Un buon affare
Inviato: sabato 14 marzo 2020, 15:48
UN BUON AFFARE
«Ti dico che è legno di prima qualità, tagliato nientedimeno che dai boschi del monte Cillene!» Seduta a uno dei tavoli dell’Osteria delle Asce, Inès Flandres stava discutendo animatamente con un uomo fin troppo ben vestito per un postaccio del genere. Eppure, sebbene fosse uno dei nobiluomini più in vista della laguna, era stato proprio lui ad aver indicato quel posto, uno scantinato fumoso in uno dei sestieri più malfamati di Venezia.
Senza dubbio, il nobiluomo se ne era pentito appena ci aveva messo piede. Prima di rispondere, infatti, si guardò intorno per l’ennesima volta: il suo sguardo tradiva una più che legittima preoccupazione. A occupare la sala vi erano in effetti una ventina di uomini, ai suoi occhi probabilmente più simili a bestie che a esseri umani. Ogni volto lì dentro raccontava di vizi sfrenati, e molto probabilmente non valeva il prezzo della corda utile per impiccarne il proprietario. Stavano giocando a dadi, e l’unica preoccupazione di tutti sembrava quella di richiamare l’oste a suon di bestemmie e imprecazioni perché il loro boccale era di nuovo vuoto. Anche l’odore era nauseabondo. Urina, sudore e puzza di sangue si mischiavano a un forte lezzo di stalla. Ciononostante, lì dentro si mangiava il miglior spezzatino di tutta la laguna. Si diceva che l’oste avesse l’abitudine di tenere degli animali vivi da macellare in cantina, malgrado i divieti della sanità veneziana: qualcuno giurava che là sotto fossero stipati polli, conigli, a volte anche qualche maiale, immobili tra quattro mura fradice e costantemente ingozzati di avanzi. Così la carne per la clientela era sempre fresca e grassoccia, pazienza se l’ambiente non era salubre come la Basilica di San Marco.
Il nobiluomo allontanò il fazzoletto dal naso: «E dove terresti questo legno? Da quello che mi dicono alla dogana nessun vascello è attraccato qui, quantomeno non in maniera regolare.»
«Ti dico di fidarti. Dammi un anticipo per bloccare il carico e domani lo farò trasportare al tuo palazzotto. Inès Flandres ha una parola sola!» commentò con il suo spiccato accento francese, e nonostante l’interlocutore altolocato, non evitò di lasciarsi sfuggire un grammo del tono pratico e un po' presuntuoso che la contraddistingueva.
Il patrizio sbuffò e fece un gesto eloquente, come a dire che non intendeva ascoltare oltre né discutere di altro. Un uomo dalla pelle oleosa, che di certo tante ne aveva viste e ancor più ne aveva fatte, stava infatti urinando vicino al camino, dove fumigava una timida brace. «Il legno mi interessa, quindi paga il vino e portami a vederlo adesso. Non voglio restare qui dentro un attimo di più, e soprattutto non voglio che mi vedano in giro con gente come te.» sentenziò il nobiluomo posando l’acconto di tre ducati d’oro sul tavolo che scintillarono come soli sulla faccia patibolare della francese.
“E allora non dovevi decidere di venire qui a parlare, connard” pensò Inès, che dopo essersi alzata in piedi senza grazia, si cacciò il mignolo della mano deforme nell’orecchio e grattò via un orrendo prurito per il semplice gusto di poterlo fare di fronte a un simile signorino. Prese le monete, le fece sparire all’interno del farsetto e si ficcò poi in testa il cappellaccio. L’affare era chiuso.
«Vado a svuotarmi alle latrine, non mi piace chiudere un affare con la vescica piena. E il vino lo paghi tu; ti ho fatto risparmiare abbastanza da poterti pur permettere di tirar fuori altri due bagattini…»
Quando Inès si alzò, l’uomo scosse la testa in segno di profonda disapprovazione: era vestita da uomo, come sempre. Avvolta nel mantello nero del marito, la francese si allontanò. Il resto era un aderente farsetto maschile in lana nera, consumato all’altezza dei gomiti e chiuso da lacci di tessuto che lasciavano intravvedere la camicia di cotone, un tempo bianca. I calzoni di lana nera, lisi e sporchi, non lasciavano all’immaginazione nulla dei suoi fianchi e delle sue cosce. Dalla cima degli alti stivali, il patrizio aveva intravisto occhieggiare il manico di un coltello. Quelle vesti e quell’orribile accento ruvido le conferivano l’aspetto di un brigante, più che quello di una vedova timorata di Dio.
Cosa si deve fare per risparmiare qualche ducato, pensò l’uomo richiamando l’oste per pagare.
