Laboratory Storm Delusion - Parte II

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Giacomo Puca
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Laboratory Storm Delusion - Parte II

Messaggio#1 » mercoledì 5 agosto 2020, 22:21

Laboratory Storm Delusion - Parte II

Il vecchio mi squadra. «Caccialo.»
«I-io non ho niente.»
«Ma come non ce l'hai? Il rileva... Il rileva-coso.»
Una catena montuosa smette di schiacciarmi il petto. Non ha capito.
Dalla tasca, non quella con la chiave, quella col cellulare, sfilo il rilevatore di Lentz. Il liquido all'interno è pieno di bollicine, come fosse sul punto di bollire. Me lo giro tra le mani. Lì dentro ci sono tutti i colori del mondo, un'opale liquefatto. I lampeggi del led sono fittissimi.
«Che dice?»
Premo il pulsante.
Biiiiiiiiii—
Spengo.
La gabbia non funziona, dice la verità. Rimetto in tasca il rilevatore. «Non ho mai visto il fluido così perturbato, se la tempesta non è iniziata, manca poco.»
«Adesso ci credi che non c'è nessuna bambina?»
«S–sì. Scusa.» Ottima copertura maniaco, mi credi così stupida? Quella era troppo concreta per essere una visione.
«Andiamo a vedere la gabbia.» dice lui.
Attraversiamo lo stanzone, l'odore è quello di smog sulla statale a Ferragosto. Camminiamo affiancati, nessuno vuol dare le spalle all'altro.
Sull'ingresso abbozza un inchino «Prima le signore.»
Assecondalo, deve pensare che ti fidi, che gli credi, sennò non abbasserà mai la guardia
«Grazie,» dico uscendo.
Mi segue.
Il cielo, tra gli spicchi di gabbia, è lillà. In bocca ho il gusto di caffè e sambuca, sul sentiero c'è una libellula grande come un cavallo. La indico, vola via con un rombo.
Direi proprio che la gabbia non funziona.
«Questi vanno bene.» Il vecchio indica i tubi che aveva stretto prima che arrivassi. «Controlliamo il tuo lato.»
E ti pareva. Se qualcosa non funziona è colpa della donna. Maschilista di merd—
«Ah! Ci avrei scommesso.» Zoppica verso uno dei tubi che ho stretto, lo seguo. Dall'innesto sgorga una fontanella iridescente. Il succo di Lessie ha fatto una pozzanghera.
«Qui non hai stretto un cazzo.» Il vecchio si tiene a distanza dal fiotto.
Prendo la chiave inglese, mi avvicino al dado, lui mi afferra il polso.
«Prima spegniamo la pompa.»
«Che!?»
«Se stringiamo, sale la pressione.»
«Bene, noi la vogliamo la pressione. No?»
Il vecchio si piazza in mezzo.
«Vorrei sapere perché vi mandano a scuola, a voi femmine. Questo accidente ci tiene ancora col culo sicuro solo perché il sensore vede che la pressione scende e fa entrare altro liquido.»
«Quindi?»
«Se stringi,» mima il torcere, «il sensore non si accorge subito che la pressione sale.»
«E qual è il problema?»
«Il problema, sapientona, è che per quando se ne accorge ha già fatto entrare troppo liquido. Che succede se metti in un tubo più di quello che ci entra?»
Non rispondo. Non voglio dar ragione a un maniaco. «Ma senza pompa siamo scoperti.»
Annuisce. «La pompa si prende giusto qualche secondo per riavviarsi.»
«Vado io?»
«Non ci pensare. Tu stringi, almeno qua non puoi fare troppi danni.»
Stronzo, ma non ha tutti i torti.
Si allontana, la sua scia odora di alcool rosa, sparisce dietro l’angolo della casa.
«Appena smette di pisciare, stringi.» Mi dice da dentro la baracca.
«Va bene!»
«E stai pronta, che tra un po' si finisce il mondo.» La voce è più tenue, sarà nella stanzetta.
