Semifinale Maurizio Bertino

Partenza: 01/07/2020
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Spartaco
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Semifinale Maurizio Bertino

Messaggio#1 » domenica 26 luglio 2020, 2:16

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Accedono alla semifinale:

La lotta, di Zan.
I cazzi tuoi Adelmo, di Andrea Lauro.
Kami ni mamorareta ko, di Wladimiro Borchi


Gli autori avranno tempo fino alle 23.59 di lunedì 27 luglio per postare la versione revisionata del testo, qui sotto, con un bonus di 1333 battute.



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wladimiro.borchi
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Re: Semifinale Maurizio Bertino

Messaggio#2 » lunedì 27 luglio 2020, 13:12

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神に守られた子
Kami ni mamorareta ko



+30%
Quando Yusuke li vide in quel chioschetto sul lungomare di Rio non riusciva a credere ai propri occhi. Per la prima volta, da quando era sceso dall’aereo, si sentì come a casa e, per almeno cinque minuti, il buio che gli stringeva lo stomaco sembrò averlo abbandonato.
«Signore, scusi, possiamo fermarci a prendere degli onigiri
Marçelo, l’omone corpulento e calvo che li stava accompagnando dall’hotel al Marrocanaeinho Gymnasium, si voltò a fissarlo con aria interrogativa.
«Di cosa sta parlando, signore?» Usava un giapponese stentato, ma riusciva a farsi capire.
Yosuke ammiccò alla bancarella: «Degli onigiri, in vendita laggiù. Ho nostalgia di casa!»
Lo disse sorridendo, come se fosse vero solo a metà.
In realtà lì era tutto diverso dalla sua terra: le case erano piccole e fatiscenti. In alcune zone che avevano attraversato sul pullman, addirittura, c’erano baracche di lamiera coi tetti di foglie. Roba che nel suo Giappone non si vedeva dalla guerra. Solo gli alberghi erano giganteschi. Gli alberi stessi, la natura circostante era roba mai vista. E poi c’era quell’odore dolciastro dappertutto, che appena uscito dall’aeroporto gli aveva dato la nausea e a cui stentava ad abituarsi.
Marçelo fece piazza pulita, in un secondo, di tutte le sue aspettative: «Non sono onigiri, signore, ma focacce di farina di cocco, ripiene di formaggio. Qui le chiamiamo tapioca
Il suo attimo di felicità era rimandato ancora e il buio in fondo allo stomaco riprese il sopravvento.
E poi era caldo, un caldo insopportabile, novembre, in Brasile, sembrava agosto.


«Sei di nuovo andato a fare il bagno nel laghetto della Sig.ra Nakamura, non è vero Yosuke?»
La mamma lo fissava severa dalla soglia della loro casa di periferia.
I suoi vestiti erano ancora umidi e, anche a cinque anni, sapeva che negare l’evidenza avrebbe solo aumentato il peso della punizione.
Abbassò la testa: «Avevo caldo…»
Non era una scusa che poteva reggere. Se avesse davvero voluto fare solo un tuffo, il mare della baia era molto più vicino. Sentì il respiro della mamma che si strozzava. La guardò, scoprendo così, che stava trattenendo una risata.
Il cuore sembrò scoppiargli nel petto: era bellissimo quando mamma Yuka non era arrabbiata con lui.
«Facciamo pace.» disse allungando le braccia verso di lei.
Il sorriso della donna si accese ancor di più, nonostante avesse portato le mani in avanti per allontanarlo.
«Non pensarci nemmeno ad abbracciarmi così bagnato, furfantello! Siediti lì,» disse indicando la sedia in vimini sistemata accanto all’uscio «vado dentro a prenderti un onigiri».
Yusuke eseguì, con la salivazione che aumentava e il sole di agosto che gli accarezzava il viso.
Lungo la strada un camion militare carico di merci sollevò un polverone, che lo costrinse a chiudere gli occhi.
Quando li riaprì il sole era scomparso, coperto da un nuvolone nero e si era alzato un vento umido, che gli fece venire i pallini del freddo sulla pelle.
Sensei Jotaro, il suo maestro di judo, avrebbe detto che era un cattivo presagio.
Mamma ricomparve sulla soglia «Vieni in casa a cambiarti, sta arrivando un acquazzone! Mangerai più tardi».
Yusuke si alzò sbuffando e rientrò trattenendo ogni lamentela sulla sfortuna che lo perseguitava.


+69%
Alla fine era un bene non aver mangiato, altrimenti ora si sarebbe sentito ancora più in ansia.
«Categoria di peso?»
«Inferiore a 68 chili.»
Yusuke fissò l’arbitro davanti alla bilancia, che guardava la cartellina perplesso e spostava di continuo il piccolo peso sulla barra di metallo.
Possibile che abbia sforato? Ieri mi sono tenuto leggero e oggi non ho fatto nemmeno colazione!
Doveva avere sulla faccia un’espressione preoccupata, perché l’altro giudice al suo fianco, disse al collega qualcosa in portoghese.
Yusuke tratteneva il fiato.
Sapeva che il segreto, che aveva deciso di nascondere a tutti, gli avrebbe creato problemi, ma non credeva che i primi sarebbero arrivati ancora prima di cominciare.
Che ti sei inventato stavolta, mostro?
Per fortuna intervenne l’allenatore. «Scusa, ma il peso non è già inferiore?» domandò all’interprete, perché lo traducesse.
Sensei Akaito doveva averci visto giusto, perché i due risero nervosamente e si profusero in inchini e scuse, in quella loro lingua assurda che assomigliava tanto a una cantilena.


Gli onigiri di mamma Yuka erano i più buoni del mondo. Ci metteva solo riso e sale, senza carne o pesce. C’era la guerra. Ma erano i migliori che Yusuke avesse mai mangiato. Evidentemente, come diceva lei, “erano fatti di vero amore”.
Si era svegliato presto quella mattina, si era seduto davanti casa e ne aveva appena addentato uno, staccandone più della metà.
Il sole era sempre nascosto dietro alle nuvole, ma almeno il vento aveva smesso di soffiare.
La strada, fatta eccezione per qualche carretto di ortaggi diretto fuori città, era deserta, senza il solito via vai di mezzi militari.
«Andiamo a far volare la parrucca alla vecchia Nakamura?»
Suo cugino Shigeo era comparso al suo fianco. Aveva qualche anno più di lui e, spesso e volentieri, si divertiva a fargli i dispetti.
Proprio il giorno prima lo aveva fatto piangere gettandolo nel laghetto. Non si era fatto male, ma aveva avuto tanta paura che mamma si arrabbiasse.
«No, non ci vengo con te, Shigeo! Almeno fino a quando non mi chiedi scusa per ieri!» disse masticando.
«Stavo solo scherzando. Comunque ti chiedo perdono, se per te è tanto importante!»
Le scuse potevano andare, per cui infilò in bocca il resto della polpetta e si alzò dalla sedia.
«Mamma, vado in giro con Shigeo!» urlò dietro la porta spalancata.
«Non fare tardi per pranzo!»
La risposta si perse alle spalle dei due ragazzini che già correvano verso il secondo posto al mondo in cui Yusuke era felice dopo casa sua, il giardino delle meraviglie della Sig.ra Nakamura.



