“A schiena dritta contro il vento”
Inviato: lunedì 20 gennaio 2020, 22:51
Chiudo gli occhi. Granelli di sabbia dorata danzano disegnando spirali al ritmo del vento. Dei cammelli, allineati come perle su un drappo di velluto, attraversano le lame affilate delle dune.
Apro gli occhi. Davanti a me c’è la lavagna sporca di gesso, sopra di me le facce irridenti delle mie compagne di classe. Gocce di pioggia rigano le finestre luride.
“Brutta bastarda di un’araba, levati quel cazzo di Hijab dalla testa!”
Guardo Erica negli occhi e le dico con voce tremolante:
“È la nostra tradizione, non mi pare di fare del male a qualcuno. Anche tu hai quei jeans bucati che …”
Non finisco la frase, che mi arriva uno schiaffo. Per un attimo il mio udito si affievolisce e sento bruciare la guancia. Sapore di rame nella bocca. Rimango seduta e non reagisco alle loro violenze. Ma spero che finisca presto.
“Adesso, carina, devi mangiare il panino!” Un'altra compagna, Luisa, mi porge un tramezzino con il salame.
“Sai che non posso…”
“Adesso vivi in Italia e devi adattarti alle nostre tradizioni!” Mi urla nell'orecchio ancora intorpidito.
“Guarda come si fa, ebete!” Erica leva il panino dalle mani di Luisa e lo morde strappandone un pezzo enorme. Tutte scoppiano a ridere rumorosamente.
Erica diventa paonazza e le sue mani si contraggono come gli artigli di una strega. Le altre hanno smesso di ridere e la guardano pietrificate. All'inizio non capisco, poi sentendo un rantolo invece del suo respiro, comprendo la situazione.
“Erica non riesci a mandare giù il boccone?” chiedo.
Chiudo gli occhi. Il cuore mi pulsa al ritmo ipnotizzante dei tamburi a cornice suonati dalle donne della tribù degli “uomini blu”. Dal falò scintille arancioni si elevano verso il cielo come preghiere. Balliamo pestando i piedi sui tappeti lisi dal tempo. Poi inizia il corso sulle manovre base di primo soccorso tenuto da mia madre, dottore in anestesia e rianimazione. Le mani materne si muovono sicure sul manichino di gomma. Io la guardo e vedo il mio futuro prossimo.
Apro gli occhi. Erica mi guarda con gli occhi che sembrano voler uscire dalle orbite. Mi metto alle sue spalle, la cingo all'altezza dello sterno e inizio a stringerla con crescente forza. Al quarto tentativo si piega e sputa fuori un bolo di cibo, ma si accascia.
“Aiutatemi a distenderla!”
Le metto una mano sul collo, non si sente niente. Cavolo! Mi metto a cavalcioni e inizio un massaggio cardiaco. L’olezzo di salame quasi mi fa vomitare, ma continuo senza fermarmi. Poi, uno sbuffo, il petto si alza e di abbassa, impercettibilmente, ma lo fa.
Apre gli occhi, mi guarda.
Chiudo gli occhi. Mio padre e mia padre, sono seduti spalla a spalla su un tappeto srotolato sulla sabbia tiepida. La notte avanza implacabile stendendo la sua ombra algida sulle dune arancioni. Ma loro due sono oltre, brillano di luce propria, non vengono toccati dal manto nero. Non so se stanno pregando, o semplicemente chiacchierando, ma mi pare tutto così bello, così perfetto. Sospiro e sorrido.
Apro gli occhi. Erica mi sorride debolmente. Sirene di ambulanza si avvicinano irrequiete. Mi alzo e mi allontano. Fuori l’aria è grigia e sa di pioggia. Fa freddo. Mi allaccio il Hijab e mi serro a doppia mandata il cappotto. Inizio a camminare a schiena dritta contro il vento, sognando deserti e braccia forti che mi abbracciano senza chiedermi nulla. Non può piovere per sempre.
Apro gli occhi. Davanti a me c’è la lavagna sporca di gesso, sopra di me le facce irridenti delle mie compagne di classe. Gocce di pioggia rigano le finestre luride.
“Brutta bastarda di un’araba, levati quel cazzo di Hijab dalla testa!”
Guardo Erica negli occhi e le dico con voce tremolante:
“È la nostra tradizione, non mi pare di fare del male a qualcuno. Anche tu hai quei jeans bucati che …”
Non finisco la frase, che mi arriva uno schiaffo. Per un attimo il mio udito si affievolisce e sento bruciare la guancia. Sapore di rame nella bocca. Rimango seduta e non reagisco alle loro violenze. Ma spero che finisca presto.
“Adesso, carina, devi mangiare il panino!” Un'altra compagna, Luisa, mi porge un tramezzino con il salame.
“Sai che non posso…”
“Adesso vivi in Italia e devi adattarti alle nostre tradizioni!” Mi urla nell'orecchio ancora intorpidito.
“Guarda come si fa, ebete!” Erica leva il panino dalle mani di Luisa e lo morde strappandone un pezzo enorme. Tutte scoppiano a ridere rumorosamente.
Erica diventa paonazza e le sue mani si contraggono come gli artigli di una strega. Le altre hanno smesso di ridere e la guardano pietrificate. All'inizio non capisco, poi sentendo un rantolo invece del suo respiro, comprendo la situazione.
“Erica non riesci a mandare giù il boccone?” chiedo.
Chiudo gli occhi. Il cuore mi pulsa al ritmo ipnotizzante dei tamburi a cornice suonati dalle donne della tribù degli “uomini blu”. Dal falò scintille arancioni si elevano verso il cielo come preghiere. Balliamo pestando i piedi sui tappeti lisi dal tempo. Poi inizia il corso sulle manovre base di primo soccorso tenuto da mia madre, dottore in anestesia e rianimazione. Le mani materne si muovono sicure sul manichino di gomma. Io la guardo e vedo il mio futuro prossimo.
Apro gli occhi. Erica mi guarda con gli occhi che sembrano voler uscire dalle orbite. Mi metto alle sue spalle, la cingo all'altezza dello sterno e inizio a stringerla con crescente forza. Al quarto tentativo si piega e sputa fuori un bolo di cibo, ma si accascia.
“Aiutatemi a distenderla!”
Le metto una mano sul collo, non si sente niente. Cavolo! Mi metto a cavalcioni e inizio un massaggio cardiaco. L’olezzo di salame quasi mi fa vomitare, ma continuo senza fermarmi. Poi, uno sbuffo, il petto si alza e di abbassa, impercettibilmente, ma lo fa.
Apre gli occhi, mi guarda.
Chiudo gli occhi. Mio padre e mia padre, sono seduti spalla a spalla su un tappeto srotolato sulla sabbia tiepida. La notte avanza implacabile stendendo la sua ombra algida sulle dune arancioni. Ma loro due sono oltre, brillano di luce propria, non vengono toccati dal manto nero. Non so se stanno pregando, o semplicemente chiacchierando, ma mi pare tutto così bello, così perfetto. Sospiro e sorrido.
Apro gli occhi. Erica mi sorride debolmente. Sirene di ambulanza si avvicinano irrequiete. Mi alzo e mi allontano. Fuori l’aria è grigia e sa di pioggia. Fa freddo. Mi allaccio il Hijab e mi serro a doppia mandata il cappotto. Inizio a camminare a schiena dritta contro il vento, sognando deserti e braccia forti che mi abbracciano senza chiedermi nulla. Non può piovere per sempre.