Stare in una tempesta è come farsi con un chilo di LSD. Almeno così dicono i quattro gatti che sono sopravvissuti per raccontarlo.
Stringo la chiave a due mani e inforco il dado. Divarico le gambe, pianto gli scarponi nella fanghiglia di succo di cane.
Aspetto, focalizzata con tutta me stessa su quel dannato dado, unto e iridescente.
Aspetto, il sudore rende la chiave scivolosa.
Sbrigati, vecchio maniaco.
«Ho fatto!» urla.
Era ora.
L'ampiezza dell'arco dello zampillo si riduce a vista. Ho la testa leggera, la gabbia sta smettendo di funzionare.
È strano, l'aria ha un sapore blu di Persia.
La perdita è una lacrima, cola lungo il tubo. Tra le mani stringo un serpente che serra la bocca intorno al dado. Calmati Claudia, è solo l'allucinazione.
Devo stringere subito, pressione o no. Tra poco non ci capirò più niente.
Torco il serpente, il dado ruota con un cigolio aspro di limone. Faccio forza, non gira più. Il dolore nelle braccia è solido, rosso, di aghi che si infilano sotto le unghie e strisciano fino ai bicipiti.
Il dado è stretto, o forse no. Forse ho solo immaginato me stessa che stringeva. Non c'è modo di saperlo nel mezzo di una tempesta allucinatoria.
Tra gli spicchi della gabbia il cielo è nero, come quello che si vedrebbe stando sulla luna. Nuvole di granito, cubiche, coniche, piramidali, sfrecciano da una parte all'altra. Alcune sono cavalcate da cherubini. Quando mi vedono, fanno ciao con la manina. Risaluto.
Le foglie sugli alberi sono orecchie umane, di elefante, di cane, di pipistrello. Puzzano di mal di pancia e di campane a festa. Il sentiero è un fiume di ghiaia. Scorre con un gorgoglio di numeri primi, verdi, lampeggianti. Grossi sette, undici, ventitré, che rimbalzano tra le onde di pietra e mi volano addosso rimpicciolendosi. Si infilano nelle orecchie, sibilano sfrecciando via dal naso, salati.
Un lampo al calor bianco annega l’universo per un istante. Torna il cielo lunare, solcato da uno schieramento di nuvole marmoree cavalcate da diavoletti. Fronteggiano la schiera di cherubini sul granito.
Un altro lampo bianco, il nero, il lampo, il nero... Tutta la Via Lattea pulsa come una luce stroboscopica, frammenta il tempo. Muovo le braccia, sono rigide, vanno a scatti. Faccio un passo, le piante dei miei piedi sentono il gusto. Il mondo è pastoso, sa di panna e statico di televisore.
Cammino, i miei passi tuonano. Sono fatta di buchi neri, di materia degenere, il mondo collasserà sotto il mio peso.
I tubi dell'armatura hanno il colore zuccherino delle pesche. Ne sfioro uno, viscido come un polipo. Ha le ventose. Tutti i tubi sono tentacoli titanici, convergono su di me, fendendo il terreno come fosse acqua.
Ho una paura grigio cenere.
Stringo un tentacolo, gli altri sempre più vicini. L'unico modo per ucciderlo è azzannarlo, coi miei denti aguzzi, da squalo.
La paura ha un suono sfrigolante, di saldatori. Quelli che sigillano la bara di nonna, il giorno del suo funerale.
Allontano il viso, spalanco la bocca. L'aria frizza sulla lingua di canti gregoriani, croccante come la luce di una lampadina da trenta watt. Mi vedo poggiare i denti sul tentacolo, come se mi guardassi attraverso un binocolo tenuto al contrario.
Sapore ferroso.
Sto stringendo tra le mani un tubo della gabbia, caldo. Ho la testa piegata di lato, la bocca attorno al metallo.
