le preziose argenterie e gli arazzi.
Il sole illuminava i delicati germogli di un limone appena piantato. Dal lucernario i raggi obliqui dell’aurora, tingevano di rosa i rampicanti e la fontana centrale. Da un satiro di perfetta fattura, zampillava acqua. La vasca di raccolta era decorata da lampade a olio e fiori freschi.
Fuscus era stato in quel giardino centinaia di volte durante i banchetti, al suo padrone piaceva mostrarlo agli ospiti. Lui rimaneva in silenzio, lo sguardo basso: immobile dietro al triclinio del dominus o seduto accanto ai suoi piedi. Aveva ascoltato intricati giochi di potere che aveva capito solo molto più tardi. Aveva assecondato i capricci degli ospiti più influenti, dato piacere agli invitati di rilievo. Era stato conteso addirittura e ceduto a chi aveva il peso politico maggiore.
«Il dominus ha in serbo un banchetto e vuole che sia il più fastoso degli ultimi anni. Ti porto dal cocus.»
Attraversarono tutto il cortile entrando nell’ala della casa destinata a Attica, la domina e alle sue schiave. Non era mai passato di lì.
Le stanze erano riccamente decorate. Affreschi raffiguranti giovani danzatrici spiccavano sulle pareti rosso pompeiano.
Non si accorse del passaggio della domina e il suo inchino risultò maldestro, l’egiziano lo apostrofò con un tocco della verga.
Aveva avuto modo di osservarla: l’aveva vista soddisfare i capricci del marito con la stessa espressione sul volto che aveva lui. Stesso sdegno e stessa rassegnazione.

Sei mesi prima
«Tre mesi!» Il dominus schiacciò Attica, in lacrime, sul letto e le urlò addosso. «Siamo sposati da tre mesi, cos’altro devo aspettare?» Le mollò un ceffone, si levò e la prese per i capelli obbligandola a scendere.
Fuscus aveva stretto il ventaglio più forte, lo sguardo fermo sugli occhi spaventati di lei.
L’uomo la spinse contro la parete, la presa salda sui riccioli castani, le frugò senza alcuna grazia sotto la tunica. «Posso ripudiarti per questo, lo sai?» Le ringhiò sul viso. Lei non riusciva a smettere di piangere, prese fiato un paio di volte, entrambe interrotte da convulsi singhiozzi. «Ti prego marito mio, ti prego...»
Un altro schiaffo la zittì. «Trattami da marito, allora!»
Fuscus deglutì e fece un passo avanti, «Signore?» Sussurrò.
«Che diavolo vuoi tu?»
Sorrise e gli si inginocchiò davanti, ben conscio di cosa il suo padrone prediligesse. Si portò i capelli dietro le orecchie e lo guardò dal basso. «Lascia che le mostri come compiacerti.»
Il domino lasciò Attica e gli sorrise, gli prese la testa con entrambe le mani e lo accarezzò. «Mio diletto. Come farei senza di te.»
Attica scivolò a terra e si spostò verso la porta. Gli occhi gonfi di lacrime e le mani che non smettevano di tremare.
«Rimani moglie e guarda.»



«Archimagirus dove lo porti? Non è il giocattolo di mio marito?»
«Il signore ha deciso altrimenti. Lo porto in cucina per l’imminente banchetto.»
Lei sollevò lo sguardo, soffermandosi solo un istante su un busto di Pallade, poi si avvicinò al Trace. Sfiorò con due dita il marchio sul suo collo con le iniziali del proprio consorte. «Non credere, potrebbe essere la tua fortuna.» Lo sussurrò soltanto, con le labbra appoggiate all’orecchio dello schiavo: i turgidi seni di ragazza spinti contro il suo petto.
«Un nuovo banchetto! Invitati noiosi e discussioni su senatori di cui conosco solo il nome. Quando avrà finito con questa bizzarria, lo voglio alla mia portantina.»
«Ho già provveduto, signora.»