Attraversando la cupa sala per raggiungere le latrine, la donna rifletteva invece sul colpo di fortuna che le era capitato. Passeggiando per la Riva degli Schiavoni il giorno prima si era imbattuta in una nave male in arnese, un trabàccolo che batteva bandiera veneziana. Il capitano si stava lamentando che, essendo atteso per il giorno prima, il committente di quel viaggio non aveva più voluto la legna. Tutto per un solo giorno di ritardo, imprecava, esponendo vigorosamente le sue rimostranze alle più alte gerarchie celesti. L’uomo aveva spiegato che per giungere a Venezia si erano imbattuti in una tempesta, che erano sfuggiti alle cannonate dei pirati barbareschi e che soprattutto avevano dovuto combattere con una strana febbre che aveva messo in ginocchio tre quarti dell’equipaggio. Un viaggio maledetto dal demonio, concluso solo grazie all’intercessione di San Giorgio – il cui superiore diretto aveva peraltro chiamato in causa neppure due frasi prima. Ma si sa, la pazienza dei santi è proverbiale per quanto è solida, e soprattutto tra le banchine del porto mercantile di Venezia lo deve essere di sicuro parecchio.
Cosa doveva farsene di tutto quel legno tagliato dai boschi della Tessaglia? Come avrebbe pagato i marinai? E le famiglie dei due compagni persi in mare? Gli raccontò di essere scampato all’ira di Scilla e Cariddi e che voleva a tutti i costi liberarsi di quel carico maledetto. “Accidenti a me e alla mia testa dura. Quel veggente lo aveva detto!” ricordò di avergli sentito dire. Il capitano raccontò che sul quel monte greco gli abitanti non facevano legna per paura dell’ira di quel Dio tanto capriccioso quanto vendicativo e lei, che non era una donna di mare, fortunatamente non attribuiva alcuna valenza alle superstizioni marinaresche, e dai marinai aveva piuttosto imparato ad approfittare della stupidità altrui. Aveva azzardato un’offerta, un prezzo davvero ridicolo per tutto quel ben di Dio e quello sprovveduto aveva accettato convinto di essere vittima di un maleficio.
Acquistato il carico si trattava soltanto di trovare un acquirente. E chi meglio del nobiluomo Giustinian?
Quando rientrò nella sala, con la consapevolezza che da lì a poco avrebbe incassato il resto per quell’affare, qualcosa la inchiodò. Il nobiluomo stava prendendo la via dell’uscita in compagnia di una donna.
«Nom de Dieu, Giustinian! Dove diavolo vai!»
Quello che Inès Flandres si trovò davanti fu nientemeno inusuale. Il patrizio veneziano stava uscendo con quella che appariva come la sua gemella. Annerita dal sole come un impiccato alla forca, la francese spalancò gli occhi.
Vestita con l’identico accrocco nero di abiti maschili, la donna che affiancava il nobiluomo sorrise. Anche lei aveva stretto i capelli in una treccia mezza sfatta dalla quale pendevano alcune ciocche informi: ogni dettaglio era uguale. Quando la vide, la “francese” al fianco di Giustinian alzò subito un dito accusatore verso di lei.
«Eccoti qua, finalmente! È una settimana che vai in giro per Venezia a tirare fregature a nome mio.»
L’oste, intento a passeggiare zoppicando tra i tavoli, con una caraffa di vino schiumoso in mano, si piantò sulle gambe. Tutti i presenti si zittirono; ogni testa segnata dall’esperienza del mare e della terra si voltò verso le due donne. Anche i dadi smisero di rotolare, incerti del loro stesso esito. Un solo tavolo sembrò disinteressarsi alla questione, un tavolo dove a un’estremità sedeva un ragazzino magro e malvestito sui tredici anni con un cane accucciato tra i piedi.
«Cos’è questa storia?» domandò Giustinian con voce tremante, come se avesse visto un fantasma.
«Nulla, nulla, monsieur. È solo una scocciatrice che va in giro a spacciarsi per me.»
«Come osi. Sono io Inès Flandres!» berciò l’altra. «L’unica e legittima Inès Flandres! Credimi!»
In mezzo alle due Inès, il Giustinian parve davvero combattuto. La voce era uguale, i vestiti pure. Entrambe erano basse, di una bellezza sbattuta, sfiorita e scomposta. Le guardò ancora, attentamente: in entrambe le donne due neri sopraccigli facevano da cornice a occhi tristi, dal taglio mediterraneo, identici.
