Notte tempestosa pt 2
Inviato: giovedì 6 agosto 2020, 19:10
NOTTE TEMPESTOSA Pt2
di Luca Fazioli
La vecchia grida, con le mani artiglia la federa del cuscino, le unghie strappano il tessuto. Spalanca le gambe e del liquido scuro si accumula sul materasso. L’addome scalpita di calci e spinte. Qualsiasi cosa ci sia lì dentro non ha capito qual è la porta d’uscita.
Una sventagliata trasporta grosse lacrime di pioggia nella stanza. In cucina le finestre sbattono e un vetro finisce in frantumi. I fulmini non mi danno requie, si susseguono e rincorrono sempre più vicini. Le gocce d’acqua presto si trasformano in chicchi di grandine e mitragliano la tettoia. Alcune tegole spezzate piovono di sotto travolgendo l’orto di papà. Una raffica di vento spruzza la donna come un pirata in mezzo a una burrasca. Questa non è una tempesta, questa è la fine del mondo!
Mi spingo in piedi con la schiena ancora premuta contro l’armadio. Do le spalle alla vecchia e indosso l’impermeabile giallo. Ho sempre odiato questo colore, ma non è il momento di essere schizzinoso. Le chiavi del motorino sono ancora in tasca, le stringo.
«Non lasciarmi sola.»
Qualcosa sul suo viso è cambiato. Il sorriso da pazza ha lasciato il posto al terrore che aveva negli occhi quando l’ho fatta entrare.
«Ho paura, ti prego aiutami.»
È disperata, un animale braccato. Cosa l’ha ridotta così? E cosa diavolo le cresce in pancia?
Un fragore improvviso mi spaventa, infilo la testa nelle spalle, la stanza rimbomba come una grancassa.
«Non lo avrai! È anche figlio mio!» Sbraita la vecchia agitando il pugno.
Basta, ho sentito a sufficienza.
Mi sbatto dietro la porta della camera, attraverso l’appartamento e corro in cortile. Pioggia e grandine mi assalgono da ogni direzione. Una noce di ghiaccio mi colpisce lo zigomo, alzo il cappuccio per proteggermi dall’ira del cielo. Il fango mi seppellisce le scarpe, il liquame scivola tra le dita dei piedi come una biscia. Sento ancora le urla della donna nonostante il fragore del temporale.
Il motorino è caduto sul fianco, lo sollevo e lo rimetto sul cavalletto. Il casco chissà dov'è. Provo ad accenderlo con un calcio, un altro ancora. Non dà segni di vita. Salgo e comincio a pedalare ma cado dopo pochi metri: mi ritrovo a terra, la gamba schiacciata, il pantano mi fagocita.
Merda!
Me lo levo di dosso. Il polpaccio destro sanguina, la tuta è già impregnata di rosso e fa un male cane.
Le fronde del boschetto ondeggiano impazzite, i tronchi scricchiolano sotto il peso della pioggia, il fondo è troppo viscido per pensare di attraversarlo. La barca da pesca è stata sbalzata a riva. Forse è una follia pensare di andarmene con quella, ma dall’altra parte del lago abita Marisa. Quando il cielo è terso vedo la villa di sua zia, potrei cercare rifugio da loro. Sono solo pochi colpi di remi, sempre se l’imbarcazione non si capovolge con me sopra.
Ma abbandonare la vecchia qui…
Dietro di me la porta spalancata sull’incubo, davanti una possibile via di fuga: la scelta sembra scontata.
Mi batto la mano sulla fronte e mi rimetto in piedi. Sono un idiota.
«Respiri profondamente e spinga.»
Il candelabro sul comodino illumina il lato destro della vecchia, ombre imbizzarrite le guizzano sul viso. Mi guarda come se le avessi chiesto la luna. Ritento.
«Inspiri ed espiri.»
Risponde con uno strillo di dolore, schizzi nauseabondi mi finiscono in faccia.
È stesa supina, appoggiata sui gomiti. Le braccia le tremano per lo sforzo, le gambe divaricate nella mia direzione. Io non so esattamente cosa dovrei vedere qui sotto, ma non mi sembra che stia succedendo proprio niente.
«Proviamo a spingere, ok? Al mio tre.» Mi asciugo il sudore con l’avambraccio. «Uno, due e…»
Inarca la schiena sul materasso, la nuca incassata nel cuscino, chiude le gambe di colpo e per poco non mi schiaccia la testa tra le ginocchia. Si accartoccia su sé stessa e si morde la mano per trattenere l’ennesimo urlo di dolore. Non sta andando bene.