+119,7%
I quattro tatami su cui si sarebbe svolto il mondiale sembravano più grandi sotto la luce di quei grossi fari.
Ce l’aveva fatta! Di lì a poco avrebbe combattuto con atleti provenenti da tutto il mondo, rappresentando il suo paese.
Se solo pensava a tutti i sacrifici fatti per arrivare fino a lì, sentiva un groppo in fondo alla gola.
Peccato non avere una moglie da portare con sé: qualcuno che fosse orgoglioso della sua impresa. La vita era andata così: ma non poteva certo dirsi sfortunato. Anzi, essere in quella palestra gigantesca gli sembrava proprio il segno tangibile dell’amore dei suoi antenati.
Pensare che solo un mese prima stava seduto all’onigiri-ya del vecchio Dayu, a Tokio, deciso a invitare a cena fuori la piccola Eiko. Era da almeno un anno che cercava le parole giuste per farlo.
Era bellissima, longilinea, alta poco meno di lui, con gli occhi castani e i capelli lunghi neri. Insomma una donna troppo fantastica per chiunque, di quelle con cui non aveva mai avuto il coraggio di parlare.
Con lei, invece, era stato diverso. Da quando l’aveva servito la prima volta al tavolo era subito nata una grande complicità. Non aveva paura a parlare e lei rideva alle sue battute e rispondeva a tono.
Stava proprio per invitarla, quella sera di inizio ottobre, ma poi erano entrati alcuni ragazzi del suo dojo e non ne aveva più avuto il coraggio.
Yusuke tentò di allontanare il ricordo e di trovare la giusta concentrazione per la gara, ma una fitta allo sterno lo piegò in due. Si guardò intorno, massaggiandosi sotto il judoji. Non lo aveva visto nessuno. Fece forza sulle gambe per rimettersi in piedi, le ginocchia sembravano di burro. Contò fino a tre nella testa e spinse di nuovo: era riuscito ad alzarsi e i suoi compagni non avevano notato niente.
Allora pensò ancora alla piccola Eiko a come, alla fine, fosse stato un bene non coinvolgerla.
Forse le storie più belle sono proprio quelle che non iniziano, perché le puoi custodire nel tuo cuore e immaginarle proprio come piacciono a te.
Sentì le lacrime bussargli da dietro gli occhi e le ricacciò indietro con un lungo respiro.


I due cuginetti si erano rincorsi e fatti dispetti per quasi un’ora, prima di arrivare a destinazione. Il giardino della Sig.ra Nakamura era fuori città, circondato da un folto bosco di salici.
Il basso steccato di bambù che lo circondava non era un limite invalicabile. Era più lì per segnare un confine, che per impedire l’accesso agli estranei.
La proprietaria, la più ricca vedova della piana, faceva la burbera coi monelli che andavano a giocarci senza mostrare il minimo rispetto per la sua proprietà, ma Yusuke era convinto che, in fondo in fondo, le facesse piacere avere qualcuno che le gironzolasse attorno.
Uno dei giochi preferiti dal cugino era quello di farsi rincorrere dalla donna, fino a quando non le cadeva la ridicola parrucca nera, che le copriva i pochi capelli rimasti.
Yusuke, invece, amava il laghetto in cui nuotavano le carpe. Poteva rimanere delle ore a fissarle mentre si muovevano da una parte all’altra, rispedendo al sole i bagliori con le scaglie colorate.
Era seduto coi piedi nell’acqua quando sentì il rumore degli aerei.
«Mi sto annoiando, andiamo a farci scoprire dalla parruccona!»
«Aspetta, guarda!» Yusuke si alzò in piedi e indicò le sagome vibranti dei velivoli che li sormontavano, attraversando la porzione di cielo lasciata libera dalle creste degli alberi.
«Va bene, ci sono due aeroplani. E allora?»
Shigeo lo tirava per la maglietta, ma lui restò a fissarli fino a quando non scomparvero, lasciandosi dietro solo una scia bianca che iniziava a dissolversi.
«Smettila di sbatacchiarmi! A scuola ci hanno detto di chiudere gli occhi e di tapparci le orecchie, quando cadono le bombe.»
«Allora fallo, che aspetti!»
Yusuke eseguì e nel nero silenzioso, sentì il cugino che lo spingeva nel laghetto.
Saltò appena in tempo per non sbattere le ginocchia nelle pietre che ne circondavano la sponda.
Mentre volava sentì la voce del suo aguzzino che lo prendeva in giro «Ci caschi sempre!» e il cielo si accese di un bagliore candido.
Shigeo l’aveva fregato ancora una volta, stavolta mamma si sarebbe davvero arrabbiata.
Toccò l’acqua gelida con un tonfo e dovette raccogliere le gambe al petto per non sbatterle troppo forte.
Mentre galleggiava sul fondo, sentì il rumore di un tuono lontano e vide il pelo dell’acqua che si frastagliava di onde. Poi il cielo divenne nero.



+185,61%
Sensei Akaito l’aveva chiamato perché riprendesse il riscaldamento prima della nuova gara, ma Yosuke gli aveva chiesto ancora qualche minuto per veder combattere il suo avversario successivo.
Oleg Stepanov, un sovietico davvero ben piazzato, nonostante i 65 kilogrammi di peso. Una specie di cubo ambulante, che tendeva ad agguantare l’avversario e a tenerlo quasi a contatto, per dominarne i movimenti.
Aveva uno stile diametralmente opposto al suo.
Ci ragionò un po’. L’unico modo per vincere con quel russo era non lasciarsi acchiappare. Bisognava riuscire a proiettarlo non appena si appoggiavano le mani al Jūdōgi.
Doveva usare tecniche di gambe: un harai goshi poteva essere efficace, o anche un banalissimo o soto gari.
L’importante era rimanere frontale: se Oleg riusciva a fare tai sabaki e a darti le spalle, dopo che ti aveva agguantato, era finita.
Il coreano che gli era appena passato fra le mani ne sapeva qualcosa.
Yosuke si voltò verso l’allenatore, che lo fissava con aria scocciata, mentre i suoi compagni di squadra stavano ultimando il riscaldamento.
Lo salutò con un inchino e entrò con loro sul tatami.
Come era cambiato il judo negli anni! La parte agonistica aveva preso il sopravvento su quella tradizionale. Un tempo si combatteva per dimostrare chi era il più bravo. Ora, con la tattica giusta, anche il peggiore poteva vincere.
Era sempre merito della “strategia” se era riuscito a essere lì. Era bastato omettere qualche verità scomoda.
Quando la cattiva sorte aveva bussato alla sua porta, il mondo gli era crollato addosso, ma aveva deciso di non rinunciare comunque alla sua ultima possibilità di combattere in un mondiale.
La sfortuna era un avversario forte, il migliore sul tappeto, e per batterlo non bastava la tecnica, bisognava illuderlo di aver vinto, prima di affondare il colpo.
Fino a quel momento, era andato tutto per il meglio.


