Stanco morto
Inviato: martedì 14 luglio 2020, 16:09
Uscii dalla città, correndo, come facevo sempre del resto. La mia missione era chiara. Mi avevano detto:
«Va’ e cerca aiuti!»
Avevo solo un giorno a disposizione ma ero sicuro di farcela. Sceso precipitosamente dalla collina, m’indirizzai verso la costa. Poi piegai un po’ verso l’interno fino a raggiungere la città dei misteri, così la chiamavano i miei concittadini. Evitai una lunga processione di fedeli e poi raggiunsi un pozzo, dove mi abbeverai. Feci appena in tempo a rifocillarmi che giunsero strane donne che ballavano e cantavano, imitando quella famosa madre che aveva perso la figlia. Avevo con me fichi, olive e carne essiccata che mi avrebbero consentito di arrivare sano e salvo e soprattutto di precedere qualsiasi persona a cavallo. Giunsi nella città piena di mimi, dove cercai di non fermarmi neppure per bere. Non sopportavo gli abitanti che i miei concittadini giudicavano a ragione sciocchi e creduloni, ma anche parassiti e imbroglioni. Raggiunsi il porto della città sull'istmo e qui mi fermai per contemplare i due mari. Proseguii poi di buona lena e tagliai fuori la città che sempre temeva i leoni. Fui io che corsi il rischio d’incontrarli a causa della mia sciagurata scelta di percorrere la campagna.
Erano trascorse più di quattordici ore. Il sole era alto nel cielo quando mi arrampicai sul monte delle ragazze. Raggiunta la cima, mi riposai all'ombra del tempio dedicato a Telefo, qui esposto nella sua infanzia e allattato da una cerva. Stavo per riprendere la corsa, quando mi apparve quel mostro che voi ben conoscete! Dovete credermi perché l’ho visto come voi vedete me in questo momento. Con le sue gambe e corna caprine, zampe irsute e zoccoli, il volto barbuto dall'espressione terribile mi provocò uno spavento che non avevo mai provato neppure in guerra. Mi chiamò per nome e mi disse:
«Devi rivolgere questa domanda ai tuoi concittadini! Per quale ragione non si danno alcuna cura di me, mentre io sono loro amico e in molte circostanze già ero stato loro di valido aiuto e lo sarei stato ancora per il futuro?»
Paralizzato dal terrore della visione, feci solo di sì con la testa e il mostro, come era improvvisamente apparso, altrettanto improvvisamente sparì.
Mi precipitai giù dal monte e raggiunsi sul far della sera la città del pancraziaste Cinisco[1] del quale sono sempre stato un tifoso.
Corsi poi verso la città menzionata da Omero nella sua Iliade nel Catalogo delle Navi. Piena di paludi e malsana. Dovetti affrontare un lupo e un’orsa. Il lupo lo uccisi e invece riuscii a fuggire dall'orsa senza inconvenienti.
Riposai sul ramo di un ulivo per poche ore.
All'alba giunsi finalmente a Lacedemone. Fui lavato e rifocillato e infine portato davanti ai magistrati.
«O uomini saggi, i miei concittadini vi scongiurano di correre in loro aiuto e di non permettere che una città tra le più antiche, cada in schiavitù di uomini barbari. Già abbiamo perso Eretria e quindi tutti noi ci siamo indeboliti!»
«O emerodromo[2] , manderemo di certo aiuti alla tua città ma non potremo farlo subito. Oggi è il nove del mese Carneo e dal sette al quindici di questo mese per noi, come tu sai, è vietato l’uso delle armi. Quando ci sarà il plenilunio, accorreremo.»
Tornai indietro e, dopo un intero giorno, riferii ai miei concittadini il risultato della mia ambasceria.
Le sorti della città e dell’intera regione erano nelle mani dell’esercito. Io e i miei concittadini ateniesi attendevamo, da un momento all'altro, notizie dello scontro con i Persiani.
Alte grida si alzarono dall'acropoli all'arrivo di un messaggero. Mi precipitai anch'io per avere notizie. Quando lo vidi, lo riconobbi: era un mio vecchio compagno d’arme. Si chiamava quasi come me Filippide. Ma non era un corridore. Era un oplita con l’armatura lacera e lo sguardo vitreo.
Riuscì solo a dire:
«Salve, abbiamo vinto!» e cadde morto.
E tutta la città lo pianse. Peccato che urlasse non il suo ma il mio nome. Non riuscivo a comprendere come i miei concittadini potessero pensare che uno come me che aveva percorso 1240 stadi in un giorno solo potesse morire per una corsa di 226 stadi e mezzo!