La cucina, Fuscus l’aveva immaginata diversa. Una decina di schiavi affaccendati intorno a un tavolo di pietra e qualche otre, in uno dei cortili interni. E l’odore acre del garum che aveva saturato l’aria.
«Bene.» Acconsentì il cuoco, «la scrofa è stata uccisa e lavata,» le braccia cariche di garum e alloro. Fece un mazzetto delle foglie e vi cosparse il corpo dell'animale dopo averle intinte nella salsa di pesce.
Fuscus era sudato e sporco del sangue della bestia, infilò la testa in un otre d’acqua e si versò addosso quella rimasta. Si scrollò e tirò indietro i capelli.
Quando si sollevò intravide la domina dietro una coltre, al primo piano.
«Sta per fare buio, non distrarti. Bisogna svuotare l’interno.»
Le mani esperte del cuoco si insinuarono nella bocca della creatura. «Deve sembrare integra. Sarà la portata centrale, il mio trionfo!»
Il ragazzo non ci badò, era solo maiale in fondo. Un maiale che non avrebbe neppure mangiato.
Guardò di nuovo verso la finestra al primo piano, lei era ancora là. Seduta sul davanzale.
«Vai a svuotare e lavare quelle budella, le riempirò io con il composto che ho preparato. Bada che non ci sia neppure un forellino.»
Il cuoco allungò un braccio e sfiorò la gola dello schiavo con il coltello. «Ogni foro che troverò, io lo farò a te.»

Il mattino seguente Fuscus salutò l’alba accompagnato dallo schiocco della frusta. Al cocus non fu concesso di forargli le carni, ma non trascurò che il cuoio gli lisciasse le pelle.
La domina aveva deciso di fare acquisti in vista del banchetto e l’egiziano si preoccupò di prepararle la portantina. Raggiunse Fuscus nell’alloggio comune. Lo trovò disteso su una stuoia, i segni delle frustate ben visibili sulla schiena e sulle cosce.
«Ragazzo!»
Lui sollevò le palpebre con fatica. «La domina vuole uscire.»
Il ragazzo si sollevò, i muscoli guizzavano pervasi da tremiti leggeri, prese la tunica pulita che il vecchio gli stava offrendo.
«Indossa questa, non voglio che la signora si impressioni vedendo le tue ferite.»

La schiava più fidata della domina camminava accanto alla portantina, chiacchierando con lei, finché si fermarono in prossimità di un mercato.
I banchi erano un esplosione di colore e profumo. La domina afferrò la mano della sua schiava e si diresse verso il vasellame. Prese una piccola anfora, poi delle brocche. Guardò le ciotole e i piatti, ridendo con aria complice assieme all’altra ragazza. Scelse una lampada, passò al banco successivo e a quello dopo ancora. Comprò oli profumati e due diversi monili. «Aspettatemi, voglio vedere l'aruspice.»
Tornò molto tempo più tardi, sulla veste candida spiccavano due macchie di sangue. «Ho avuto una buona notizia, risolutrice. Andiamo davanti al senato, voglio prendere l’acqua di quella fonte,» poi sussurrò alla sua fidata, «dicono che concili il sonno, faremo in modo che mio marito beva solo quella!»
Rise stringendo le mani della schiava e salì sulla portantina. Solo quando ripresero la marcia notò la tunica di Fuscus macchiata di sangue.
«Cosa ti è accaduto?»
Fuscus non rispose, la guardò con espressione incerta e rimase in silenzio.
«Sei ferito?»
Lo schiavo abbassò lo sguardo, «no, signora.»
Lei incrociò le braccia sotto al piccolo seno e strinse le labbra. «Toglila.»
Slacciò la cintura di cuoio mentre una schiava allontanava alcuni curiosi. Si voltò di spalle e sfilò la veste.
Le labbra della domina si dischiusero appena. «Mi dispiace. Chi è stato?»
Fuscus si voltò di nuovo verso di lei, la tunica arrotolata tra le mani a coprire la propria nudità. «Ho commesso un errore.»
«Il cocus, vero?» Nella sua voce la rassegnazione di chi sa con esattezza dove termina il proprio potere. Lo fissò per qualche istante. «Puoi rivestirti.» Si voltò verso lo schiavo alle sue spalle, «tu, prendi il suo posto alla lettiga, andiamo a casa. Non ho più voglia di andare al senato.»