Yusuke rimase sul fondo del laghetto spaventato fino a quando non iniziò a fargli male il torace per il bisogno di respirare.
Quando riemerse l’aria era carica di sabbia e terra, come se si fosse alzato un polverone enorme. Shigeo era sdraiato, con i vestiti pieni di tagli.
I salici attorno erano tutti piegati verso casa della Sig.ra Nakamura.
C’era un silenzio che sembrava finto, come se qualcuno avesse spento l’interruttore di tutti i rumori.
«Che è successo, Shigeo? È scoppiata una bomba?»
«Il cielo si è infuocato e un vento caldo mi ha sbattuto per terra.»
Yosuke lo aiutò ad alzarsi.
«Mi fa male la testa, mi fischiano le orecchie!»
Il cugino lo ripeteva come una filastrocca.
«Non ci pensare, forza, sbrigati, dobbiamo andare a vedere cos’è successo in città. La mamma...»
Il solo pensiero che potesse esserle successo qualcosa di brutto, gli fece venire voglia di piangere.
Ricacciò dentro le lacrime e si mise in cammino verso Hiroshima, tirandosi dietro il ferito.
«Mamma! Mamma!»
Lo gridava all’aria piena di terra che gli seccava la gola.
«Mamma!»
Lo gridava al fumo in lontananza. Quello che sembrava venire dal fuoco di un milione di bombe scoppiate al centro della città.
Intanto tutto diventava sempre più scuro, come se una nebbia nera stesse avvolgendo il mondo.
Dalla fuliggine che vorticava nell’aria, di quando in quando, uscivano “mostri”.
Camminavano come fantasmi: tenevano le braccia in avanti mentre la pelle cadeva a brandelli. Avevano addosso solo lembi di vestiti bruciati, erano così sfigurati, gonfi e ustionati da non sembrare nemmeno persone. Alcuni avevano i capelli dritti sulla testa, erano quasi nudi, con i corpi così malridotti che non si capiva se fossero uomini o donne.
«Mamma! Mamma!»
Il gruppo li oltrepassò senza nemmeno guardarli, mentre il groppo alla gola di Yosuke diventava un nodo di disperazione che sembrava volerlo soffocare.
«Mamma!»
Il grido stavolta gli uscì strozzato.
D’un tratto, dal fumo nero uscì Sensei Jotaro. Il suo vestito era malridotto, ma era ancora riconoscibile. Procedeva barcollando e con gli occhi spalancati, ma non aveva ferite né bruciature.
Come il maestro lo riconobbe, lo afferrò per le spalle, scuotendolo.
«Dove vai, Yosuke? Non c’è più niente laggiù!»
Il ragazzo aveva la vista annebbiata da un velo umido. In uno spasmo di rabbia, tentò di divincolarsi da quelle mani che sembravano volerlo bloccare. «Mamma!» gridò, mentre gli occhi gli esplodevano di lacrime.
Lo schiaffo lo colpì in pieno volto. Il suo sguardo si fissò in quello dell’uomo.
«Devi diventare grande in fretta, deshi! Andiamo a cercare un posto in cui occuparci delle ferite del tuo amico.»
La violenza del colpo ricevuto, seguito dalla parola “discepolo”, gli ricordò il suo ruolo e il rispetto che doveva anche in quella situazione. Si voltò verso il cugino ferito, ingoiò l’ultimo singhiozzo e gli infilò la mano aperta nell’incavo della spalla per sostenerlo.



+271,239%
Yusuke aveva battuto il russo con facilità.
Adesso era il turno dello yankee. Un ragazzetto coi capelli a spazzola e un paio di lunghi baffi.
Ce la poteva fare. L’aveva visto combattere ed era davvero troppo rigido sulle gambe: tani otoshi o un’altra tecnica di sacrificio sarebbe stata perfetta per sfruttare quella debolezza.
Bastava scivolargli alle spalle e sfruttare il proprio peso, per trascinarselo dietro e fargli fare una bella buca a terra.
Ancora non ci credeva, ma era arrivato sul tatami della semifinale.
Non gli importava vincere, gli importava esserci, realizzare quel sogno, covato fin da piccolo, quando la guerra gli aveva sconvolto la vita.
Dove era nato lo chiamavano "Kami ni mamorareta ko", “protetto da Dio”, perché la bomba che aveva spazzato via Hiroshima, la sua famiglia e tutti quelli che conosceva, non l’aveva nemmeno sfiorato.
Beh, vero solo in parte…
Erano passati venti anni da allora.
«L’atomica è vigliacca!» gli aveva detto Sensei Jataro quando, cinque anni prima, gli era morto tra le braccia, dopo averlo cresciuto come un padre.
Tumore del sangue: fattore di crescita del trenta percento.
Aveva ragione il maestro!
Il veleno della bomba agiva con calma, ma prima o poi veniva a presentarti il conto!
Lui, però, era lì, pronto a vincere o anche soltanto a fare del proprio meglio.
Alla fine l’importante è partecipare!
Sentì il torace che quasi si contorceva e la tosse salire alla bocca. Se la tappò con la mano e la vide coprirsi di rosso.
L’arbitro gli fece cenno di portarsi sul tatami.
Pulì il palmo dentro al judoji e salì sul tappeto di gara.
«Rei»
Saluto.
«Rei»
Saluto all’avversario.
«HAJIMEEEEE!»

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Andrea Lauro
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Re: Semifinale Maurizio Bertino

Messaggio#3 » lunedì 27 luglio 2020, 17:51

I cazzi tuoi, Adelmo

Preambolo per la situazione di merda.
Facciamo che mi chiamo Adelmo. Un nome altisonante, di qualcuno che un giorno farà qualcosa di importante. La gente si inventa queste stronzate, dare ai figli dei nomi di classe e sperare che basti a rendere il futuro migliore.
Beh, io non sono diventato migliore. Non sono nessuno e questo va ricordato.
L’unica cosa che sono bravo a fare? I cazzi miei.