Il ragazzino, con una mano sotto al tavolo, intenta a grattare tra le orecchie il cane, sorrise. Proprio in quell’attimo, una voce cavernosa proveniente dalla sala suggerì la soluzione: «Tagliale la gola, Flandres! Quella che rimane è quella vera.» Subito, l’intera osteria proruppe in una risata e delle acclamazioni di giubilo, pregustando lo spettacolo e già fissando le prime quote per le scommesse. Una decina di persone si mostrò subito pronta a prestare il proprio pugnale alle contendenti. Non era solo il vino a far parlare quella legione di diavoli: per quanto a Venezia non fossero permesse né le armi né il gioco d’azzardo, gli avventori dell’Osteria delle Asce erano famosi per farsi beffe sia del primo precetto che del secondo.
Una delle due donne prese dallo stivale il coltello, costringendo anche l’altra ad armarsi.
«Sotto, bellezza! Vediamo cosa sai fare.» La Flandres che stava per uscire con il nobile iniziò a brandire il coltellaccio. Si sentirono fischi di ammirazione e la seconda non fece in tempo a mettersi in posizione che la lama dell’altra si infilò nella carne con un sibilo e un’imprecazione trattenuta. La lotta si fece subito vivace, al coltello seguirono anche calci e pugni. Le lame si bagnarono presto del sangue di entrambe le duellanti finché, come spesso accadeva nelle lotte di taverna, la situazione degenerò. Ambedue le francesi stringevano il coltello con la mano sinistra, ed entrambe avevano la destra deforme, come se fosse stata masticata da Lucifero in persona. Giustinian, imprecando con mirabile facondia contro la sua avarizia, si era rifugiato sotto un tavolo non appena la gente aveva iniziato a scommettere, e dal tavolo fradicio di molti e diversi umori seguiva le due donne con lo sguardo, turandosi il naso e proteggendosi il volto. Chi aveva scommesso sulla prima sosteneva che fosse la seconda a soccombere, e viceversa, finché in breve il parapiglia fu generale.
«Quella che ha ficcato il dito nell’occhio è la mia!»
«Ma che casso dici! La tua è quella che ha sputato sangue!»
Scoppiò presto un pandemonio. Partirono offese, pugni, morsi e calci. Bastò il primo spintone e uscirono altre lame e quasi tutte si bagnarono di sangue. Come delle furie le due donne si scambiavano fendenti e pugni, finché una, schivando un colpo, assestò una testata sul naso dell’altra. Il rumore fu quello, ben noto a tutti i presenti, di ossa e denti rotti. Portandosi le mani al naso, la donna che aveva incassato il colpo perse l’arma e crollò. L’altra, brandendo ancora la lama, le si mise a cavalcioni. Voleva tagliarle la gola, era chiaro.
Giustinian pensò che non aveva mai visto tanta violenza nella sua vita – da due donne, poi! Proprio quando, spiando tra la fessura delle dita tremanti, era sul punto di assistere al suo primo omicidio, un bestione, che stava facendo valere le sue ragioni nel parapiglia generale, franò sulle due Inès. Fu provvidenziale perché anche l’altra perse l’arma e quella che stava soccombendo ne approfittò per morderle il collo. Il nobiluomo non riuscì a trattenersi, sentì l’urina calda bagnare la pelle e la preziosa stoffa delle sue vesti e mentre stava per vomitare, davanti ai suoi piedi rotolarono tre dita mozzate, che ancora si contraevano spasmodicamente come vermi tozzi e carnosi. L’aria sotto al tavolo era irrespirabile, e la bocca del patrizio sapeva di sangue e ferro. Singhiozzando, cercò di reprimere l’impulso di rimettere.
L’oste uscì di corsa, nella speranza di intercettare una ronda. Quando arrivò la giustizia di San Marco, nella persona di quattro armigeri e un ufficiale paonazzo, ci volle un colpo di pistola sparato in aria per riportare l’ordine. Al rumore e all’odore acre della polvere nera seguì una fuga generale, cui i birri non cercarono neppure di opporsi. Accasciata al suolo come una bambola di pezza, Inès Flandres si teneva il fianco. Gustinian uscì da sotto al tavolo e cercò tra i corpi martoriati e tra i morti l’altra donna. Rivoleva i suoi soldi. Chiese all’oste, ma questo giurò che la sua sosia era scomparsa in una nube di fumo dolciastro.
«Hai visto, Giustinian? La vera Inès sono io…» bofonchiò quella con gli occhi pesti e vittoriosi, mentre sputava sangue e veniva trascinata via dai due soldati. Lui si accucciò nuovamente sotto il tavolaccio, cercando di non farsi notare per non dover dare umilianti spiegazioni ed erogare generose mance per assicurarsi la discrezione dei birri, notoriamente esosi. Ma quelli, purtroppo per lui, erano in cerca di testimoni, e lui spiccava fin troppo tra i pochi ancora presenti e tra i pochissimi ancora in grado di parlare.