La tempesta non vuole acquietarsi, pare incuriosita dallo spettacolo nella camera, fulmini e tuoni come invitati speciali. Ha smesso di grandinare. La pioggia cade fitta, una coltre che mi impedisce di scorgere persino il salice piantato dietro casa. Se continua di questo passo il lago si ingrosserà fino ad inghiottire l’intero lotto.
«Non ci riesco. Le forze mi stanno abbandonando.» Ansima, un raschio in fondo alla gola.
«Tenga duro signora, ci siamo quasi.» Sono un pessimo bugiardo.
«Smettila di chiamarmi signora! Il mio nome è Sicorace.»
La osservo rigirandomi le sillabe sulla lingua.
«Ascoltami bene, devi tagliare.»
«Devo fare cosa?» Faccio un passo indietro.
«Aprimi la pancia e tira fuori Calibano.»
«Non sono un chirurgo e nemmeno un macellaio. Io non sventro nessuno.»
«Devi incidere qui.» Mi indica un punto tra il ventre e il pube senza prestare ascolto alle mie proteste «Tanto così dovrebbe bastare.» Distanzia le mani di una spanna abbondante.
«Non ci penso proprio. E se qualcosa va storto?»
Digrigna i denti e chiude gli occhi per un istante.
«Qualcosa è già andato storto.»
Un lampo illumina la stanza a giorno. Il sudore le ha incollato i capelli radi al cranio, la pelle tirata sulle guance sembra la copertina di un libro inzuppata d’acqua e lasciata asciugare al sole, un occhio mi fissa, mentre l’altro se ne frega di me. Mi prende per il maglione e mi tira talmente vicino da farmi venire un conato per il tanfo: sangue, sporcizia e decomposizione.
«Devi toglierlo da lì, prima che mi divori da dentro! È chiaro ora?»
Muovo la testa. Vorrebbe essere un sì ma mi trema in tutte le direzioni.
Il pavimento della cucina è invaso di cocci e vetri. Evito di calpestarli anche se con la poca luce a disposizione non è facile. Le scarpe scricchiolano sulle schegge più minuscole, la gamba ferita trascinata più che sollevata. Dalla finestra entra odore di legno bagnato e il sentore salmastro del lago. Apro il cassetto della credenza e getto a terra forchette, cucchiai e mestoli. Nascosto dietro al mattarello c’è lo spelucchino in ceramica: non sarà un bisturi ma è la cosa più tagliente e precisa che ho in casa. Non sono molto convinto di questo taglio cesareo improvvisato. La immagino scannata e morente sul mio letto. Ho la nausea. Mi appoggio al lavandino con un saporaccio che mi risale la gola. Riempio un bicchiere d’acqua e lo ricaccio giù in una sorsata. Alzo la mano libera e trema, trema come le fronde del salice in questa terribile tempesta. Se non mi do una calmata sarà un disastro.
Sicorace ha ricominciato a gridare. Mi tappo le orecchie ma è inutile, la sua voce mi penetra nella testa. Non posso abbandonarla. Ci ho già provato e il fottuto senso di colpa mi ha fatto tornare indietro. Facciamo nascere questo poppante.
«Taglia in orizzontale, ma non troppo in profondità. E sta attento al bambino, non fargli del male, qualsiasi cosa succeda.»
«Cosa potrebbe succedere?» Le dita mi tremano.
«Non lo so, ma promettimi che non gli farai del male.»
«Non ce la faccio.» Piagnucolo.
Sicorace appoggia il palmo sulla mia mano sudata e le accompagna al ventre. Devo smetterla di frignare come un moccioso. Ce la posso fare. Ce la devo fare!
Spingo lo spelucchino sulla pelle tesa e un rigagnolo di sangue si perde nel pube, la vecchia mugugna appena, dev’essere nulla in confronto a tutto il dolore che ha patito.
«Così, bravo ragazzo. Non ti fermare.»
Il bambino scalcia e tira colpi, non gradisce quello che sto facendo. Tra poco sarai fuori di lì, non scaldarti tanto piccolo. Una bocca spalancata compare sotto la pelle tesa. Piccole fauci risucchiano e mordono un trancio di carne dall’interno. Sicorace si porta le mani al ventre con un ululato, i tuoni gioiscono in coro e anche la pioggia sembra diminuire d’intensità per ascoltare meglio il suo dolore.
