Nebbia in Val Pagana
Inviato: domenica 19 aprile 2020, 19:38
Nebbia in Val Pagana
“Regazzì, se nun la finisci de piagne, t’asciugo i lucciconi a forza de lisciabbussi!”
L’uomo butterato agitò il pugno verso la bambina, che si fece piccola piccola contro il tronco dell’albero a cui era legata. Alla luce del fuoco, il suo visino arrossato dal pianto sembrava ancora più rosso.
“Statte bono Catena, che ‘sta ranocchia ce serve sana… Che nun lo vedi com’è vestita? De sicuro è la fija de qualche nobilotto locale. C’ho raggione pischè?”
La bambina non rispose e il butterato lanciò uno sguardo in tralice al compare che aveva parlato, uno spilungone con indosso una vecchia corazza ricoperta di ruggine.
“A’ Favoloso, a me più che altro me pare ‘na mezza scema. Nun ha detto ‘na parola da quando l’avemo catturata giù ar fiume. Piagne e basta!”
“Perché s’è spaurita a vedette ‘n faccia! Mò te dico io che famo… Domattina annamo ar paese a fa’ du’ domande discrete, scoprimo chi so’ i genitori e chiedemo er riscatto. Se famo pure pagà in petecchioni sonanti, così se mettemo finalmente in proprio e tanti saluti ar Nano!”
Il Catena annuì, ingollò una generosa sorsata di vino dalla sua fiasca e sottolineò la propria approvazione con un rutto sonoro. Quindi si accostò al falò e diede un altro giro di spiedo. L’odore della nutria arrosto era da acquolina in bocca, sovrastava perfino il tanfo palustre che saliva dal fiume.
“Certo nun sarebbe male annassene da ‘a Pianura Pagana e tornà a rivedé un po’ de sole giù da noi. Vorrei sape’ perché qui ce sta sempre ‘sta nebbia infame...”
Lo spilungone in armatura crollò a sedere accanto al fuoco, sferragliando come il carretto di uno stagnino. Per un lungo istante, il suo sguardo si posò sulle fiamme. Poi, anche lui si schiarì la gola con un sorso di vino.
“Aò, che nun la sai la leggenda?” - Disse, con tono cospiratorio.
“La leggenda de tu madre?”
“La leggenda de tu sorella. Stamme a sentì, che magari impari qualcosa…”
Il Catena prese lo spiedo dal fuoco e si tagliò una generosa fetta di nutria, mentre il compare cominciava a raccontare. La nebbia risaliva dagli argini del Fossa, avviluppando poco a poco il bosco in un sudario bianco.
“Ai tempi dell’Antichi, il dio del sole c’aveva un fijo.” – Cominciò il Favoloso – “E sto fijo era proprio come te: bastardo. C’aveva pure un nome che era tutto ‘n programma…”
“Se chiamava Favoloso?” - Disse il Catena, rivolgendo all’altro un gesto osceno.
“Se chiamava Fetonte. E un giorno se ne andò dar padre e disse: ‘Babbo, l’amici mia me stanno tutti a cojonà perché nun credono ch’io sia davvero tu’ fijo. Che me faresti guidà er tu’ carro der sole, sicché tutti me vedano e la smettano de damme der buciardo?’”
“Er dio ce pensò su, ma poi je se intenerì er core e lasciò ar fijo le redini der carro con cui portava er sole a zonzo pe’ il cielo. Fetonte schioccò ‘a frusta e partì a tutta callara, sfrecciando fra le nuvole co’ sta palla de’ foco appresso. Ma i cavalli divini facevano le bizze e il carro sbandava de brutto. Fetonte se impanicò e, nel tentativo de frenà, s’avvicinò troppo alla terra, abbruciando cor sole tutta la Sidonia, che da allora è rimasta un deserto.”
“Ammazza che ‘mbecille!” – Ridacchiò il Catena, masticando un boccone di carne di nutria duro come il cuoio.
“Te l’ho detto che t’assomigliava. Comunque non è finita… Il re degli dèi, vedendo ‘sto parapiglia, decise de ristabilì l’ordine. Tirò un fulmine che pijò in pieno Fetonte co’ tutto er carro, facendolo precipita’ giù dar cielo ner fiume Fossa, che all’epoca se chiamava Eridano.”
“Eri d’ano… Mò se spiega ‘a puzza. Ma che c’entra co la nebbia?”
“Ce sto a arrivà. Fetonte annegò con gran dolore de su’ padre e delle sue sorelle, le Eliadi, che piansero così tanto da finì pe’ trasformasse in un salici piangenti. Pure il carro colò a picco, e il sole che se portava appresso se spense in uno sbuffo de fumo, proprio come ‘na torcia gettata in un pozzo.”