Attica attese il cocus al centro della sala, davanti all’impluvium ormai pieno di petali di rosa, tamburellando con le dita una delle teche degli aspidi tanto amati da suo marito. «Se, e come punire qualcuno è una decisione del padrone e mia.»
Il cocus si profuse in un inchino sgraziato, «il padrone mi ha concesso pieno potere sugli schiavi, domina.» Marcò l’ultima parola.
Lei si avvicinò di un paio di passi, strinse gli occhi, «mio marito è volubile ma per quanto possa cambiare gusti o puttane, io sono sua moglie. Si stancherà anche di te e avrò la tua testa.»

Fuscus era stato condotto dalle truccatrici in uno dei cortili, quello sul retro della domus, due di loro si misero davanti all’entrata appena la domina li raggiunse.
«È colpa mia, mi dispiace.»
Fuscus scattò in piedi, arrossì quando lei gli poggiò le mani sul petto. «Non devi alzarti, sono qui per farti medicare.» Al suo cenno Caelia le corse accanto, un vasetto di terracotta tra le dita.
La domina si sedette sul triclinio, dopo che lui si fu sdraiato e acconsentì perché la sua schiava lo lavasse. Estrasse una noce di unguento e gliela passò sulla schiena.
La medicazione divenne massaggio poi carezze. Spostò con ambo le mani i capelli e insinuò le dita sotto le orecchie. Caelia, la ornatrix, tossicchiò. La matrona si tirò indietro leccandosi le labbra. «Continua tu, devo andare.»
La schiava prese l’unguento e attese che la sua padrona rientrasse per parlare, «non metterti nei guai, Trace.»
Lui si sollevò sui gomiti, «non è mia intenzione.»
«Attica è una bambina, se l’è cavata col padrone, solo perché era concentrato su di te.» Si avvicinò al triclinio e gli fece cenno di farle posto, il tono accondiscendente, «so quello che hai passato. Ti ho visto uscire dal cubiculum del padrone coperto di lividi. Attica ti osserva da quando è arrivata, e io con lei. Le piaci, ma come a una bambina piace il balocco che non può avere. Cosa credi farebbe con te? Cosa farai tu quando sarà lei a uscire da quella stanza?»

Fuscus ciabattò fino all’atrium, le statuette dei Lari sembravano guardarlo torve. Riconobbe la risata del padrone, proveniva dal tablinum, vi passò dinnanzi in fretta, senza sollevare lo sguardo dal pavimento.
«Fuscus?» Il dominus era seduto dietro il tavolo di legno chiaro. «Il cocus dice che sei andato a lamentarti con Attica, è vero?»
«Signore?»
«Hai capito, rispondi.»
Aveva di nuovo tredici anni, «no, signore.» Balbettò.
«Se lavori per il cocus, lui dispone di te, come preferisce. Nutri i miei aspidi e torna da lui.»

Il fuoco formava una parete verticale, vi adagiarono la scrofa accanto. Il cocus mise un catino colmo di garum tra le mani di Fuscus, «bagnala con frequenza. Verrò io a inserire le budella. Se rovinerai il mio capolavoro te ne farò pentire.»
Fuscus non aveva capito molto di quella ricetta, nella sua terra un arrosto era solo un arrosto.
L’unica cosa chiara era che avrebbero finto di sventrare la scrofa durante il banchetto e avrebbero servito le sue interiora. O meglio, gli insaccati fatti, perché interiora apparissero.
«Sembra un lavoro noioso.» La voce della domina aveva la dolcezza di un flauto. Sfiorò il petto dello schiavo con due dita, le fece scivolare per raccogliere le colature di garum. Si portò l'indice alle labbra e lo succhiò con uno schiocco. «Potrei anche decidere di tenerti per me.» Gli mostrò due denti di leone e gliene offrì, «esprimi un desiderio.» Dischiuse le labbra, formando un piccolo cuore e soffiò con gli occhi chiusi. Poi sospirò e attese che lo facesse anche lui. «Che cosa hai desiderato?»
«La felicità…» rispose incerto.
Lei sollevò lo sguardo «io esprimo sempre lo stesso: la morte di mio marito…» si diresse verso l’interno e si voltò indietro, «... o la mia.»
Fece ancora un paio di passi «raggiungimi quando avrai finito.»