Il giorno dopo mi recai dall'arconte polemarco Callimaco per protestare.
Dal saggio “Gare olimpiche e olimpici qui pro quo” del giornalista sportivo gallese Robert Mass.[pp. 55-56] Innanzi tutto c’è da chiedersi quale sia il nome esatto di questo mitico corridore. Pausania, Plutarco e Luciano usano la forma Filippide, dalle versioni di Erodoto in loro possesso, mentre nella maggior parte dei manoscritti di Erodoto si presenta la forma Fidippide. Lo storico di Alicarnasso, il più vicino temporalmente alle Guerre Persiane ci racconta solo la storia dell’emerodromo Fidippide che partì da Atene per portare il messaggio di aiuto agli Spartani e che giunse a Sparta il giorno dopo, quindi si suppone entro le ventiquattrore dalla sua partenza, avendo percorso quindi circa 240 km di un percorso molto accidentato che collegava le due polis, un percorso arduo e faticoso, se si considera che gli Spartani in armi, partiti con il plenilunio, avrebbero impiegato tre giorni per arrivare ad affacciarsi sulla piana di Maratona. In tutti i casi, Erodoto non parla della morte di Fidippide stremato a causa di una corsa, e d'altra parte come sarebbe potuto accadere che un emerodromo, appositamente addestrato a questo, potesse morire a seguito di uno sforzo relativamente modesto? Ma allora su cosa si fonda il mito di Maratona?
È tutta colpa di quel mattacchione siriano del II sec. d.C. che si chiamava Luciano di Samosata, celebre, lo sottolineiamo, per i suoi scritti satirici. Narrò che lo stratega Milziade fronteggiò per tre giorni l’esercito persiano di Dario, senza attaccarlo. Poi, all'improvviso gli Ateniesi mossero all'attacco di corsa nella piana di Maratona e travolsero le file dei Persiani. Milziade ordinò a un soldato di nome Filippide di comunicare la notizia della vittoria ad Atene. Quando questi giunse alla città, ebbe solo la forza di dire: “Salve, abbiamo vinto!” e cadde morto.
Come è possibile che un emerodromo allenato potesse morire per esaurimento,dopo una corsa di appena trentaquattro chilometri (tanto misura, in effetti, la distanza che separa la piana di Maratona da Atene, senza gli arzigogoli voluti da De Coubertin)?
Salvo che non si voglia pensare che quel Fidippide delle Storie di Erodoto, dopo essere andato avanti e indietro tra Atene e Sparta sia ripartito per Maratona e infine sia corso di nuovo ad Atene per annunciare la vittoria. Si potrebbe immaginare che il collasso di Fidippide sia sopravvenuto perché aveva percorso più di 500 km in pochi giorni!
Il barone Pierre De Coubertin, che cercava di far rivivere il messaggio di pace legato alle antiche Olimpiadi, dopo i guasti prodotti dalla guerra franco-prussiana di due decenni prima, vide in questo falso mito di Luciano di Samosata l’emblema dello spirito libertario e pacifista e lo adottò per le prime Olimpiadi moderne del 1896 ad Atene.
(N.d.A.) Il percorso narrato da Fidippide ripercorre quello dell’odierno Spartathlon, una corsa che, dal 1983, rifacendosi al racconto di Erodoto, si tiene ogni anno tra Atene e Sparta in Grecia. Per la sua lunghezza di ben 246 km rientra nella categoria delle cosiddette ultramaratone.
All'inizio del racconto, fino al suo ritorno ad Atene, le città non sono citate con il loro nome ma identificate con situazioni mitologiche o storiche. In sequenza sono indicate Atene, Eleusi, Megara, Corinto, Nemea, Mantinea e Tegea.
Il monte delle ragazze citato nel racconto è il Monte Partenio (monte della vergine, in greco antico: Παρθένιο). È una montagna che confina con l'Arcadia e l'Argolide, nel Peloponneso in Grecia, alta 1.215 m. Qui dalla madre Auge che lo aveva partorito di nascosto, avendo violato i voti sacerdotali, venne esposto l'eroe greco Telefo e allattato da una cerva. Il mostro che Fidippide incontra è il dio Pan, come ci racconta Erodoto nelle sue Storie.
[1] atleta olimpionico che praticava uno sport più e meno simile al pugilato moderno, ma dalle regole molto diverse: si combatteva avvolgendo dei legacci di cuoio alle mani e permetteva anche l'uso dei piedi, dei gomiti e delle ginocchia.
[2] nell'antica Grecia l'emerodromo (ovvero "colui che corre per un giorno intero") era un messaggero addestrato a percorrere lunghe distanze in breve tempo, per recapitare dispacci importanti da una città all'altra muovendosi in completa autonomia.