“Mecojoni!”
“Anfatti. Quindi hai capito da ‘ndo viene tutta sta nebbia?” – Il Favoloso fece una pausa drammatica, da consumato contafrottole qual era - “È er fumo der sole che s’è spento cadendo ar fiume!”
“Se, vabbè, bella fregnaccia!” – Sbuffò il Catena, facendo per voltarsi – “A regazzì, hai sentito? T’è piaciuta ‘a favola de la buonanotte?”
Ma la bambina non c’era più.
Ai piedi dell’albero a cui l’avevano legata poco prima era rimasto solo un groviglio di corde, tagliate di netto. E un giovanotto smunto, dallo sguardo da faina, acquattato tra l’erba con uno stiletto in mano.
Vedendosi scoperto, il nuovo arrivato masticò una bestemmia. Di sentimento.
Il Catena balzò in piedi e snudò il coltellaccio, subito imitato dal suo compare in armatura.
“A Favolò, la ranocchia è scappata! È scappata, limortaccisua! E ‘sto infame ce l’ha fatta scappà… Mò ce tocca accoppallo.”
---
Cassandrino da Pertugia, canaglia matricolata, Fratello di Taglia e ladro per tutte le stagioni, era un sopravvissuto nato. Di birri e briganti, streghe e bagatti, nessuno era ancora riuscito a fargli la pelle, forse perché lui, nell’andare alla ventura, aveva sempre avuto ben chiara un’unica priorità: mai farsi coinvolgere.
Fu quell’unica effrazione al suo comandamento a costargli la vita.
Ma mentre i due balordi gli cercavano l’anima a coltellate, Cassandrino sorrideva, ripensando allo sguardo riconoscente della bambina che aveva appena liberato. Sarà già lontana e tornerà dalla sua famiglia, pensò, mentre lo sguardo gli sia annebbiava, posandosi per caso su di un salice piangente che cresceva ai margini della radura. Strano come non l’abbia notato prima, rifletté vagamente, mentre la lama del Catena gli bucava un polmone.
Sfogata la loro furia, i due tagliagole trascinarono Cassandrino fino all’argine del Fossa e lo gettarono in acqua, lasciandolo a dissanguare. Mentre la corrente lo trascinava via, l’ultima cosa che gli parve di vedere prima di sprofondare nel buio fu un carro d’oro, che splendeva come il sole sul letto limaccioso del fiume…
“Regazzì, se nun la finisci de piagne, t’asciugo i lucciconi a forza de lisciabbussi!”
L’uomo butterato agitò il pugno verso la bambina, che si fece piccola piccola contro il tronco dell’albero a cui era legata. Alla luce del fuoco, il suo visino arrossato dal pianto sembrava ancora più rosso.
“Statte bono Catena, che ‘sta ranocchia ce serve sana… Che nun lo vedi com’è vestita? De sicuro è la fija de qualche nobilotto locale. C’ho raggione pischè?”
La bambina non rispose e il butterato lanciò uno sguardo in tralice al compare che aveva parlato, uno spilungone con indosso una vecchia corazza ricoperta di ruggine.
“A’ Favoloso, a me più che altro me pare ‘na mezza scema. Nun ha detto ‘na parola da quando l’avemo catturata giù ar fiume. Piagne e basta!”
“Perché s’è spaurita a vedette ‘n faccia! Mò te dico io che famo… Domattina annamo ar paese a fa’ du’ domande discrete, scoprimo chi so’ i genitori e chiedemo er riscatto. Se famo pure pagà in petecchioni sonanti, così se mettemo finalmente in proprio e tanti saluti ar Nano!”
Il Catena annuì, ingollò una generosa sorsata di vino dalla sua fiasca e sottolineò la propria approvazione con un rutto sonoro. Quindi si accostò al falò e diede un altro giro di spiedo. L’odore della nutria arrosto era da acquolina in bocca, sovrastava perfino il tanfo palustre che saliva dal fiume.
“Certo nun sarebbe male annassene da ‘a Pianura Pagana e tornà a rivedé un po’ de sole giù da noi. Vorrei sape’ perché qui ce sta sempre ‘sta nebbia infame...”
Lo spilungone in armatura crollò a sedere accanto al fuoco, sferragliando come il carretto di uno stagnino. Per un lungo istante, il suo sguardo si posò sulle fiamme. Poi, anche lui si schiarì la gola con un sorso di vino.
“Aò, che nun la sai la leggenda?” - Disse, con tono cospiratorio.
“La leggenda de tu madre?”