Via Oberdan, la palestra.
Caio dice di avere un lavoretto facile facile, sto andando da lui.
Caio si allena in via Oberdan, un buco nelle fondamenta di un condominio. Ci vuol coraggio a chiamarla palestra, diciamo piuttosto un ritrovo per disgraziati: disgraziati che staccano da un turno massacrante in fabbrica e hanno voglia di menare le mani.
La porta cederà e mi cadrà addosso, una volta o l’altra. La volta non è questa. Dentro, il puzzo di ascelle ti ubriaca: non ho idea del perché le palestre di merda stiano sotto tonnellate di cemento e senza ricambi d’aria.
Che si fa in queste situazioni? Metti che sali su un tram e il tizio vicino a te ha appena munto una pecora. Ti concentri e mandi la mente affanculo altrove, come fanno i monaci Shaolin di stocazzo. Stronzate. La zaffata persiste e ti riporta giù in quello scantinato.
Colpi sui sacchi, corde che schiaffano il terreno tra un salto e l’altro, grugniti. Eccolo, Caio: saltella sul ring e studia l’amichetto di sparring, il coach si tiene alla corda e sbraita, si incazza e muove la mano. Vorrebbe entrare lui, a dare una mossa al teatrino da film muto che sta guardando.
Caio è convinto di fare le Olimpiadi a Montreal, tra due anni. Quel coglione, andare in Canada a ghiacciarsi il culo. Non credo ci andrà: l’ho vista, la sua ferocia. Ci sono quelli che combattono per vincere, e ci sono quelli che combattono per poter azzoppare il prossimo. Lui è uno di loro.
«Sotto col jab, sotto!» grida il coach incazzato. «Cos’è, l’hai appena conosciuto? Ci vuoi scopare?»
Caio incassa, finta e poi entra col jab. Merda, l’altro finisce a terra, gli è andato addosso un muro.
Chissà perché Caio non combatte nei club clandestini. Farebbe soldi a palate, se solo ascoltasse i bookmaker e mandasse al tappeto quando glielo dicono. E invece continua a tentare la strada pulita. Sarà legato a questa storia delle Olimpiadi, vorrà mantenere l’etica di un atleta. Ed è un peccato, perché la sua testa pensa come una vera macchina da pugni.
Resta il fatto che non sono cazzi miei. Il bello, nelle cose che faccio, è che tengo un profilo basso. Minimo coinvolgimento, massima resa. Per Caio non è così, lui ci mette la faccia e spesso ci casca, in questo vaso di merda.
Gira intorno all’avversario, lo aiuta, alza la testa e mi vede. Il paradenti mi sorride.
Una volta ha staccato a morsi l’orecchio all’avversario. Chi lo farebbe? Se vuoi rimanere nel giro eviti le stronzate. Il bello è che nemmeno lo ha fatto sul ring. No, ha aspettato che il tizio tornasse in spogliatoio, dopo l’incontro. Ha aspettato che uscissero tutti e lo lasciassero solo. È entrato, l’altro riposava a faccia in giù sul lettino. Cazzo, gli ha tenuto ferma la testa e glielo ha mangiato. Fottuto animale.
«Adelmo!» Passa sotto le corde, scende.
Eccolo, gli faccio.
Il coach gli si piazza davanti, un mastino a due zampe che arriva alla cintura. «Ehi, Montreal, dove pensi di andare?»
Lo prende pure per il culo.
«Oggi stacco, coach
«Stacchi quando lo dico io.» Gli mette la mano sul petto. Ragazzi, per un gesto così devi avere pelo sullo stomaco. Gente come il mastino ce l’ha.
Il bisonte prova a spingere, il piccoletto insiste con lo sfottò. «È così che ti alleni, gioia? E dimmi un po’, che programma segui? Il metodo scritto di pugno da De Coubertin?»
«Chi?» chiede Caio.
Chi, faccio io.
Lui si volta e mi squadra, ho pisciato fuori dal secchio e non lo dovevo fare. Congiungo indice e pollice e li passo in orizzontale, sulla bocca. Ho tirato la zip, finisci pure il predicozzo.
Ma deve aver capito che non ha davanti due sapientoni che traboccano di scienza, perché scuote la testa, toglie la mano dal campione e lo manda affanculo. Chi stava a guardare torna a saltare, torna a picchiare, insomma torna a farsi i cazzi propri.
È un buon insegnamento.

Sempre via Oberdan, lo spogliatoio della palestra.
A Brescia esistono poche palestre di merda come questa. E fra tutte, lo spogliatoio peggiore sta in via Oberdan.
Caio ha calpestato una pozza e anch’io ci son finito dentro. Che sia piscio o acqua poco importa, il tanfo della palestra è niente a confronto. Mi pizzico il naso tra indice e pollice: un attimo e mi ci abituo, giuro.
Sulla nuca di Caio corre un cerotto. Si è tolto i guantoni, apre le mani bendate al soffitto di cemento e mi spiega il concetto.
«Fafile fafile.» Si volta e fa una cazzo di espressione da invasato. Un paziente psichiatrico che ha capito una battuta.
Togli il paradenti, gli dico.
Se lo sputa in mano. «Facile facile. Così tanto che nemmeno te lo immagini.»
Ora, ci sarà un motivo se un coglione come lui trova un lavoretto. Non vedo alternative: sarà un lavoro di merda. Non glielo dico ma lo penso, lo penso eccome.
Sentiamo, gli dico.
«Una consegna. Martedì mattina. Ritiriamo, ci spostiamo e consegnamo.»
Detta così, tutto sembra facile. Ma il diavolo va a pisciare nei dettagli. Mio nonno, pace all’anima sua, faceva il predicatore a tempo perso. Mi si avvicinava col dito puntato: Adelmo, i cazzi tuoi, aggiungeva. E così ho fatto.
Caio mi dice quanta grana c’è in ballo: troppa. La storia puzza sempre di più, siamo in un letamaio.
Non so, gli dico. Com’è che li hai trovati, questi tizi?
«Si sono fatti vivi loro. Gliel’ha detto l’Arturo, che avevo bisogno di soldi.»
Solita storia, gentaglia che conosce altra gentaglia.
Rifletti, gli dico. Non ti conoscono, e ti offrono una consegna. Non mi fiderei.
«Ma io ho bisogno di quei soldi. Devo allenarmi.»
È davvero convinto di andare a Montreal.
Sospiro. Va bene, che devo fare?
Ha aperto l’armadietto. Tira fuori la borsa e la butta sulla panca, si mette a frugare. «Tu mi accompagni. Tu sei esperto in questi traffici, no?» Quando dice “esperto” calca sulla esse e si guarda intorno. Metti che ci siano delle spie naziste nascoste nel tubo della doccia.
Mi gratto la nuca. «Diciamo che mi faccio i cazzi miei.» Riposa in pace, nonno.
Trova il sapone e l’asciugamano, rimette via la borsa e sbatte lo sportello. Sul muro dietro, qualcuno ha disegnato la doppia ascia e una scritta, Ordine Nuovo. Qualcun altro ha fatto un’aggiunta, “succhia i cazzi”.
Stronzate che trovi ovunque, in questi anni di merda. Neri, rossi, mi fanno tutti schifo. Con i loro atti insulsi di rappresaglie e violenza. Mi chiedo se Caio faccia parte di qualcosa. No è troppo stupido.
La gente stupida non va bene. Fa casino, è un fanatismo senza cervello che nessuno vorrebbe dalla propria parte. Caio sta nel mezzo come tanti altri, come me. Con la differenza che ho del sale, nella zucca. Mi faccio la mia vita.
«Adelmo.»
Dimmi.
«Tu l’hai capito chi è De Coubertin?»
Che cazzo ne so.