«Va’ e cerca aiuti!»
Avevo solo un giorno a disposizione ma ero sicuro di farcela. Sceso precipitosamente dalla collina, m’indirizzai verso la costa. Poi piegai un po’ verso l’interno fino a raggiungere la città dei misteri, così la chiamavano i miei concittadini. Evitai una lunga processione di fedeli e poi raggiunsi un pozzo, dove mi abbeverai. Feci appena in tempo a rifocillarmi che giunsero strane donne che ballavano e cantavano, imitando quella famosa madre che aveva perso la figlia. Avevo con me fichi, olive e carne essiccata che mi avrebbero consentito di arrivare sano e salvo e soprattutto di precedere qualsiasi persona a cavallo. Giunsi nella città piena di mimi, dove cercai di non fermarmi neppure per bere. Non sopportavo gli abitanti che i miei concittadini giudicavano a ragione sciocchi e creduloni, ma anche parassiti e imbroglioni. Raggiunsi il porto della città sull'istmo e qui mi fermai per contemplare i due mari. Proseguii poi di buona lena e tagliai fuori la città che sempre temeva i leoni. Fui io che corsi il rischio d’incontrarli a causa della mia sciagurata scelta di percorrere la campagna.
Erano trascorse più di quattordici ore. Il sole era alto nel cielo quando mi arrampicai sul monte delle ragazze. Raggiunta la cima, mi riposai all'ombra del tempio dedicato a Telefo, qui esposto nella sua infanzia e allattato da una cerva. Stavo per riprendere la corsa, quando mi apparve quel mostro che voi ben conoscete! Dovete credermi perché l’ho visto come voi vedete me in questo momento. Con le sue gambe e corna caprine, zampe irsute e zoccoli, il volto barbuto dall'espressione terribile mi provocò uno spavento che non avevo mai provato neppure in guerra. Mi chiamò per nome e mi disse:
«Devi rivolgere questa domanda ai tuoi concittadini! Per quale ragione non si danno alcuna cura di me, mentre io sono loro amico e in molte circostanze già ero stato loro di valido aiuto e lo sarei stato ancora per il futuro?»
Paralizzato dal terrore della visione, feci solo di sì con la testa e il mostro, come era improvvisamente apparso, altrettanto improvvisamente sparì.
Mi precipitai giù dal monte e raggiunsi sul far della sera la città del pancraziaste Cinisco[1] del quale sono sempre stato un tifoso.
Corsi poi verso la città menzionata da Omero nella sua Iliade nel Catalogo delle Navi. Piena di paludi e malsana. Dovetti affrontare un lupo e un’orsa. Il lupo lo uccisi e invece riuscii a fuggire dall'orsa senza inconvenienti.
Riposai sul ramo di un ulivo per poche ore.
All'alba giunsi finalmente a Lacedemone. Fui lavato e rifocillato e infine portato davanti ai magistrati.
«O uomini saggi, i miei concittadini vi scongiurano di correre in loro aiuto e di non permettere che una città tra le più antiche, cada in schiavitù di uomini barbari. Già abbiamo perso Eretria e quindi tutti noi ci siamo indeboliti!»
«O emerodromo[2] , manderemo di certo aiuti alla tua città ma non potremo farlo subito. Oggi è il nove del mese Carneo e dal sette al quindici di questo mese per noi, come tu sai, è vietato l’uso delle armi. Quando ci sarà il plenilunio, accorreremo.»
Tornai indietro e, dopo un intero giorno, riferii ai miei concittadini il risultato della mia ambasceria.
Le sorti della città e dell’intera regione erano nelle mani dell’esercito. Io e i miei concittadini ateniesi attendevamo, da un momento all'altro, notizie dello scontro con i Persiani.
Alte grida si alzarono dall'acropoli all'arrivo di un messaggero. Mi precipitai anch'io per avere notizie. Quando lo vidi, lo riconobbi: era un mio vecchio compagno d’arme. Si chiamava quasi come me Filippide. Ma non era un corridore. Era un oplita con l’armatura lacera e lo sguardo vitreo.
Riuscì solo a dire:
«Salve, abbiamo vinto!» e cadde morto.
E tutta la città lo pianse. Peccato che urlasse non il suo ma il mio nome. Non riuscivo a comprendere come i miei concittadini potessero pensare che uno come me che aveva percorso 1240 stadi in un giorno solo potesse morire per una corsa di 226 stadi e mezzo!
Il giorno dopo mi recai dall'arconte polemarco Callimaco per protestare.