«Ma che cazzo!»
Salto via dalla donna, il coltello mi scivola di mano finendo sul materasso tra le sue gambe. Sicorace lo cerca a tentoni con la mano rigonfia di vene bluastre. Lo afferra e se lo pianta nel ventre.
«No, no!»
Glielo strappo di mano e lo scaravento a terra, ma il danno è fatto: il taglio lungo due spanne gronda sangue. All’interno scorgo un piccolo cranio pelato. Le mie dita gli sfiorano la pelle ricoperta di liquido viscoso e inizia a strillare peggio della madre. Il corpicino rachitico è sormontato da una grossa testa ammaccata come una mela caduta dall’albero. Sul viso deforme gli occhi, uno più in basso dell’altro, sono chiusi e il piccolo naso schiacciato inspira a fatica. Espira dalla bocca piena di denti simili a quelli di un luccio marino. Tutta questa fatica per un abominio del genere? Sicorace lo osserva e sorride. Nonostante il dolore patito, nonostante la ferita aperta, nonostante tutto quello che ha passato lo ama, per il semplice fatto che è suo figlio.
«Portalo via, Setebo non deve averlo.» La testa le ricade all’indietro. Sotto al suo corpo minuto il sangue ha imbrattato tutto il materasso e sta gocciolando sul pavimento. Quanto può perderne un essere umano prima di morire?
«Sicorace? Sicorace!»
La scuoto e le braccia molli seguono il busto senza alcuna reazione.
«Chi è Setebo? Cosa devo farci io con questo marmocchio?»
La creatura che sembra un neonato mi stringe il pollice con dita troppo lunghe e piano piano si calma. Apre gli occhi neri e lividi e sembra soppesarmi.
«No, non farti illusioni, io non sono tuo padre.»
Non sa di essere mostruoso e in cuor suo non gli interessa particolarmente, lui vuole solo vivere. D’altro canto io voglio impedire che gli facciano del male.
Adagio la cesta di vimini imbottita sul fondo della barca e mi tolgo il ciuffo bagnato dagli occhi. L’asciugamano che la copre a mo’ di coperchio è già impregnato d’acqua. Sollevo un lembo e il piccolo Calibano allunga una manina nella mia direzione mostrando i denti raccapriccianti.
«Stai buono. Adesso ti porto da un’amica che si prenderà cura di noi.»
Marisa mi ammazza se mi presento da lei con un neonato, ma ho bisogno del suo aiuto. Dovrebbe essere brava coi bambini, i suoi cuginetti sono piccoli, o almeno credo. Oddio, avrei dovuto prestare più attenzione ai suoi noiosissimi racconti di famiglia.
Poi c’è da risolvere il problemino del cadavere squartato sul mio letto. Un dettaglio. Una quisquilia.
Merda!
Slego la gomena dal pontile e spingo la barca sull’acqua. Fulmini e tuoni accompagnano ogni mio movimento. Perlomeno la pioggia si è presa una pausa, gocce rade e fini ticchettano sulla superficie del lago. A destra i nuvoloni schiariscono in un grigio stinto illuminati dal sorgere del sole. Questa notte infinita sta per volgere al termine.
Remo verso l’altra sponda del lago. La fatica si accumula nelle braccia, ogni colpo un dolore che risale i muscoli fino alle spalle. La barca avanza zigzagando, anche se cerco di mantenerla più dritta possibile. Piccole onde increspano la superficie e si infrangono sullo scafo. Alcuni pesci guizzano a pelo d’acqua in direzione opposta alla nostra.
Nel chiarore dell’alba intravedo il molo della villa di Marisa, gli angoli della bocca mi si alzano in un sorriso.
Sbircio dentro la cesta. «Ci siamo quasi, mostriciattolo.»
Dorme, con i piedi stretti nelle mani, come una tartarughina rovesciata. Per un istante – uno solo – dimentico la follia di quella notte da incubo.
«Sei brutto forte. Dillo allo zio quanto sei brutto!» Gli solletico sotto al mento con l’indice.
Uno scossone fa ondeggiare la barca e la cesta si rovescia. Calibano scivola sulla tolda e vagisce. Me lo stringo al petto.
«Stai calmo piccoletto, ci sono io. Andrà tutto…»
Una massa enorme si solleva dal centro del lago con un verso gutturale, un boato da fare invidia ai tuoni. Lunghi tentacoli volteggiano come capelli scompigliati dal vento. La montagna di carne rugosa avanza con un rollio inquietante verso di noi.