Quando il nobiluomo si alzò, interpellato dall’ufficiale, aveva il colore di un cencio. Che figuraccia: avrebbe dovuto rendere conto ai suoi pari del perché si trovava in quello scantinato puzzolente nel bel mezzo di una rissa tra diavolacci. Alle spalle degli armigeri, l’oste si leccò le labbra, dato che quella situazione aveva lasciato anche sulla sua lingua un gusto ferroso. Notò che il bambino e il cane erano ancora seduti al tavolo, impassibili, come se niente fosse. Si avvicinò, scansando quello che restava di sedie, tavoli e bicchieri, e sorpassando un corpo morto che sgorgava placidamente sangue dalla gola sull’assito come una placida fonte alpina sgorga da un ghiacciaio in primavera.
Il bambino allora sorrise. Solo in quel momento l’oste si accorse che era cieco.
Ripristinato l’ordine, con il tanfo di stalla che ormai era tutt’uno con l’odore di morte, l’ufficiale diede ordine ai birri di portare fuori Inès. Questa si dimenava come poteva, ma la stretta della legge le sembrava sapere di condanna certa. L’oste, ancora interdetto, guardò il bambino accarezzare il cane e l’animale ruggì prepotente, manco fosse il leone di San Marco.
“Che colpo di fortuna!” pensò Inès che approfittando della sorpresa dei birri si divincolò, pestando il piede di uno dei due e mordendo il braccio dell’altro. La porta era aperta e la francese la inforcò come se a seguirla ci fosse una compagnia di lanzichenecchi pronti a spedirla all’Inferno. Conosceva Venezia e quando l’ufficiale uscì dall’osteria, la minuta francese aveva fatto perdere le sue tracce. Impossibile inseguirla nell’intricato reticolo di budelli stretti che disegnava la mappa della città. L’oste tornò con lo sguardo sul bambino, di lui e del cane non vi era più traccia, solo un odore dolciastro che stonava con la puzza dell’ambiente. Si grattò il capo e poi pensò che l’unica cosa di cui gli importasse davvero fossero i suoi animali. Ne avrebbero avuto di cibo con tutto quel sangue e quei corpi.
Quando Inès si fermò all’interno del sotopòrtego de la Malvasia Vechia a San Fantin, sicura di aver messo abbastanza strada tra lei e i suoi probabili inseguitori, aveva più dolori che anni di vita. Sentì un altro respiro e si accorse che non era sola. Lì, con lei, c’era il bambino con il cane che aveva visto entrando nell’osteria. Come un pesce in secca, aprì e chiuse la bocca, con la mano storpia si teneva ancora il fianco.
«So a cosa state pensando» esordì quello con una voce bassa, simile a quella di un santone.
La francese respirava affannosamente, aveva un occhio chiuso e la bocca impastata di sangue. Con la stessa voce salmodiante, ma un tono più basso, il bambino aggiunse solo: «Credevate di aver fatto un buon affare. Quella a cui avete assistito è l’ira del dio Ermete. Si è infuriato perché i boscaioli veneziani sono andati a tagliare legna sul monte Cillene, in Grecia, dov’è nato. Ermete ha giurato eterna inimicizia a Venezia… Ah, se quella nave fosse affondata…» lasciò cadere la frase, facendo spallucce e regalando una nuova carezza alla bestia che lo accompagnava. «Il dio Ermete possiede un ruolo infame Inès, aiuta i morti a trovare la via per il mondo sotterraneo dell’aldilà.» Fece una pausa. «Ed è uno dei pochi che ha il permesso di frequentare gli inferi… Forse, è dal diavolo in persona che ha preso questo vizio di vendicarsi. Ora fate quello che vi dico: andate nella Basilica di San Marco e chiedete all’evangelista di intercedere per voi. Ermete per adesso è sazio e da quello che ho sentito, ha procurato un buon numero di anime al Signore degli Inferi.»
«Ma… ma cosa dite?» balbettò lei, che aveva ad un tratto perso tutta la sua spocchia e parlava con il bambino con lo stesso rispetto dovuto al Doge.
«Fidatevi di me, è tanto che aspettavo il momento in cui “Lui” si prendesse un nuovo diavolo per poter tornare finalmente a vedere! Non è toccato a voi, solo perché Giustinian vi aveva già pagato» fece una pausa, accarezzando nuovamente il cane «Ermete ha punito l’avarizia di Giustinian, risparmiando voi e la vostra avidità. Adesso andate, alla fine lo avete fatto un buon affare!»