Attica era distesa sul letto, indosso solo un velo e il chiarore delle lucerne. «Avvicinati.»
Lui indugiò qualche istante poi si portò accanto alla sua padrona. La lasciò osservarlo, sfilargli la tunica con mani avide, toccarlo, stringerlo, graffiarlo anche. La ragazza si sedette sul letto, allargò le gambe e lo trasse a sé. Lui si inginocchiò e le afferrò i seni. Un brivido scosse la domina quando Fuscus scostò il velo per suggere i capezzoli sfrontati. «Mia signora...» sussurrò mentre si ergeva afferrandola per la vita sottile.
«Vuoi portarmi via da qui?» gli chiese mentre con la destra indirizzava dentro di sé la prorompente erezione.
La amò a lungo, con passione e delicatezza, finché sprofondò sulle lenzuola madide. Tirò indietro i capelli e fece per alzarsi. Attica gli sfiorò il polso, «dove vai?»
Nella stuoia fuori dal cubiculum, dove aveva dormito da quando era stato catturato, dove il suo padrone lo aveva relegato per usarlo in qualunque momento ne avesse avuto voglia. «Qui fuori, signora.»
Il tocco sul polso si fece presa, «dormi con me, stringimi.»
La scavalcò e si spostò dietro di lei per cingerle le spalle, le prese entrambe le mani nelle sue e gliele strinse al petto, affondò il viso nei suoi capelli profumati.
Attica si portò alle labbra le dita di lui e le baciò, «sai cosa mi ha detto l'aruspice? Che l'uomo oscuro portato qui dalla Tracia mi avrebbe salvata. Che il suo amore e un veleno straniero mi avrebbero liberata.» Si scostò appena dal suo petto e si voltò per guardarlo negli occhi. «Mi salverai?» Gli sfiorò le labbra con le proprie, «Ogni notte prego Vesta affinché quegli stupidi aspidi gli si rivoltino contro.» Tornò con il viso sul guanciale prima che lo schiavo potesse rispondere e si accoccolò tra le sue braccia.

Dalle prime luci dell’alba il cocus urlava rincorrendo le portate, l’archimagirus aveva fatto lucidare i vasellami e l’argenteria e stava dando ordine di disporli in modo differente, di modo che chi già fosse venuto in visita, avrebbe avuto piacere nel guardarli ancora.
Il dominus uscì a grandi passi dal cubiculum, un paio di schiavi gli correvano dietro ossequiosi. «Fuscus vieni qui.» Ringhiò a denti stretti. «Non riesco a trovare l'archimagirus, vai tu. Avvisa le serve della signora che la conducano da me. Non si presenzia a un banchetto con la mente annebbiata da voglie non paghe.» Gli sollevò il mento con la destra e strinse sulle guance con le dita, «tu lo sai bene, vero?» Mosse la mano facendo ondeggiare i boccoli color pece, «ma quanto ci siamo divertiti io e te?» Come gli lasciò il viso, lo sguardo di Fuscus cadde di nuovo sul pavimento. Il dominus gli palpò senza alcuna grazia un gluteo e lo trasse a sé. «Eri così bello...» lo fece voltare e lo strinse, le mani grassocce premute contro le cosce, «... una visione.» Percorse con le dita la linea dura dei muscoli senza mascherare una nota di disgusto, «non più ormai.» Gli diede un colpetto sulla nuca, «vai, sbrigati. Non ho tutto il giorno.»

Aveva girovagato per la domus senza meta per tutta la mattina, fingendo di spostare un vaso, piuttosto che lucidare un mosaico. Tutto per restare nelle vicinanze del cubiculum del padrone. Tutto per sperare di non sentirne uscire alcun suono. La ornatrix che era rimasta fuori dalla porta gli gettava sguardi malevoli a ogni passaggio. Solo quando lo vide scattare verso la camera, rispondendo a un grido strozzato di Attica gli poggiò con garbo le mani sulle spalle. «È sua moglie, quello che senti è già capitato e capiterà. Vattene.»