«E questo che cazzo è?»
di Luca Fazioli
La vecchia grida, con le mani artiglia la federa del cuscino, le unghie strappano il tessuto. Spalanca le gambe e del liquido scuro si accumula sul materasso. L’addome scalpita di calci e spinte. Qualsiasi cosa ci sia lì dentro non ha capito qual è la porta d’uscita.
Una sventagliata trasporta grosse lacrime di pioggia nella stanza. In cucina le finestre sbattono e un vetro finisce in frantumi. I fulmini non mi danno requie, si susseguono e rincorrono sempre più vicini. Le gocce d’acqua presto si trasformano in chicchi di grandine e mitragliano la tettoia. Alcune tegole spezzate piovono di sotto travolgendo l’orto di papà. Una raffica di vento spruzza la donna come un pirata in mezzo a una burrasca. Questa non è una tempesta, questa è la fine del mondo!
Mi spingo in piedi con la schiena ancora premuta contro l’armadio. Do le spalle alla vecchia e indosso l’impermeabile giallo. Ho sempre odiato questo colore, ma non è il momento di essere schizzinoso. Le chiavi del motorino sono ancora in tasca, le stringo.
«Non lasciarmi sola.»
Qualcosa sul suo viso è cambiato. Il sorriso da pazza ha lasciato il posto al terrore che aveva negli occhi quando l’ho fatta entrare.
«Ho paura, ti prego aiutami.»
È disperata, un animale braccato. Cosa l’ha ridotta così? E cosa diavolo le cresce in pancia?
Un fragore improvviso mi spaventa, infilo la testa nelle spalle, la stanza rimbomba come una grancassa.
«Non lo avrai! È anche figlio mio!» Sbraita la vecchia agitando il pugno.
Basta, ho sentito a sufficienza.
Mi sbatto dietro la porta della camera, attraverso l’appartamento e corro in cortile. Pioggia e grandine mi assalgono da ogni direzione. Una noce di ghiaccio mi colpisce lo zigomo, alzo il cappuccio per proteggermi dall’ira del cielo. Il fango mi seppellisce le scarpe, il liquame scivola tra le dita dei piedi come una biscia. Sento ancora le urla della donna nonostante il fragore del temporale.
Il motorino è caduto sul fianco, lo sollevo e lo rimetto sul cavalletto. Il casco chissà dov'è. Provo ad accenderlo con un calcio, un altro ancora. Non dà segni di vita. Salgo e comincio a pedalare ma cado dopo pochi metri: mi ritrovo a terra, la gamba schiacciata, il pantano mi fagocita.
Merda!
Me lo levo di dosso. Il polpaccio destro sanguina, la tuta è già impregnata di rosso e fa un male cane.
Le fronde del boschetto ondeggiano impazzite, i tronchi scricchiolano sotto il peso della pioggia, il fondo è troppo viscido per pensare di attraversarlo. La barca da pesca è stata sbalzata a riva. Forse è una follia pensare di andarmene con quella, ma dall’altra parte del lago abita Marisa. Quando il cielo è terso vedo la villa di sua zia, potrei cercare rifugio da loro. Sono solo pochi colpi di remi, sempre se l’imbarcazione non si capovolge con me sopra.
Ma abbandonare la vecchia qui…
Dietro di me la porta spalancata sull’incubo, davanti una possibile via di fuga: la scelta sembra scontata.
Mi batto la mano sulla fronte e mi rimetto in piedi. Sono un idiota.
«Respiri profondamente e spinga.»
Il candelabro sul comodino illumina il lato destro della vecchia, ombre imbizzarrite le guizzano sul viso. Mi guarda come se le avessi chiesto la luna. Ritento.
«Inspiri ed espiri.»
Risponde con uno strillo di dolore, schizzi nauseabondi mi finiscono in faccia.
È stesa supina, appoggiata sui gomiti. Le braccia le tremano per lo sforzo, le gambe divaricate nella mia direzione. Io non so esattamente cosa dovrei vedere qui sotto, ma non mi sembra che stia succedendo proprio niente.
«Proviamo a spingere, ok? Al mio tre.» Mi asciugo il sudore con l’avambraccio. «Uno, due e…»
Inarca la schiena sul materasso, la nuca incassata nel cuscino, chiude le gambe di colpo e per poco non mi schiaccia la testa tra le ginocchia. Si accartoccia su sé stessa e si morde la mano per trattenere l’ennesimo urlo di dolore. Non sta andando bene.