Qualche calle più in là, all'osteria, un uomo si toccò d'un tratto gli occhi in preda al terrore. Giustinian aveva ricevuto quanto meritava.
di Marco De Luca
«Ti dico che è legno di prima qualità, tagliato nientedimeno che dai boschi del monte Cillene!» Seduta a uno dei tavoli dell’Osteria delle Asce, Inès Flandres stava discutendo animatamente con un uomo fin troppo ben vestito per un postaccio del genere. Eppure, sebbene fosse uno dei nobiluomini più in vista della laguna, era stato proprio lui ad aver indicato quel posto, uno scantinato fumoso in uno dei sestieri più malfamati di Venezia.
Senza dubbio, il nobiluomo se ne era pentito appena ci aveva messo piede. Prima di rispondere, infatti, si guardò intorno per l’ennesima volta: il suo sguardo tradiva una più che legittima preoccupazione. A occupare la sala vi erano in effetti una ventina di uomini, ai suoi occhi probabilmente più simili a bestie che a esseri umani. Ogni volto lì dentro raccontava di vizi sfrenati, e molto probabilmente non valeva il prezzo della corda utile per impiccarne il proprietario. Stavano giocando a dadi, e l’unica preoccupazione di tutti sembrava quella di richiamare l’oste a suon di bestemmie e imprecazioni perché il loro boccale era di nuovo vuoto. Anche l’odore era nauseabondo. Urina, sudore e puzza di sangue si mischiavano a un forte lezzo di stalla. Ciononostante, lì dentro si mangiava il miglior spezzatino di tutta la laguna. Si diceva che l’oste avesse l’abitudine di tenere degli animali vivi da macellare in cantina, malgrado i divieti della sanità veneziana: qualcuno giurava che là sotto fossero stipati polli, conigli, a volte anche qualche maiale, immobili tra quattro mura fradice e costantemente ingozzati di avanzi. Così la carne per la clientela era sempre fresca e grassoccia, pazienza se l’ambiente non era salubre come la Basilica di San Marco.
Il nobiluomo allontanò il fazzoletto dal naso: «E dove terresti questo legno? Da quello che mi dicono alla dogana nessun vascello è attraccato qui, quantomeno non in maniera regolare.»
«Ti dico di fidarti. Dammi un anticipo per bloccare il carico e domani lo farò trasportare al tuo palazzotto. Inès Flandres ha una parola sola!» commentò con il suo spiccato accento francese, e nonostante l’interlocutore altolocato, non evitò di lasciarsi sfuggire un grammo del tono pratico e un po' presuntuoso che la contraddistingueva.
Il patrizio sbuffò e fece un gesto eloquente, come a dire che non intendeva ascoltare oltre né discutere di altro. Un uomo dalla pelle oleosa, che di certo tante ne aveva viste e ancor più ne aveva fatte, stava infatti urinando vicino al camino, dove fumigava una timida brace. «Il legno mi interessa, quindi paga il vino e portami a vederlo adesso. Non voglio restare qui dentro un attimo di più, e soprattutto non voglio che mi vedano in giro con gente come te.» sentenziò il nobiluomo posando l’acconto di tre ducati d’oro sul tavolo che scintillarono come soli sulla faccia patibolare della francese.
“E allora non dovevi decidere di venire qui a parlare, connard” pensò Inès, che dopo essersi alzata in piedi senza grazia, si cacciò il mignolo della mano deforme nell’orecchio e grattò via un orrendo prurito per il semplice gusto di poterlo fare di fronte a un simile signorino. Prese le monete, le fece sparire all’interno del farsetto e si ficcò poi in testa il cappellaccio. L’affare era chiuso.
«Vado a svuotarmi alle latrine, non mi piace chiudere un affare con la vescica piena. E il vino lo paghi tu; ti ho fatto risparmiare abbastanza da poterti pur permettere di tirar fuori altri due bagattini…»
Quando Inès si alzò, l’uomo scosse la testa in segno di profonda disapprovazione: era vestita da uomo, come sempre. Avvolta nel mantello nero del marito, la francese si allontanò. Il resto era un aderente farsetto maschile in lana nera, consumato all’altezza dei gomiti e chiuso da lacci di tessuto che lasciavano intravvedere la camicia di cotone, un tempo bianca. I calzoni di lana nera, lisi e sporchi, non lasciavano all’immaginazione nulla dei suoi fianchi e delle sue cosce. Dalla cima degli alti stivali, il patrizio aveva intravisto occhieggiare il manico di un coltello. Quelle vesti e quell’orribile accento ruvido le conferivano l’aspetto di un brigante, più che quello di una vedova timorata di Dio.
Cosa si deve fare per risparmiare qualche ducato, pensò l’uomo richiamando l’oste per pagare.