Via San Faustino.
Camminiamo sotto un cielo di piombo. Altro che fine maggio, cazzo, su via San Faustino è sceso l’autunno. Non ci sono più le mezze e via dicendo.
Caio c’ha sta camminata che proprio non ci siamo. La brutta copia di un gangster da pellicola anni cinquanta. Sarebbe dovuto rimanere a casa.
Lascia fare a me che poi dividiamo, gli ho detto.
Niente da fare. Non è che non si fidi, il fatto è che gli piace l’idea di fare il duro. Sei un fottuto treno di pugni sul ring e pensi di portare l’esperienza in strada. Faglielo capire, che non è lo stesso match. Non è nemmeno lo stesso sport, cazzo.
La chiesa di San Faustino mi osserva, mi dice vacci piano. Non sono credente, ma hai visto mai. Però odio i cattolici convinti, nei miei traffici li evito come la peste. Ci ho avuto a che fare e per me è stato abbastanza. Ragazzi, le cose che non ti chiedono. Quando vedo che c’è di mezzo Dio, getto la spugna.
Comincio a farmi un’idea del perché lo scambio avvenga oggi. C’è una manifestazione importante, in piazza Loggia, dicono che saranno presenti pure un paio di Onorevoli. Se devi smerciare qualcosa, scegli la folla. I polotti ci sono, certo, ma non sanno cosa cercare, c’è troppa gente, tengono d’occhio tutto e niente. Dieci a uno che si va in piazza Loggia.
Caio svolta in un vicolo, la puzza di pesce ci investe. Infilo le mani nel giubbotto.
Bussa alla porta, un mosaico di schegge che sta in piedi per miracolo. Cigolio di chiavistello, si apre uno spiraglio; Caio annuisce a qualcuno che sta dentro. Lo spiraglio diventa un rettangolo nero.
Caio mi manda un cenno. «Vieni.»
Incasso la testa nel colletto, lo seguo. La porta mi si chiude contro il piede.
Ma che cazzo, dico.
«Lui chi è?» sento.
«Uno dritto», risponde Caio.
Si può dire “uno dritto”? Restiamo nel film anni cinquanta, il magico mondo di Caio. La porta allenta la presa sulla scarpa, mi infilo.
Una scala si arrampica al primo piano, ma il tizio ha voglia di tenerci in quell’ingresso, nella semioscurità. Baffetti, capelli corti, un giubbotto di pelle.
Le palle mi si fanno piccole. Non so in che pasticcio si sta cacciando il mio socio, ma sarà bene uscirne in fretta. La mano esce dall’ombra, il tizio ci allunga una borsa. Il giubbotto puzza di sigaretta, l’odore è forte. Quando te la fai sotto, i sensi sono all’erta.
Che c’è nella borsa, chiedo.
«Non sono cazzi tuoi.» Accento veneto, direi. Non saprei dire da quale zona, quelli si esprimono tutti uguale. Un po’ come se mi dicessero che parlo bergamasco. Puoi incazzarti, certo. Ma visti da fuori, bresciani e bergamaschi hanno la stessa fottuta parlata.
Cosa ci fanno se ci beccano, chiedo.
«Non vi beccano. Andate in piazza Loggia, trovate i comunisti che se la cantano e se la suonano. Cercate il lampione vicino alla statua. Alle dieci meno un quarto, un tipo vi chiederà la strada per la stazione. Dategli la borsa.»
Di solito non faccio domande, in fondo è una filosofia di vita. Questo perché sono abituato a sapere con chi tratto. Qui invece non si sa un cazzo, il mio socio sa ancora meno e la faccenda mi stona di brutto.
Cosa c’entrano i comunisti, chiedo. Chi è il tipo che andiamo a incontrare, un comunista ricercato?
Domani ripenserò a questa domanda idiota.
Scopre gli incisivi sotto quei baffetti del cazzo. «Non c’entrano niente i comunisti. Cos’è, hai paura dei comunisti?»
Non ci voglio avere a che fare, rispondo.
Il giubbotto si sposta e arriva un’altra ondata di tabacco. «E tu non c’avrai a che fare.»
Caio si tortura le mani. Mi lascia parlare ma è agitato, tira su col naso.
Sollevo la borsa, la soppeso. Droga, forse. Un’arma. Non si capisce.
Penso a Caio e mi chiedo se non sia meglio mollare. In fondo è una buona anima, mi spiace che si sia fatto tirare in mezzo.
Baffetto pesca dal giubbotto una mazzetta, gliela dà. Caio la prende e fa una faccia da ebete. Si mette a contarli, il novellino. Nel mio lavoro, impari a pesare i soldi con un’occhiata.
Finisce di spulciarli. Spinge fuori le labbra, aggrotta la fronte. «Dove sono gli altri?»
Baffetto alza un sopracciglio, come a dire un’ovvietà. «Cinquanta ora, cinquanta alla consegna?»
Caio stringe gli occhi. «Ma io li voglio adesso.»
«Certo, come no. Vattene, bestione, fuori dai coglioni.»
In un attimo realizzo: questa storia è una porcata. L’organizzazione fa cagare, Baffetto sa di pericoloso. E Caio è il meno adatto per questo lavoro.
Non puoi fare domande simili. Soprattutto, non prendi gli insulti sul personale. È il gioco delle parti, perdio. Sto per dire che l’affare è saltato, che si cerchino qualcun altro. Senza saperlo, è probabile che io stia per evitare una strage.
Il pugno di Caio mi passa davanti agli occhi e giuro, l’aria si sposta. Baffetto rimbalza sul muro e va giù, secco.
Gesù, che cazzo hai fatto?
Caio non risponde, dilata e contrae le narici.
Che cazzo era quello?
Mi guarda. «Ma lui mi ha… mi ha detto—»
Andiamo, gli dico. Ce li hai i soldi?
Li strizza nella sinistra.
Prendo la borsa.
Usciamo e mi tiro dietro la porta.
Di male in peggio, Adelmo, di male in peggio.