Dal saggio “Gare olimpiche e olimpici qui pro quo” del giornalista sportivo gallese Robert Mass.[pp. 55-56] Innanzi tutto c’è da chiedersi quale sia il nome esatto di questo mitico corridore. Pausania, Plutarco e Luciano usano la forma Filippide, dalle versioni di Erodoto in loro possesso, mentre nella maggior parte dei manoscritti di Erodoto si presenta la forma Fidippide. Lo storico di Alicarnasso, il più vicino temporalmente alle Guerre Persiane ci racconta solo la storia dell’emerodromo Fidippide che partì da Atene per portare il messaggio di aiuto agli Spartani e che giunse a Sparta il giorno dopo, quindi si suppone entro le ventiquattrore dalla sua partenza, avendo percorso quindi circa 240 km di un percorso molto accidentato che collegava le due polis, un percorso arduo e faticoso, se si considera che gli Spartani in armi, partiti con il plenilunio, avrebbero impiegato tre giorni per arrivare ad affacciarsi sulla piana di Maratona. In tutti i casi, Erodoto non parla della morte di Fidippide stremato a causa di una corsa, e d'altra parte come sarebbe potuto accadere che un emerodromo, appositamente addestrato a questo, potesse morire a seguito di uno sforzo relativamente modesto? Ma allora su cosa si fonda il mito di Maratona?
È tutta colpa di quel mattacchione siriano del II sec. d.C. che si chiamava Luciano di Samosata, celebre, lo sottolineiamo, per i suoi scritti satirici. Narrò che lo stratega Milziade fronteggiò per tre giorni l’esercito persiano di Dario, senza attaccarlo. Poi, all'improvviso gli Ateniesi mossero all'attacco di corsa nella piana di Maratona e travolsero le file dei Persiani. Milziade ordinò a un soldato di nome Filippide di comunicare la notizia della vittoria ad Atene. Quando questi giunse alla città, ebbe solo la forza di dire: “Salve, abbiamo vinto!” e cadde morto.
Come è possibile che un emerodromo allenato potesse morire per esaurimento,dopo una corsa di appena trentaquattro chilometri (tanto misura, in effetti, la distanza che separa la piana di Maratona da Atene, senza gli arzigogoli voluti da De Coubertin)?
Salvo che non si voglia pensare che quel Fidippide delle Storie di Erodoto, dopo essere andato avanti e indietro tra Atene e Sparta sia ripartito per Maratona e infine sia corso di nuovo ad Atene per annunciare la vittoria. Si potrebbe immaginare che il collasso di Fidippide sia sopravvenuto perché aveva percorso più di 500 km in pochi giorni!
Il barone Pierre De Coubertin, che cercava di far rivivere il messaggio di pace legato alle antiche Olimpiadi, dopo i guasti prodotti dalla guerra franco-prussiana di due decenni prima, vide in questo falso mito di Luciano di Samosata l’emblema dello spirito libertario e pacifista e lo adottò per le prime Olimpiadi moderne del 1896 ad Atene.
(N.d.A.) Il percorso narrato da Fidippide ripercorre quello dell’odierno Spartathlon, una corsa che, dal 1983, rifacendosi al racconto di Erodoto, si tiene ogni anno tra Atene e Sparta in Grecia. Per la sua lunghezza di ben 246 km rientra nella categoria delle cosiddette ultramaratone.
All'inizio del racconto, fino al suo ritorno ad Atene, le città non sono citate con il loro nome ma identificate con situazioni mitologiche o storiche. In sequenza sono indicate Atene, Eleusi, Megara, Corinto, Nemea, Mantinea e Tegea.
Il monte delle ragazze citato nel racconto è il Monte Partenio (monte della vergine, in greco antico: Παρθένιο). È una montagna che confina con l'Arcadia e l'Argolide, nel Peloponneso in Grecia, alta 1.215 m. Qui dalla madre Auge che lo aveva partorito di nascosto, avendo violato i voti sacerdotali, venne esposto l'eroe greco Telefo e allattato da una cerva. Il mostro che Fidippide incontra è il dio Pan, come ci racconta Erodoto nelle sue Storie.
[1] atleta olimpionico che praticava uno sport più e meno simile al pugilato moderno, ma dalle regole molto diverse: si combatteva avvolgendo dei legacci di cuoio alle mani e permetteva anche l'uso dei piedi, dei gomiti e delle ginocchia.
[2] nell'antica Grecia l'emerodromo (ovvero "colui che corre per un giorno intero") era un messaggero addestrato a percorrere lunghe distanze in breve tempo, per recapitare dispacci importanti da una città all'altra muovendosi in completa autonomia.