Uscire dalla tempesta è come essere in discoteca quando staccano la musica e accendono le luci. Solo che quando sei entrata sei cieca, e adesso vedi.
Mollo il tubo, il cielo è sereno, l'aria odora di primavera appenninica, le foglie sono foglie.
Mi siedo a terra, la testa ronza come in una sbornia. Calmati Claudia, è andata. Un altro secondo e mi sarei spaccata i denti.
Sfilo dalla tasca il rilevatore Lentz. Il liquor sembra cristallo, da quanto è trasparente e quieto. Sono sopravvissuta a una Laboratory Storm Delusion. L-S-D, gli stronzi che gli hanno trovato il nome ci hanno proprio azzeccato.
Rimetto in tasca il rilevatore.
Puoi leggere tutti i resoconti di sopravvissuti che ti pare, quando ci sei dentro, sei... com'è che diceva uno sopravvissuto alla prima tempesta di Milwaukee-Chicago? Una formica ubriaca che prova a guidare un tornado di fuoco.
Sospiro. Che bello quando l'aria non ha sapore.
Il sole ha iniziato la sua discesa, saranno le quattro o le cinq— Ah cazzo, il vecchio. La bambina! Ma che diavolo ho in testa?
Scatto in piedi. La chiave inglese spunta dalla pozzanghera. L'afferro e corro nella baracca.
Il vecchio barcolla, si regge al tavolo.
«Tutto bene?» gli domando.
Si strofina il capo con la mano. «Uh, che casino.» Mi guarda, strizza gli occhi.
Chissà che allucinazioni si becca uno che è maniaco anche da normale.
Avanzo nella sua direzione. Claudia, non ci saranno seconde occasioni.
Confuso, zoppicante, mi viene incontro.
Copro la distanza che ci separa con quattro passi. Se gli dai il tempo di riprendersi, ti ucciderà.
Sollevo la chiave inglese, carico il colpo, l'abbatto sulla sua testa, scaricando tutta la forza che ho.
Sul suo volto si anima un guizzo di sorpresa, come avesse preso la scossa. Cade in ginocchio, si accascia su un fianco. Le labbra palpitano, le braccia scosse da spasmi.
Poggio la chiave insanguinata sul tavolo.
Ho ucciso un uomo.
Non ora Claudia. Ci penserai dopo, adesso pensa alla bambina, e— oddio. Avrà avuto le allucinazioni anche lei?
Vado nel cesso, la pompa stantuffa. Apro la botola, scendo. Il seminterrato puzza di pipì e benzina. Bueno.
«Ehi piccola, dove sei?»
Si sente solo il faretto che sfarfalla nella stanzetta in alto.
«Siamo al sicuro, ti porto via.»
Niente, dev'essere svenuta.
Luce, mi serve della luce. Prendo il cellulare, premo il bottone di sblocco. Non va. Deve essersi scaricato a furia di cercare la rete. Mi sfilo lo zaino, lo poggio sul fusto più vicino. Dal suono di gong, deve essere uno di quelli vuoti. Rovisto tra fazzoletti, impermeabile, chiavi, cartellina, torcia. Torcia.
La tiro fuori, l'accendo. Un tubo di luce fende la penombra, il pulviscolo si agita nel fascio.
Lo spazio tra i barili è un intrico di concavità e convessità. Devo chinarmi per il soffitto basso, e coi barili che arrivano all'ombelico sembra di stare in una catacomba.
A ogni passo trascino un piede, lascio un solco. Mi evita di controllare dieci volte lo stesso punto.
Per ogni passaggio sulla terra non ancora solcata, per ogni minuto, per ogni richiamo senza risposta, un presentimento si addensa.
A ogni curva, a ogni passaggio già battuto tre volte, a ogni vicolo cieco, il presentimento si fa solido, cresce. Una massa tumorale di certezze. Torno alla scala, illumino tutto il seminterrato con sventagliate di luce.
Non c'è nessuna bambina.
Non c'era nessuna bambina.
Ho ucciso un innocente.