Attraversando la cupa sala per raggiungere le latrine, la donna rifletteva invece sul colpo di fortuna che le era capitato. Passeggiando per la Riva degli Schiavoni il giorno prima si era imbattuta in una nave male in arnese, un trabàccolo che batteva bandiera veneziana. Il capitano si stava lamentando che, essendo atteso per il giorno prima, il committente di quel viaggio non aveva più voluto la legna. Tutto per un solo giorno di ritardo, imprecava, esponendo vigorosamente le sue rimostranze alle più alte gerarchie celesti. L’uomo aveva spiegato che per giungere a Venezia si erano imbattuti in una tempesta, che erano sfuggiti alle cannonate dei pirati barbareschi e che soprattutto avevano dovuto combattere con una strana febbre che aveva messo in ginocchio tre quarti dell’equipaggio. Un viaggio maledetto dal demonio, concluso solo grazie all’intercessione di San Giorgio – il cui superiore diretto aveva peraltro chiamato in causa neppure due frasi prima. Ma si sa, la pazienza dei santi è proverbiale per quanto è solida, e soprattutto tra le banchine del porto mercantile di Venezia lo deve essere di sicuro parecchio.
Cosa doveva farsene di tutto quel legno tagliato dai boschi della Tessaglia? Come avrebbe pagato i marinai? E le famiglie dei due compagni persi in mare? Gli raccontò di essere scampato all’ira di Scilla e Cariddi e che voleva a tutti i costi liberarsi di quel carico maledetto. “Accidenti a me e alla mia testa dura. Quel veggente lo aveva detto!” ricordò di avergli sentito dire. Il capitano raccontò che sul quel monte greco gli abitanti non facevano legna per paura dell’ira di quel Dio tanto capriccioso quanto vendicativo e lei, che non era una donna di mare, fortunatamente non attribuiva alcuna valenza alle superstizioni marinaresche, e dai marinai aveva piuttosto imparato ad approfittare della stupidità altrui. Aveva azzardato un’offerta, un prezzo davvero ridicolo per tutto quel ben di Dio e quello sprovveduto aveva accettato convinto di essere vittima di un maleficio.
Acquistato il carico si trattava soltanto di trovare un acquirente. E chi meglio del nobiluomo Giustinian?
Quando rientrò nella sala, con la consapevolezza che da lì a poco avrebbe incassato il resto per quell’affare, qualcosa la inchiodò. Il nobiluomo stava prendendo la via dell’uscita in compagnia di una donna.
«Nom de Dieu, Giustinian! Dove diavolo vai!»
Quello che Inès Flandres si trovò davanti fu nientemeno inusuale. Il patrizio veneziano stava uscendo con quella che appariva come la sua gemella. Annerita dal sole come un impiccato alla forca, la francese spalancò gli occhi.
Vestita con l’identico accrocco nero di abiti maschili, la donna che affiancava il nobiluomo sorrise. Anche lei aveva stretto i capelli in una treccia mezza sfatta dalla quale pendevano alcune ciocche informi: ogni dettaglio era uguale. Quando la vide, la “francese” al fianco di Giustinian alzò subito un dito accusatore verso di lei.
«Eccoti qua, finalmente! È una settimana che vai in giro per Venezia a tirare fregature a nome mio.»
L’oste, intento a passeggiare zoppicando tra i tavoli, con una caraffa di vino schiumoso in mano, si piantò sulle gambe. Tutti i presenti si zittirono; ogni testa segnata dall’esperienza del mare e della terra si voltò verso le due donne. Anche i dadi smisero di rotolare, incerti del loro stesso esito. Un solo tavolo sembrò disinteressarsi alla questione, un tavolo dove a un’estremità sedeva un ragazzino magro e malvestito sui tredici anni con un cane accucciato tra i piedi.
«Cos’è questa storia?» domandò Giustinian con voce tremante, come se avesse visto un fantasma.
«Nulla, nulla, monsieur. È solo una scocciatrice che va in giro a spacciarsi per me.»
«Come osi. Sono io Inès Flandres!» berciò l’altra. «L’unica e legittima Inès Flandres! Credimi!»
In mezzo alle due Inès, il Giustinian parve davvero combattuto. La voce era uguale, i vestiti pure. Entrambe erano basse, di una bellezza sbattuta, sfiorita e scomposta. Le guardò ancora, attentamente: in entrambe le donne due neri sopraccigli facevano da cornice a occhi tristi, dal taglio mediterraneo, identici.