Piazza Loggia.
Il cielo sta pisciando.
Il cielo è un vecchio che si tiene l’uccello con mano malferma, il getto saltella e tutta ‘sta gente si copre la testa con ciò che ha. Il lastricato è lucido, slitto se non sto attento.
«C’ho caga, Adelmo.»
Potevi pensarci prima di mandarlo al tappeto.
«Andiamo via.» I suoi occhi implorano.
Se ci tiriamo indietro, gli dico, ci verranno a cercare. E ci faranno il culo, stanne certo.
La maniglia della borsa scivola avanti e indietro nella mano, ci imbuchiamo nella folla. Sotto gli ombrelli è facile nascondersi allo sguardo dei polotti. Anche se Caio svetta come la Madonnina di Milano. Saranno pure cazzi suoi e di sua madre che l’ha partorito con quel bel testone. Povera donna. Deve essergli rimasto metà fuori e metà dentro per troppo, sennò non sarebbe così stupido.
Allungo la mano davanti gli occhi, la manica scivola indietro. Nove e trentacinque.
«Che facciamo, Adelmo?»
Buono, sta’ buono e guarda il palco.
Alzo la testa e butto un occhio alla statua, al lampione della consegna.
Dio quanta gente. Comunisti e sindacalisti. Non quelli che stanno a casa e escono solo per votare: questi non si fanno i cazzi loro. Vedo cartelli, ce l’hanno con quegli altri stronzi dei fasci. E in tutto questo, entrambe le parti prosperano. Si accoltellano, giocano a farsi saltare in aria.
È una fottuta legge del branco. Prendi una posizione, il resto vien da sé: di qua gli alleati, di là quelli da ammazzare. E allora penso, si ammazzino pure. Rossi, neri, ultravioletti del cazzo. Si trovino in un campo, si facciano a fette, vince l’ultimo che resta in piedi. A me e al mio socio, qui, interessa solo di consegnare.
Prendere la grana e levarci dai coglioni.
Sollevo la mano, nove e quarantatrè. Andiamo, gli faccio, è ora.
Arrivo al lampione.
Le nove e quarantacinque. Caio pesta i piedi.
Le nove e cinquanta. Il tizio non viene, dico.
Mi guardo intorno. La maniglia scivola, cambio mano.
«Dove è, Adelmo?»
Non lo so, rispondo. Cazzo, non lo so.
Ancora cinque minuti, non uno di più. La lascio qui, ‘sta borsa di merda. Si fottano tutti: il tizio coi baffetti, le brigate rosse, gli ordinovisti, i cattolici e l’Italia tutta.
Mi volto. Sulla campana, le statue dei Macc de le Ure mi guardano e ridono. Adelmo, ti guardiamo da quando sei nato, ora lasciatelo dire: sembri un coglione.
Le voci agli altoparlanti si incazzano, parlano di democrazia e libertà violate. La folla attorno a me risponde.
Una voce alle mia spalle. «La strada per la stazione, per favore.»
Caio si volta, io no. Non voglio vederlo. Poggio la borsa, mollo la maniglia. Nella mano aperta mi allunga la busta. Intasco.
Andiamo, Caio.
Navighiamo in quella folla adorante votata alla falce e martello. Mi faccio strada tra gli ombrelli.
«Hai la grana?» chiede Caio.
Tranquillo, gli dico. Passiamo di qua, stiamo coperti.
Meglio allungare il giro, prima di uscire dalla marmaglia. Confondiamoci, scegliamo la via lunga. Avrò pure imparato qualcosa, in tutti questi anni.
Sollevo la mano. Dieci e cinque. Bene, nessun polotto si è avvicinato.
Andiamo, Caio.
Passiamo sotto l’altoparlante. Una voce forte, chiara. «Eppure, il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che coi suoi lugubri proclami...»
Ecco, siamo fuori.
Imbocco l’androne verso piazza Vittoria.
Ce l’abbiamo fatta.
La voce al microfono arriva che sembra ovattata.
«A Milano...»
E l’aria rimane immobile per un istante, appesa a quelle due parole.
Ed ecco che scoppia il casino infernale.

Uscita di scena.
Non ho mai saputo cosa ci fosse in quella borsa, preferisco non pensarci.
Ma non pensarci è difficile, allora ipotizzo che contenesse merce di contrabbando, documenti falsi, roba del genere insomma. Roba che il tizio è riuscito a portare via prima della strage.

Caio si è ammazzato. Non era fatto per questo genere di lavoro. Avrebbe dovuto continuare con l’allenamento e basta. A Montreal non ci sarebbe andato comunque, ma almeno sarebbe vivo.
Non provo rimorsi, nemmeno da lontano. Se ti dicono di fare un lavoro, tu lo fai e basta. Se non sai nulla, se ti fai i cazzi tuoi, non puoi avere rimorsi, è matematico. Ciò che non sai, non ti uccide.

Caio si è buttato dal tetto del condominio di via Oberdan. Sì, quello della palestra, per intenderci. Quando l’hanno trovato, aveva le mani legate dietro la schiena, un suicidio abbastanza singolare, se mi è permesso. Forse era salito in bilico sul cornicione, e aspettava la fottuta folata di vento del destino. Quando cadi, volente o nolente, cerchi un appiglio. Forse Caio se le era legate perché voleva evitare questo gesto istintivo. Nobile da parte sua, un po’ come i giapponesi quando decidono di sbudellarsi: si tengono vicino il tizio con la lama. Si sa mai.
O forse è andata come dicono i polotti: che qualcuno ce lo ha buttato, da quel balcone. È una versione che mi interessa tanto quanto l’altra, cioè zero.

Sono vivo. Non penso che Caio abbia mai fatto il mio nome, se è vero che sono andati a trovarlo prima che saltasse.
A pensarci bene, nulla vieta di pensare che io abbia fatto il suo. Ma è un punto sul quale non intendo esprimermi: il giorno in cui verrà fatta chiarezza su tutta la vicenda, con un po’ di fortuna sarò morto e sepolto.

Mi piacerebbe dare un messaggio a quelli che continuano a chiedere spiegazioni. Quelli che vorrebbero saperne di più, quelli per cui “non è ben chiaro”. Beh, il mio messaggio è che allora non han capito un cazzo. Non è che nuove domande portano per forza a nuove risposte.
Provino a guardarla da un altro punto di vista: i troppi perché ti fanno impazzire. Fottitene delle risposte, non è difficile: la gente lo fa ogni giorno per le stronzate. Devi solo applicarlo anche alle cose che ritieni grandi. È un buon modo per restare vivi.