Ho ucciso un innocente?
Getto la torcia sullo zaino, mi arrampico su per la scala, esco dal cesso.
Mi avvicino al vecchio, mi chino, poggio l'orecchio sulle sue labbra.
Respira.
Corro al lavandino, dentro c'è una pentola vuota. Apro il rubinetto, spruzza acqua gelida. Riempio mezza pentola, la porto dal vecchio. Mi siedo a terra e mi metto la sua testa su una gamba. Con la mano a cucchiaio faccio scivolare un po' d'acqua sulla ferita. Non è profonda anzi, c'è solo un bozzo e poco sangue.
Le allucinazioni devono averci indebolito. Io ho colpito pianissimo e lui è andato giù come niente. Forse era solo stremato, crollato per lo shock più che per il colpo.
Magari mi tocca poca galera.
Gli faccio scorrere l'acqua sul volto. I rivoli solcano il sudiciume, lasciandosi dietro una striscia più chiara, sprofondano nella barba, come fiumi carsici.
Sgrana gli occhi, scuote la testa. Nel suo sguardo c'è paura.
Scatta in piedi. Si strofina la faccia come un gatto, e come tale deve piacergli l'acqua.
Mi addita, gli occhi sporgono dalle orbite per il furore.
«Tu! Prima ti dimentichi di stringere un dado e poi mi colpisci. Perché? Voglio sapere perché.»
A terra, con le gambe a squadra come una marionetta, evito il suo sguardo. «Credevo ci fosse una bambina nel seminterrato.»
Si poggia le mani sui fianchi, corruga sopracciglia e naso, assumendo un'espressione indagatoria. «E cosa ci hai trovato?»
Scuoto il capo. «Niente.»
«Ah. Ma guarda un po', come dicevo io.» Si è fatto rosso. Inspira una grossa boccata d'aria, «fuori! Adesso. Fuori di qui!» La vena sulla tempia gli pulsa. «Non ti denuncio solo perché non voglio avere altra gente tra i piedi.»
«Ma c'è la tempesta!»
«Vieni.» Zoppica verso l'ingresso della baracca.
Resto imbambolata, la realtà mi sta travolgendo, più assurda delle allucinazioni. Mi alzo, lo seguo fuori. Lo trovo che si regge a uno dei tubi, vado da lui.
«Caccia il rivela-coso.»
Prendo la fiala, il liquido è cristallino, il led spento.
«Accendi il suono.»
Premo il bottone, nessun allarme. «Non suona, la gabbia funziona.»
«Dammelo.»
Ritraggo il rilevatore. «No, è l'unico che ho con me.»
Lui tende la mano. «Dammelo!» ringhia, mostrando denti ocra dai bordi neri.
L’odore nel WC è meno fetido del suo alito.
Gli porgo il rilevatore, me lo strappa di mano, si china e lo poggia a terra, appena oltre i tubi.
Bip.
Il liquor si fa rosa pallido.
«È quasi finita la tempesta. Se ci sei arrivata in queste condizioni, te ne puoi anche andare.»
«E se fosse solo un momento di calma? Se ricomincia?»
Bip.
«Giuro che se non te ne vai subito ti faccio a pezzi e ti seppellisco nel seminterrato.»
Non c'è scherno, o astio, nella sua voce. Come avesse fatto una minaccia del tutto plausibile, concreta.
La paura che incute non ha sapori strani. Prende la forma di un tremito, lo stesso che avevo la prima volta che sono uscita dal seminterrato.
Bip.
Eppure, sono io. Sono io ad averlo quasi ucciso dopo che mi aveva salvato la vita. Non ho voluto credere che fosse solo una allucinazione e in fondo, è solo perché sembra un maniaco che ho dato per scontato lo fosse sul serio.
Supero la gabbia, afferro il rilevatore e spengo l'allarme. Il cielo è color ardesia, l'odore di montagna ha una nota di ciliegia.
Mi allontano, voglio mettere un sacco di strada tra me e il vecchio. La ghiaia del sentiero è bianca, non scorre.