La tempesta non vuole acquietarsi, pare incuriosita dallo spettacolo nella camera, fulmini e tuoni come invitati speciali. Ha smesso di grandinare. La pioggia cade fitta, una coltre che mi impedisce di scorgere persino il salice piantato dietro casa. Se continua di questo passo il lago si ingrosserà fino ad inghiottire l’intero lotto.
«Non ci riesco. Le forze mi stanno abbandonando.» Ansima, un raschio in fondo alla gola.
«Tenga duro signora, ci siamo quasi.» Sono un pessimo bugiardo.
«Smettila di chiamarmi signora! Il mio nome è Sicorace.»
La osservo rigirandomi le sillabe sulla lingua.
«Ascoltami bene, devi tagliare.»
«Devo fare cosa?» Faccio un passo indietro.
«Aprimi la pancia e tira fuori Calibano.»
«Non sono un chirurgo e nemmeno un macellaio. Io non sventro nessuno.»
«Devi incidere qui.» Mi indica un punto tra il ventre e il pube senza prestare ascolto alle mie proteste «Tanto così dovrebbe bastare.» Distanzia le mani di una spanna abbondante.
«Non ci penso proprio. E se qualcosa va storto?»
Digrigna i denti e chiude gli occhi per un istante.
«Qualcosa è già andato storto.»
Un lampo illumina la stanza a giorno. Il sudore le ha incollato i capelli radi al cranio, la pelle tirata sulle guance sembra la copertina di un libro inzuppata d’acqua e lasciata asciugare al sole, un occhio mi fissa, mentre l’altro se ne frega di me. Mi prende per il maglione e mi tira talmente vicino da farmi venire un conato per il tanfo: sangue, sporcizia e decomposizione.
«Devi toglierlo da lì, prima che mi divori da dentro! È chiaro ora?»
Muovo la testa. Vorrebbe essere un sì ma mi trema in tutte le direzioni.
Il pavimento della cucina è invaso di cocci e vetri. Evito di calpestarli anche se con la poca luce a disposizione non è facile. Le scarpe scricchiolano sulle schegge più minuscole, la gamba ferita trascinata più che sollevata. Dalla finestra entra odore di legno bagnato e il sentore salmastro del lago. Apro il cassetto della credenza e getto a terra forchette, cucchiai e mestoli. Nascosto dietro al mattarello c’è lo spelucchino in ceramica: non sarà un bisturi ma è la cosa più tagliente e precisa che ho in casa. Non sono molto convinto di questo taglio cesareo improvvisato. La immagino scannata e morente sul mio letto. Ho la nausea. Mi appoggio al lavandino con un saporaccio che mi risale la gola. Riempio un bicchiere d’acqua e lo ricaccio giù in una sorsata. Alzo la mano libera e trema, trema come le fronde del salice in questa terribile tempesta. Se non mi do una calmata sarà un disastro.
Sicorace ha ricominciato a gridare. Mi tappo le orecchie ma è inutile, la sua voce mi penetra nella testa. Non posso abbandonarla. Ci ho già provato e il fottuto senso di colpa mi ha fatto tornare indietro. Facciamo nascere questo poppante.
«Taglia in orizzontale, ma non troppo in profondità. E sta attento al bambino, non fargli del male, qualsiasi cosa succeda.»
«Cosa potrebbe succedere?» Le dita mi tremano.
«Non lo so, ma promettimi che non gli farai del male.»
«Non ce la faccio.» Piagnucolo.
Sicorace appoggia il palmo sulla mia mano sudata e le accompagna al ventre. Devo smetterla di frignare come un moccioso. Ce la posso fare. Ce la devo fare!
Spingo lo spelucchino sulla pelle tesa e un rigagnolo di sangue si perde nel pube, la vecchia mugugna appena, dev’essere nulla in confronto a tutto il dolore che ha patito.
«Così, bravo ragazzo. Non ti fermare.»
Il bambino scalcia e tira colpi, non gradisce quello che sto facendo. Tra poco sarai fuori di lì, non scaldarti tanto piccolo. Una bocca spalancata compare sotto la pelle tesa. Piccole fauci risucchiano e mordono un trancio di carne dall’interno. Sicorace si porta le mani al ventre con un ululato, i tuoni gioiscono in coro e anche la pioggia sembra diminuire d’intensità per ascoltare meglio il suo dolore.
«Ma che cazzo!»