Il ragazzino, con una mano sotto al tavolo, intenta a grattare tra le orecchie il cane, sorrise. Proprio in quell’attimo, una voce cavernosa proveniente dalla sala suggerì la soluzione: «Tagliale la gola, Flandres! Quella che rimane è quella vera.» Subito, l’intera osteria proruppe in una risata e delle acclamazioni di giubilo, pregustando lo spettacolo e già fissando le prime quote per le scommesse. Una decina di persone si mostrò subito pronta a prestare il proprio pugnale alle contendenti. Non era solo il vino a far parlare quella legione di diavoli: per quanto a Venezia non fossero permesse né le armi né il gioco d’azzardo, gli avventori dell’Osteria delle Asce erano famosi per farsi beffe sia del primo precetto che del secondo.
Una delle due donne prese dallo stivale il coltello, costringendo anche l’altra ad armarsi.
«Sotto, bellezza! Vediamo cosa sai fare.» La Flandres che stava per uscire con il nobile iniziò a brandire il coltellaccio. Si sentirono fischi di ammirazione e la seconda non fece in tempo a mettersi in posizione che la lama dell’altra si infilò nella carne con un sibilo e un’imprecazione trattenuta. La lotta si fece subito vivace, al coltello seguirono anche calci e pugni. Le lame si bagnarono presto del sangue di entrambe le duellanti finché, come spesso accadeva nelle lotte di taverna, la situazione degenerò. Ambedue le francesi stringevano il coltello con la mano sinistra, ed entrambe avevano la destra deforme, come se fosse stata masticata da Lucifero in persona. Giustinian, imprecando con mirabile facondia contro la sua avarizia, si era rifugiato sotto un tavolo non appena la gente aveva iniziato a scommettere, e dal tavolo fradicio di molti e diversi umori seguiva le due donne con lo sguardo, turandosi il naso e proteggendosi il volto. Chi aveva scommesso sulla prima sosteneva che fosse la seconda a soccombere, e viceversa, finché in breve il parapiglia fu generale.
«Quella che ha ficcato il dito nell’occhio è la mia!»
«Ma che casso dici! La tua è quella che ha sputato sangue!»
Scoppiò presto un pandemonio. Partirono offese, pugni, morsi e calci. Bastò il primo spintone e uscirono altre lame e quasi tutte si bagnarono di sangue. Come delle furie le due donne si scambiavano fendenti e pugni, finché una, schivando un colpo, assestò una testata sul naso dell’altra. Il rumore fu quello, ben noto a tutti i presenti, di ossa e denti rotti. Portandosi le mani al naso, la donna che aveva incassato il colpo perse l’arma e crollò. L’altra, brandendo ancora la lama, le si mise a cavalcioni. Voleva tagliarle la gola, era chiaro.
Giustinian pensò che non aveva mai visto tanta violenza nella sua vita – da due donne, poi! Proprio quando, spiando tra la fessura delle dita tremanti, era sul punto di assistere al suo primo omicidio, un bestione, che stava facendo valere le sue ragioni nel parapiglia generale, franò sulle due Inès. Fu provvidenziale perché anche l’altra perse l’arma e quella che stava soccombendo ne approfittò per morderle il collo. Il nobiluomo non riuscì a trattenersi, sentì l’urina calda bagnare la pelle e la preziosa stoffa delle sue vesti e mentre stava per vomitare, davanti ai suoi piedi rotolarono tre dita mozzate, che ancora si contraevano spasmodicamente come vermi tozzi e carnosi. L’aria sotto al tavolo era irrespirabile, e la bocca del patrizio sapeva di sangue e ferro. Singhiozzando, cercò di reprimere l’impulso di rimettere.
L’oste uscì di corsa, nella speranza di intercettare una ronda. Quando arrivò la giustizia di San Marco, nella persona di quattro armigeri e un ufficiale paonazzo, ci volle un colpo di pistola sparato in aria per riportare l’ordine. Al rumore e all’odore acre della polvere nera seguì una fuga generale, cui i birri non cercarono neppure di opporsi. Accasciata al suolo come una bambola di pezza, Inès Flandres si teneva il fianco. Gustinian uscì da sotto al tavolo e cercò tra i corpi martoriati e tra i morti l’altra donna. Rivoleva i suoi soldi. Chiese all’oste, ma questo giurò che la sua sosia era scomparsa in una nube di fumo dolciastro.
«Hai visto, Giustinian? La vera Inès sono io…» bofonchiò quella con gli occhi pesti e vittoriosi, mentre sputava sangue e veniva trascinata via dai due soldati. Lui si accucciò nuovamente sotto il tavolaccio, cercando di non farsi notare per non dover dare umilianti spiegazioni ed erogare generose mance per assicurarsi la discrezione dei birri, notoriamente esosi. Ma quelli, purtroppo per lui, erano in cerca di testimoni, e lui spiccava fin troppo tra i pochi ancora presenti e tra i pochissimi ancora in grado di parlare.