Nel pomeriggio il primo piano della domus era deserto e dal piano inferiore saliva un gran trambusto, Fuscus superò un lungo corridoio rosso acceso e arrivò vicino al cubiculum della domina.
Appoggiò l’orecchio alla porta, poteva sentir battere il proprio cuore tanto aveva paura di venire scoperto. Pigiò più forte e sentì dei lunghi singhiozzi, poi la voce di Caelia, «avviso il padrone che non riusciamo a coprire i lividi, e che non potrete presenziare al banchetto.»
Si spostò un istante prima che si spalancasse la porta.
La domina lo guardò da dietro un esteso livido viola. La pelle delle braccia e delle spalle segnata di rosso. «È questo che ti faceva?» sussurrò con voce tremante.
Non rispose ma quando la ragazza si spostò verso di lui e si appoggiò al suo petto la strinse.
«Potessi prendere il vostro posto, signora…»
«Lo so, lo hai già fatto. Vai via, ora.» Si discostò e con ritrovata dignità tornò nella la sua stanza.
Fuscus si precipitò in cucina, superò di corsa degli schiavi che lustravano il pavimento e raggiunse la portata principale.
Il trambusto era identico a quello che aveva lasciato, addirittura maggiore.
La scrofa era pronta: nessun segno di lama o bruciatura, perfetta.
Recuperò le budella ripiene, le sostituì con gli aspidi e ne bloccò la fuga con un frutto.
L’avrebbero servita intera, il cocus avrebbe inciso tra le mammelle e il padrone ne avrebbe cavato le salsicce. E sarebbe morto.
Era quasi notte, poteva raggiungere la campagna in fretta e da lì si sarebbe diretto verso il mare, non prima di aver preso lei.

Attese sulle scale, dove lo colse il primo grido di terrore, nel secondo riconobbe la voce del dominus, lo sentì piangere, poi altre urla lo sovrastarono.
«Che succede?» Chiese Attica affacciandosi dalla scalinata, la fedele ornatrix alle spalle.
«Ti porto via.» Le disse Fuscus, il petto che si alzava e abbassava in fretta, al ritmo del fiato spezzato. Le corse incontro e la abbracciò.
Un altro grido, una donna stavolta, nello strazio del terrore e del pianto, "il dominus è morto" fu distinguibile.
«Dobbiamo andare signora, daranno l'allarme!»
Attica gli prese il volto tra le mani e lo baciò, si sciolse i capelli subito dopo, «sai cos'altro mi ha detto l'aruspice?» Il fermacapelli d'osso tra le dita sottili, «che il Trace che mi avrebbe salvata mi avrebbe anche ridotto in miseria allorquando l'avessi seguito o se lo avessi lasciato andare.»
Fuscus ebbe solo il tempo di sgranare gli occhi, mentre l'oggetto di vanità gli veniva piantato nella gola.
Attica lo baciò di nuovo e spinse più a fondo. Fuscus cadde in ginocchio e lei lo accompagnò, le dita ancora strette sul puntale, «ti risparmio la tortura e la crocifissione, mio eroe.» Si levò in piedi mentre dalla gola squarciata dello schiavo, sangue e fiato gorgogliavano gli ultimi istanti di vita.
La ormatrix non riuscì a trattenere un grido, si inginocchiò davanti al corpo ormai senza vita. «Mia signora, perché?»
«Ci sono tre tipi di oggetti, quelli che non si muovono e non parlano, quelli che si muovono e non parlano e quelli che fanno entrambe le cose. Nel terzo caso bisogna guardarsi meglio le spalle. Scendi di sotto e dai l'allarme, per preservare la vostra vita parleremo di un nemico politico. Ora fammi portare il cocus.»
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Re: Semifinale Arianna Rossi

Messaggio#4 » martedì 18 febbraio 2020, 22:48

Così si è espressa Arianna Rossi:

Riguardo il racconto "Riscatto" ho trovato poca originalità, troppi cliché, uso scorretto della punteggiatura che mi manda al manicomio. La storia di per sé non è pessima, ma preferisco nettamente l'altra. Quindi, il finalista per me è "Quattro parti di un cuore infranto". Ha accumulato più bonus, storia originale, colpo di scena per nulla scontato, scrittura migliore, seppure la narrazione è al presente (cosa che personalmente odio).

Passa il turno "Quattro parti di un cuore infranto" in base a tema, bonus, necessità di minor editing e gusto personale.

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