Salto via dalla donna, il coltello mi scivola di mano finendo sul materasso tra le sue gambe. Sicorace lo cerca a tentoni con la mano rigonfia di vene bluastre. Lo afferra e se lo pianta nel ventre.
«No, no!»
Glielo strappo di mano e lo scaravento a terra, ma il danno è fatto: il taglio lungo due spanne gronda sangue. All’interno scorgo un piccolo cranio pelato. Le mie dita gli sfiorano la pelle ricoperta di liquido viscoso e inizia a strillare peggio della madre. Il corpicino rachitico è sormontato da una grossa testa ammaccata come una mela caduta dall’albero. Sul viso deforme gli occhi, uno più in basso dell’altro, sono chiusi e il piccolo naso schiacciato inspira a fatica. Espira dalla bocca piena di denti simili a quelli di un luccio marino. Tutta questa fatica per un abominio del genere? Sicorace lo osserva e sorride. Nonostante il dolore patito, nonostante la ferita aperta, nonostante tutto quello che ha passato lo ama, per il semplice fatto che è suo figlio.
«Portalo via, Setebo non deve averlo.» La testa le ricade all’indietro. Sotto al suo corpo minuto il sangue ha imbrattato tutto il materasso e sta gocciolando sul pavimento. Quanto può perderne un essere umano prima di morire?
«Sicorace? Sicorace!»
La scuoto e le braccia molli seguono il busto senza alcuna reazione.
«Chi è Setebo? Cosa devo farci io con questo marmocchio?»
La creatura che sembra un neonato mi stringe il pollice con dita troppo lunghe e piano piano si calma. Apre gli occhi neri e lividi e sembra soppesarmi.
«No, non farti illusioni, io non sono tuo padre.»
Non sa di essere mostruoso e in cuor suo non gli interessa particolarmente, lui vuole solo vivere. D’altro canto io voglio impedire che gli facciano del male.
Adagio la cesta di vimini imbottita sul fondo della barca e mi tolgo il ciuffo bagnato dagli occhi. L’asciugamano che la copre a mo’ di coperchio è già impregnato d’acqua. Sollevo un lembo e il piccolo Calibano allunga una manina nella mia direzione mostrando i denti raccapriccianti.
«Stai buono. Adesso ti porto da un’amica che si prenderà cura di noi.»
Marisa mi ammazza se mi presento da lei con un neonato, ma ho bisogno del suo aiuto. Dovrebbe essere brava coi bambini, i suoi cuginetti sono piccoli, o almeno credo. Oddio, avrei dovuto prestare più attenzione ai suoi noiosissimi racconti di famiglia.
Poi c’è da risolvere il problemino del cadavere squartato sul mio letto. Un dettaglio. Una quisquilia.
Merda!
Slego la gomena dal pontile e spingo la barca sull’acqua. Fulmini e tuoni accompagnano ogni mio movimento. Perlomeno la pioggia si è presa una pausa, gocce rade e fini ticchettano sulla superficie del lago. A destra i nuvoloni schiariscono in un grigio stinto illuminati dal sorgere del sole. Questa notte infinita sta per volgere al termine.
Remo verso l’altra sponda del lago. La fatica si accumula nelle braccia, ogni colpo un dolore che risale i muscoli fino alle spalle. La barca avanza zigzagando, anche se cerco di mantenerla più dritta possibile. Piccole onde increspano la superficie e si infrangono sullo scafo. Alcuni pesci guizzano a pelo d’acqua in direzione opposta alla nostra.
Nel chiarore dell’alba intravedo il molo della villa di Marisa, gli angoli della bocca mi si alzano in un sorriso.
Sbircio dentro la cesta. «Ci siamo quasi, mostriciattolo.»
Dorme, con i piedi stretti nelle mani, come una tartarughina rovesciata. Per un istante – uno solo – dimentico la follia di quella notte da incubo.
«Sei brutto forte. Dillo allo zio quanto sei brutto!» Gli solletico sotto al mento con l’indice.
Uno scossone fa ondeggiare la barca e la cesta si rovescia. Calibano scivola sulla tolda e vagisce. Me lo stringo al petto.
«Stai calmo piccoletto, ci sono io. Andrà tutto…»
Una massa enorme si solleva dal centro del lago con un verso gutturale, un boato da fare invidia ai tuoni. Lunghi tentacoli volteggiano come capelli scompigliati dal vento. La montagna di carne rugosa avanza con un rollio inquietante verso di noi.
«E questo che cazzo è?»