E quando ogni altra cosa è stata detta, aggiungo un pensiero che mi preme, qui, dritto nelle budella.
Mi sono sempre fatto i cazzi miei.

zan
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Re: Semifinale Maurizio Bertino

Messaggio#4 » lunedì 27 luglio 2020, 20:09

LA LOTTA

Le casse del pc emisero un piccolo crepitio d’accensione.
“Il colloquio avrà inizio tra – 15 – minuti.”
Mi richiusi la porta alle spalle, lasciando tornare il buio nello studio. Solo la luce dello schermo si riversava sulla scrivania immacolata, facendo brillare un vasetto sgargiante con un finto cactus e un paio di poster motivazionali appesi poco più lontano, su una parete color pastello. L’area visibile alla webcam era recintata da un perimetro di nastro da pacchi: oltre quel recinto, il resto della mia vita si ammonticchiava sul pavimento, aggrovigliata tra i cavi dell’illuminazione professionale, degli speaker e del microfono.
“Si prega di assicurarsi che la visibilità sia ottimale e l’ambiente adeguato.”
Nell’ombra, mi voltai verso lo specchio appeso dietro la porta e tirai un lieve sospiro. Scrutai il mio stesso aspetto, cercai di giudicarlo con occhi esterni, e infine provai ancora una volta l’espressione che avrei dovuto tenere davanti al computer, il sorriso da perfetta candidata.
Piccole rughe si raccolsero agli angoli della bocca, rovinando tutto. Smisi di sorridere.
“Si consiglia di utilizzare illuminazione artificiale e di evitare oggetti estranei nell’inquadratura:”
Conoscevo quella tiritera a memoria.
Cattiva illuminazione e un ambiente poco professionale…
“… possono compromettere le possibilità del candidato, indipendentemente dalle sue capacità professionali.”
Come se non fossero la mia età, il mio cinese scadente, la crisi economica, o l’arrivo della trentaduesima – o trentatreesima? – pandemia di Sars a compromettere le mie possibilità. Ormai non avevo più nessuna speranza di uscirne: il mio lavoro era diventato cercare un lavoro. Chissà se sarei mai riuscita almeno a ripagare il costo dell’attrezzatura da ripresa.
Il computer continuò a recitare le sue raccomandazioni, mentre dallo specchio mi avviavo verso la scrivania. Accesi i fari da studio, che lavarono via la penombra dall’angolo delle riprese, e ancora abbagliata mossi un passo verso la luce.
I miei piedi urtarono qualcosa, facendomi perdere l’equilibrio.
Sentii il rumore di libri e cartacce rotolare sul pavimento, mentre tentavo malamente di restare in piedi, e mi aggrappai al fusto sottile del faretto più vicino, che si lasciò trascinare avanti, ma mi aiutò a non cadere.
Appena ripresi l’equilibrio vidi il disastro che avevo combinato: c’erano fogli e libri sparsi ovunque, e avevo trascinato in mezzo alla stanza tutti i fari, tanto che uno, tirato dal groviglio di cavi, si era completamente girato verso di me, abbagliandomi di nuovo.
La mia goffaggine mi irritò, e mista alla tensione e alla paura del colloquio imminente, esplose. Ebbi la tentazione irrefrenabile di prendere a calci il resto dei libri, gridare e andarmene sbattendo la porta, ma riuscii a controllarmi. Respirai a fondo. Mi chinai, lentamente, a raccogliere tutto.
Va tutto bene. Sono solo inciampata, niente di grave! È tutto sotto controllo. Non è successo niente.
“Il colloquio avrà inizio tra – 10 – minuti.”
Raccattai i libri e i fogli. Li spinsi fuori dal recinto, dentro una pila di vestiti che li respinsero, come se volessero fare il possibile per irritarmi a loro volta. Fatto ciò, con un gesto della mano spazzai via gli ultimi brandelli di carta, ma uno si infilò sotto il nastro adesivo, incastrandosi. Lo strappai fuori.
“Il colloquio sta per iniziare!” intervenne il computer, con una voce più amichevole, senza che io gli prestassi alcuna attenzione. “Assicurati di essere ben visibile nell’inquadratura e di non avere nessun problema software o hardware.”
Non si trattava del solito post-it o di un appunto scivolato da qualche manuale. Aveva la superficie liscia di una fotografia.
“Hai testato il sistema audio, per esempio? Se hai qualche problema, premi il pulsante AIUTO e risolveremo tutto per te.”
Avevo ancora delle fotografie analogiche in casa?
Le gettai un’occhiata. Era una vecchia istantanea dai colori sbiaditi, che riconobbi in un istante.

Dalla foto si affacciavano diversi volti, tutti sorridenti sotto le mascherine chirurgiche e gli inutili visori di plastica che decenni prima si usavano per proteggersi dalla Sars.
Com’ero giovane. E com’era giovane lei…
Sullo sfondo si scorgeva l’immenso stadio di Felcsút. Persino nella foto era evidente lo stato pietoso in cui versava, così come la desolazione del paesino da cui prendeva il nome: niente di più che un grumo di case, abbandonate nella campagna ungherese.
Il giorno in cui eravamo arrivate era stato memorabile. Avevamo viaggiato per una settimana e attraversato a piedi, di notte, frontiere sigillate da anni a causa delle continue pandemie di Sars. Avevamo passato giorni su minivan stipati di clandestini slavi, incuranti della pandemia. E alla fine, all'improvviso, avevamo visto lo stadio di Felcsút sorgere dall’orizzonte vuoto come una cattedrale nel deserto.
Scaricate in fretta con i nostri bagagli, avevamo subito trovato il braciere: niente di più che un modesto falò vegliato da due ragazzini zingari, che erano nientemeno che il comitato di accoglienza. Il più piccolo ci aveva condotte attraverso il villaggio fantasma e ci aveva spiegato tutto; ci aveva persino fatto quella foto con la sua vecchia polaroid, assieme alla delegazione del Nicaragua con cui avremmo dovuto condividere l’alloggio. Ricordavo i nomi della gran parte di loro: uno aveva persino vinto l’oro sui cento metri in passato, ed era sicuro che ne avrebbe vinto un altro.
In effetti, la gran parte dei partecipanti ci aveva precedute a Felcsút. I Giochi sarebbero cominciati entro due giorni.

Negli anni le Olimpiadi erano state prima rimandate, poi cancellate, e infine ufficialmente bandite. Assembramenti di tale entità, al tempo della Sars, erano un incubo organizzativo: nemmeno le Olimpiadi potevano generare incassi tali da giustificare la spesa. Ma la gran parte di noi non era lì per il premio: noi eravamo lì per la gloria, e l’avremmo avuta ad ogni costo, anche se avessimo dovuto guadagnarcela in uno stadio abbandonato, lontano dalla civiltà, sotto gli occhi soltanto dei nostri stessi avversari.
Il giorno dell’apertura dei Giochi gareggiai io: avevo appena ventun anni. Ero specializzata nei duecento metri piani, ma ero stata ammessa semplicemente come rappresentante del mio Paese: se ci fossero stati dei seri minimi da rispettare per l’accesso alle gare, come una volta, forse non sarei neanche riuscita a candidarmi.
Poche ore dopo essere arrivata, avevo iniziato a sentire voci sui tempi degli altri concorrenti, e in breve avevo capito che il mio viaggio era stato vano.
Avevo corso nella seconda batteria, su una pista di pessimo tartan gettato in qualche modo sullo sterrato, ma avevo fatto un tempo pessimo. Non mi ero neanche avvicinata al podio: quarantatreesima posizione su cinquantuno. Avevo dato la colpa al tartan schifoso, alle mie attrezzature scadenti a casa, allo stress del viaggio: ma in fondo sapevo che non tutto era perduto.
Lei, infatti, aveva ben più di una speranza. Durante gli allenamenti si era avvicinata a un record mondiale. Il suo nome era così noto che incontrammo dei visitatori venuti fin lì solamente per vedere la gara di salto con l’asta, per vedere lei, e io stessa sarei stata uno di quegli spettatori, impaziente di vederla vincere.