– Giacomo Puca –
Ultima modifica di Giacomo Puca il giovedì 6 agosto 2020, 12:54, modificato 2 volte in totale.


In narrativa non esistono regole, ma se le rispetti è meglio.

Simone Marzola
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Re: Laboratory Storm Delusion - Parte II

Messaggio#2 » giovedì 6 agosto 2020, 11:39

Ciao Giacomo,

Piacere di leggerti!
Il racconto è interessante e curioso. Il trip allucinatorio è davvero ben reso. Il ritmo è incalzante e i due personaggi sono caratterizzati bene. La seconda parte scorre meglio della prima, almeno per me.
La tempesta è presente e assolutamente centrale nel racconto, anche se non è molto chiaro cosa sia e ci sono pochi elementi di contesto: la tecnologia della gabbia, la provetta e il liquido che li tiene al sicuro sono elementi che inserisci e che come lettore devo accettare senza davvero capirli del tutto. Qualche parola in più spesa, forse potrebbe darmi maggiore chiarezza.
Il tema mi sembra totalmente centrato: non mi è chiaro però come possa proseguire il racconto. Per come concludi sembra possa finire qui. Sicuramente con la terza traccia ci sarà uno sviluppo, ma per ora sembra che la vicenda si chiuda senza ganci in sospeso per quello che mi traspare dalla narrazione. Sempre nell'ottica del lettore non avverto lo slancio verso il resto del racconto.

Credo ci sia un piccolo refuso qui: Il sentiero è un fiume di ghiaia. Scorre con un gorgoglio numeri primi, verdi, lampeggianti.
Non mi è molto chiaro il pensiero. Ok che è un delirio lisergico, ma non capisco il legame tra gorgoglio e numeri primi.

Curioso di vedere come prosegue!

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Giacomo Puca
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Re: Laboratory Storm Delusion - Parte II

Messaggio#3 » giovedì 6 agosto 2020, 12:53

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Ciao e grazie per la lettura!
Per quanto riguarda "il far capire", è veramente difficile senza spiegoni. Mi sta comunque bene che non si capisca tutto al 100%, d'altronde nemmeno i protagonisti conoscono bene i meccanismi precisi dietro la tempesta e il funzionamento della gabbia, ma conoscono le conseguenze. Per fare un paragone è come sapere che Covid è pericoloso e che le mascherine sono utili, ma pochi sanno come funziona un virus o un vaccino.

Sul finale: è vero che sembra chiudersi. In realtà mi sono lasciato dietro un po' di briciole, soprattutto perché non sappiamo la terza traccia su cosa verterà (mini spoiler, lei ha scordato la borsa nel seminterrato.)

Sul refuso, grazie. Effettivamente era "un gorgoglio di numeri primi".
Il senso della frase è difficile da comprendere per persone normali, di fatti si tratta di una forma di sinestesia che sperimentano, per esempio, alcuni savant. Si tratta di individui che percepiscono che so il sapore dei numeri, il loro odore. Ecco, la tempesta fa sentire a Claudia un rumore di numeri primi.
In narrativa non esistono regole, ma se le rispetti è meglio.

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antico
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Re: Laboratory Storm Delusion - Parte II

Messaggio#4 » venerdì 7 agosto 2020, 0:31

Molto bene, caratteri ok, pronto per il giudizio!

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antico
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Re: Laboratory Storm Delusion - Parte II

Messaggio#5 » martedì 11 agosto 2020, 16:12

Urca, un miglioramento notevole rispetto alla prima traccia! Tutto è più focalizzato e concentrato e il costante contrasto tra i due protagonisti è reso ottimamente. In generale, mi sembra tutto più curato. Ottima la resa della tempesta e dei suoi effetti allucinatori. Ottima anche il modo in cui hai inserito la separazione tra i protagonisti. Inutile dire che la valutazione sale di conseguenza: non posso arrivare al pollice su o quasi su perché la zavorra del primo pezzo (la cui lettura era molto più difficoltosa) si fa sentire, ma di sicuro arrivo a un pollice tendente verso l'alto in modo convinto. Cliffhanger così così, ma mi aspetto un bel colpo a sorpresa e forse me lo sto già anche immaginando.

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