“La leggenda de tu sorella. Stamme a sentì, che magari impari qualcosa…”
Il Catena prese lo spiedo dal fuoco e si tagliò una generosa fetta di nutria, mentre il compare cominciava a raccontare. La nebbia risaliva dagli argini del Fossa, avviluppando poco a poco il bosco in un sudario bianco.
“Ai tempi dell’Antichi, il dio del sole c’aveva un fijo.” – Cominciò il Favoloso – “E sto fijo era proprio come te: bastardo. C’aveva pure un nome che era tutto ‘n programma…”
“Se chiamava Favoloso?” - Disse il Catena, rivolgendo all’altro un gesto osceno.
“Se chiamava Fetonte. E un giorno se ne andò dar padre e disse: ‘Babbo, l’amici mia me stanno tutti a cojonà perché nun credono ch’io sia davvero tu’ fijo. Che me faresti guidà er tu’ carro der sole, sicché tutti me vedano e la smettano de damme der buciardo?’”
“Er dio ce pensò su, ma poi je se intenerì er core e lasciò ar fijo le redini der carro con cui portava er sole a zonzo pe’ il cielo. Fetonte schioccò ‘a frusta e partì a tutta callara, sfrecciando fra le nuvole co’ sta palla de’ foco appresso. Ma i cavalli divini facevano le bizze e il carro sbandava de brutto. Fetonte se impanicò e, nel tentativo de frenà, s’avvicinò troppo alla terra, abbruciando cor sole tutta la Sidonia, che da allora è rimasta un deserto.”
“Ammazza che ‘mbecille!” – Ridacchiò il Catena, masticando un boccone di carne di nutria duro come il cuoio.
“Te l’ho detto che t’assomigliava. Comunque non è finita… Il re degli dèi, vedendo ‘sto parapiglia, decise de ristabilì l’ordine. Tirò un fulmine che pijò in pieno Fetonte co’ tutto er carro, facendolo precipita’ giù dar cielo ner fiume Fossa, che all’epoca se chiamava Eridano.”
“Eri d’ano… Mò se spiega ‘a puzza. Ma che c’entra co la nebbia?”
“Ce sto a arrivà. Fetonte annegò con gran dolore de su’ padre e delle sue sorelle, le Eliadi, che piansero così tanto da finì pe’ trasformasse in un salici piangenti. Pure il carro colò a picco, e il sole che se portava appresso se spense in uno sbuffo de fumo, proprio come ‘na torcia gettata in un pozzo.”
“Mecojoni!”
“Anfatti. Quindi hai capito da ‘ndo viene tutta sta nebbia?” – Il Favoloso fece una pausa drammatica, da consumato contafrottole qual era - “È er fumo der sole che s’è spento cadendo ar fiume!”
“Se, vabbè, bella fregnaccia!” – Sbuffò il Catena, facendo per voltarsi – “A regazzì, hai sentito? T’è piaciuta ‘a favola de la buonanotte?”
Ma la bambina non c’era più.
Ai piedi dell’albero a cui l’avevano legata poco prima era rimasto solo un groviglio di corde, tagliate di netto. E un giovanotto smunto, dallo sguardo da faina, acquattato tra l’erba con uno stiletto in mano.
Vedendosi scoperto, il nuovo arrivato masticò una bestemmia. Di sentimento.
Il Catena balzò in piedi e snudò il coltellaccio, subito imitato dal suo compare in armatura.
“A Favolò, la ranocchia è scappata! È scappata, limortaccisua! E ‘sto infame ce l’ha fatta scappà… Mò ce tocca accoppallo.”
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Cassandrino da Pertugia, canaglia matricolata, Fratello di Taglia e ladro per tutte le stagioni, era un sopravvissuto nato. Di birri e briganti, streghe e bagatti, nessuno era ancora riuscito a fargli la pelle, forse perché lui, nell’andare alla ventura, aveva sempre avuto ben chiara un’unica priorità: mai farsi coinvolgere.
Fu quell’unica effrazione al suo comandamento a costargli la vita.
Ma mentre i due balordi gli cercavano l’anima a coltellate, Cassandrino sorrideva, ripensando allo sguardo riconoscente della bambina che aveva appena liberato. Sarà già lontana e tornerà dalla sua famiglia, pensò, mentre lo sguardo gli sia annebbiava, posandosi per caso su di un salice piangente che cresceva ai margini della radura. Strano come non l’abbia notato prima, rifletté vagamente, mentre la lama del Catena gli bucava un polmone.
Sfogata la loro furia, i due tagliagole trascinarono Cassandrino fino all’argine del Fossa e lo gettarono in acqua, lasciandolo a dissanguare. Mentre la corrente lo trascinava via, l’ultima cosa che gli parve di vedere prima di sprofondare nel buio fu un carro d’oro, che splendeva come il sole sul letto limaccioso del fiume…