Il secondo giorno ero stata talmente eccitata da non riuscire nemmeno a sedermi sulle tribune. Davanti a me, i quattrocentristi sfrecciavano sul tartan attorno al campo da calcio. I lanciatori di peso misuravano minuziosamente i loro lanci. Del salto in lungo non vedevo molto più che lontane ondate di sabbia, mentre il fioretto occupava solo una striscia di terra, nel mezzo dell'arena. I saltatori con l’asta, proprio davanti a me, si lanciavano in aria uno dopo l’altro, simili a enormi cavallette.
Lei entrava in gara penultima, a causa del suo record personale, e io non ero mai stata così impaziente prima di allora. Volevo vedere il suo, di salto: volevo vederla vincere.
Quando finalmente era entrata in gara, più della metà dei concorrenti era già stata eliminata e un sole torrido picchiava sugli atleti. L’asticella era a quattro metri e settantaquattro, alta persino per gli standard del salto con l’asta. L’avevo vista entrare in campo, dritta e fiera, con la criniera africana domata a stento e la pelle lucida come bronzo. Nell’afa del mezzogiorno, sembrava fatta di metallo.
Sotto i miei occhi impazienti, si era preparata al primo salto.
Aveva soppesato l’asta, allineandola alla traiettoria. L’aveva messa in posizione, fissando l’obiettivo per un lungo istante.
Poi era scattata. I suoi passi, regolari come quelli di un robot, avevano una precisione meccanica. Aveva accelerato in poche, potenti falcate, puntato l’asta nella buca e in un attimo si era lanciata verso la sbarra.

“Il colloquio avrà inizio tra – 5 – minuti.”
Sussultai, strappata brutalmente dal ricordo, Mi alzai in piedi.
”Se è tutto in ordine, sei pregata di sederti alla scrivania e iniziare la procedura di login.“
Guardai la scrivania, poi rivolsi un’altra occhiata alla foto.
Quel salto… Era stato l’ultimo atto dell’Olimpiade, per me. Gli spari a salve della polizia ungherese erano esplosi proprio in quell’istante dietro di me, facendomi perdere l’attimo cruciale. Avevano causato un panico improvviso nella folla e negli atleti, che si erano dileguati in un batter d’occhio: lo stadio era talmente grande che le poche pattuglie presenti erano riuscite a fermare ben poca gente, ma erano bastate, di fatto, a segnare la fine dei Giochi.
Nel correre via, assieme agli spettatori, avevo fatto in tempo a vedere solo una cosa: l’asticella. Lassù, intoccata, il simbolo della vittoria.
In seguito avevo cercato di ricongiungermi con lei. L’avevo cercata a lungo, per giorni, ma invano. Sentii dire che alcuni atleti erano stati catturati durante l’incursione e, probabilmente, ciò era successo anche a lei.
Così ero tornata sola, avevo persino riportato i suoi bagagli alla sua famiglia. Ma lei non era mai più tornata.
Sentii i miei occhi farsi lucidi. Era come se la mia vita fosse finita quel giorno a Felcsút: terminata la carriera sportiva e con il peso della sua scomparsa sulla coscienza, non avevo mai più avuto una motivazione così intensa, una tale voglia di vincere, di vivere. Il solo ricordo di quegli anni mi distrusse.
Mi rigirai la foto tra le mani. Sul retro, vidi una calligrafia spigolosa: la dedica che ci aveva fatto il vincitore dei centro metri piani, scomparso anche lui assieme a molti degli atleti di valore dell’ultima Olimpiade della storia.
“L’importante nella vita non è il trionfo, ma la lotta. L’essenziale non è aver vinto, ma essersi battuti con valore. Ma io so già che voi vincerete!”
La lacrima scappò dai miei occhi.
“Il colloquio avrà inizio tra – 2 – minuti. Non sei ancora visibile nell’inquadratura: hai bisogno di aiuto?”

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Re: Semifinale Maurizio Bertino

Messaggio#5 » lunedì 3 agosto 2020, 0:57

Doverosa premessa: è evidente che i tre racconti sono usciti vincitori dai rispettivi raggruppamenti perché tutti di livello più che buono. Detto questo, non ho avuto dubbi nell'assegnare il primo posto, e quindi l'ammissione alla finale, al racconto di Andrea Lauro: testo di un livello, a mio parere, altissimo. Non ho davvero riscontrato difetti in I CAZZI TUOI ADELMO: un controllo elevato del racconto, un tema inserito perfettamente con un contesto e un'atmosfera presi in pieno, uno stile perfettamente funzionale e anche coraggioso (come nella decisione di includere nel raccontato in prima persona le linee di dialogo del protagonista, cosa che ho molto apprezzato). Grande controllo, grande stile, perfettamente in tema, anche originale. Finale meritata per lui.
Per quanto riguarda la seconda piazza che garantisce l'accesso alla finale per il bronzo, invece, ho avuto più difficoltà: se il racconto di Borchi (al netto di un infelice uso delle virgole nella prima parte) si dimostra ben controllato, curato, preciso nell'esecuzione, quello di Zan, di contro, manifesta una maggiore originalità a partire dall'approccio al tema stesso che non è un evento storico già accaduto, ma qualcosa che accadrà. Punto per Borchi sulla pulizia del testo, punto per Zan sull'originalità dell'idea. Pari e patta, ma qualcuno deva andare alla sfida per il bronzo e quindi optò per LA LOTTA di Zan perché il tema affrontato è anche parecchio attuale e a lettura ultimata riesce a rimanere impresso con più forza nei pensieri del lettore, quanto meno di quello che in questa sede è stato chiamato a giudicare.
Se posso dare un consiglio a Borchi: credo sia da aumentare il livello di empatia nel protagonista del tuo racconto perché si rimane un po' distanti da lui nella versione del 65, forse anche a causa di eventi meno interessanti tra quelli che gli accadono. L'onigiri non mi sembra raggiungere il suo scopo e neppure il controllo del peso perché quello che vuoi trasmettere è la sua voglia di combattere la vita nonostante il suo immenso problema e allora sarebbe stato meglio prenderlo direttamente a ridosso dello scontro concentrando l'attenzione sulle sue emozioni che, proprio in quella sede, si mischierebbero con i suoi ricordi del passato in un mix più funzionale e, soprattutto, naturale.

Quindi mando alla finale per il l'Oro: I CAZZI TUOI ADELMO, di Andrea Lauro.
Mando inoltre alla finale per il Bronzo: LA LOTTA, di Zan

Grazie a tutti per le letture.

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