Quando il nobiluomo si alzò, interpellato dall’ufficiale, aveva il colore di un cencio. Che figuraccia: avrebbe dovuto rendere conto ai suoi pari del perché si trovava in quello scantinato puzzolente nel bel mezzo di una rissa tra diavolacci. Alle spalle degli armigeri, l’oste si leccò le labbra, dato che quella situazione aveva lasciato anche sulla sua lingua un gusto ferroso. Notò che il bambino e il cane erano ancora seduti al tavolo, impassibili, come se niente fosse. Si avvicinò, scansando quello che restava di sedie, tavoli e bicchieri, e sorpassando un corpo morto che sgorgava placidamente sangue dalla gola sull’assito come una placida fonte alpina sgorga da un ghiacciaio in primavera.
Il bambino allora sorrise. Solo in quel momento l’oste si accorse che era cieco.
Ripristinato l’ordine, con il tanfo di stalla che ormai era tutt’uno con l’odore di morte, l’ufficiale diede ordine ai birri di portare fuori Inès. Questa si dimenava come poteva, ma la stretta della legge le sembrava sapere di condanna certa. L’oste, ancora interdetto, guardò il bambino accarezzare il cane e l’animale ruggì prepotente, manco fosse il leone di San Marco.
“Che colpo di fortuna!” pensò Inès che approfittando della sorpresa dei birri si divincolò, pestando il piede di uno dei due e mordendo il braccio dell’altro. La porta era aperta e la francese la inforcò come se a seguirla ci fosse una compagnia di lanzichenecchi pronti a spedirla all’Inferno. Conosceva Venezia e quando l’ufficiale uscì dall’osteria, la minuta francese aveva fatto perdere le sue tracce. Impossibile inseguirla nell’intricato reticolo di budelli stretti che disegnava la mappa della città. L’oste tornò con lo sguardo sul bambino, di lui e del cane non vi era più traccia, solo un odore dolciastro che stonava con la puzza dell’ambiente. Si grattò il capo e poi pensò che l’unica cosa di cui gli importasse davvero fossero i suoi animali. Ne avrebbero avuto di cibo con tutto quel sangue e quei corpi.
Quando Inès si fermò all’interno del sotopòrtego de la Malvasia Vechia a San Fantin, sicura di aver messo abbastanza strada tra lei e i suoi probabili inseguitori, aveva più dolori che anni di vita. Sentì un altro respiro e si accorse che non era sola. Lì, con lei, c’era il bambino con il cane che aveva visto entrando nell’osteria. Come un pesce in secca, aprì e chiuse la bocca, con la mano storpia si teneva ancora il fianco.
«So a cosa state pensando» esordì quello con una voce bassa, simile a quella di un santone.
La francese respirava affannosamente, aveva un occhio chiuso e la bocca impastata di sangue. Con la stessa voce salmodiante, ma un tono più basso, il bambino aggiunse solo: «Credevate di aver fatto un buon affare. Quella a cui avete assistito è l’ira del dio Ermete. Si è infuriato perché i boscaioli veneziani sono andati a tagliare legna sul monte Cillene, in Grecia, dov’è nato. Ermete ha giurato eterna inimicizia a Venezia… Ah, se quella nave fosse affondata…» lasciò cadere la frase, facendo spallucce e regalando una nuova carezza alla bestia che lo accompagnava. «Il dio Ermete possiede un ruolo infame Inès, aiuta i morti a trovare la via per il mondo sotterraneo dell’aldilà.» Fece una pausa. «Ed è uno dei pochi che ha il permesso di frequentare gli inferi… Forse, è dal diavolo in persona che ha preso questo vizio di vendicarsi. Ora fate quello che vi dico: andate nella Basilica di San Marco e chiedete all’evangelista di intercedere per voi. Ermete per adesso è sazio e da quello che ho sentito, ha procurato un buon numero di anime al Signore degli Inferi.»
«Ma… ma cosa dite?» balbettò lei, che aveva ad un tratto perso tutta la sua spocchia e parlava con il bambino con lo stesso rispetto dovuto al Doge.
«Fidatevi di me, è tanto che aspettavo il momento in cui “Lui” si prendesse un nuovo diavolo per poter tornare finalmente a vedere! Non è toccato a voi, solo perché Giustinian vi aveva già pagato» fece una pausa, accarezzando nuovamente il cane «Ermete ha punito l’avarizia di Giustinian, risparmiando voi e la vostra avidità. Adesso andate, alla fine lo avete fatto un buon affare!»
Qualche calle più in là, all'osteria, un uomo si toccò d'un tratto gli occhi in preda al terrore. Giustinian aveva ricevuto quanto meritava.
di Marco De Luca