Laboratory Storm Delusion - Parte III

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Giacomo Puca
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Laboratory Storm Delusion - Parte III

Messaggio#1 » mercoledì 12 agosto 2020, 22:29

Laboratory Storm Delusion - Parte III

Dai Claudia, un passo, un altro. Piangerai a casa, va' in macchina e lascia questa montagna del cazzo.
Metto le mani in tasca: cellulare, rilevatore. Ah già, le chiavi sono nello zaino.
Lo zaino.
Mi blocco.
Tasto attorno al collo, sul petto. Cerco gli spallacci, anche se già so che non li troverò. Lo zaino è nel seminterrato, l'ho lasciato lì quando sono corsa di sopra.
Mi prendo a sberle sulla fronte «stupida, stupida, stupida!»
Le pacche suonano come percussioni su uno xilofono. Il cielo si sta riempiendo di nuovo di nubi iridescenti. Altre buone notizie ne abbiamo?
Niente da fare, devo tornare indietro. Preferirei togliermi un dente senza anestesia, fortuna che ho fatto giusto due tornanti.

Davanti casa il vecchio non c'è.
Busso alla porta. «Ehi, mi scusi. Ho scordato la borsa.» Speriamo non venga ad aprire col fucile.
«Te la porto.» La risposta è debole, lontana, eppure il fastidio è palpabile.
Lo aspetto guardandomi intorno, come passassi di lì per caso.
La porta si spalanca. Il vecchio tiene lo zaino con due dita, come fosse una carogna. La zip è ancora aperta, la roba è tutta sul punto di cadere.
«Ecco. Vattene.»
Certo che poteva chiuderlo. «Grazie mille.» Abbozzo un sorriso, prendo lo zaino.
Rovisto dentro, il vecchio tira fuori un accendino e una sigaretta.
Niente da fare, le chiavi non ci sono, e nemmeno la torcia.
Accende la sigaretta.
«Senta mi scusi è che,» gli mostro l'interno della borsa, «non ci sono le chiavi, saranno cadute. Potrebbe andare a controllare?» È impassibile dietro il velo di fumo.
«Se vuole vado io.»
Fa un tiro, leva la sigaretta dalle labbra e mi sputa in faccia una nuvola di fumo.
Tossico, mi stropiccio gli occhi. Stronzo.
«Sei scema o cosa? Vuoi vedere se ci sono altre bambine?» Fa un tiro, butta in alto il fumo.
«Scusi ancora, ma lei che avrebbe fatto?»
«Oh, certo, uccido qualcuno perché forse, non si sa, è un maniaco. Sparisci.»
Stringo le mani in preghiera. «Per favore. Se mi caccia senza darmi le chiavi, non è tanto diverso da me che la colpisco con la chiave inglese, sa.»
Butta la sigaretta, la schiaccia sotto la suola.
«Le cerco io e tu aspetti qua. In questa casa non ci entri.»
Sospiro, come se fosse una gran rinuncia non poter entrare in quel tugurio. «Va benissimo. L'aspetto qu—»
Uno schianto, qualcosa di grosso si rovescia nella baracca.
Mi piego di lato per guardare dentro «C'è qualcuno?»
Il vecchio mi squadra, fa un passo verso di me.
Dall'interno arriva un grido soffocato, vibrano colpi come di un gong preso a pugni.
Le mani del vecchio guizzano verso il mio collo, le evito per un soffio. Corro via, fino al bordo della gabbia. Mi volto, viene da me zoppicando. Prendo il rilevatore, lo sporgo oltre i tubi. Il lampeggio del led è fittissimo.
È ricominciata. Rimetto in tasca il rilevatore, do le spalle a un tubo.
Il vecchio è a quattro passi. «Che c'è, non volevi entrare?»
Tre passi.
Due passi. Non tremare, Claudia.
Un passo. Finto uno scatto a sinistra, ci casca, smanaccia ma sono dall'altro lato. È sbilanciato, lo spingo sulla schiena, rovina a terra, rotola fuori dalla gabbia.
Si guarda intorno, occhi sgranati, paonazzo. Prendere a sberle l'aria, come fosse circondato da una nuvola di api.
È tosta due volte in un giorno eh, pezzo di merda.
Corro in casa, scendo nel seminterrato. La torcia, per terra, è ancora accesa. Il fusto su cui avevo poggiato la borsa è rovesciato, dentro c'è la bambina, imbavagliata e con le mani legate. Scalcia contro l'interno del fusto, il suono è quello di gong che ho sentito prima.
La tiro via da lì, la slego, le tolgo il bavaglio. L'aiuto a rialzarsi.
L'occhio che era sano ora è serrato dal gonfiore, insanguinato. Un pugno recente.
«Ehi piccola, ma che ci facevi lì dentro?»
Fa spallucce. Il porco deve averla colpita e infilata nel barile, quando abbiamo riavviato la pompa.
«Adesso non ti preoccupare.» Raccolgo la torcia, dirigo il fascio luminoso negli anfratti tra i barili. Non pare esserci altro fuori posto.
La bambina tira su col naso, l'occhio meno gonfio lacrima. Si avvicina a un barile e lo accarezza.
«Dai, andiamo su.»
Mi fissa, continuando a sfiorare il barile.
«Devo aprirlo?»
La bambina si allontana dal fusto. Dev'essere un sì.
Sgancio la cravatta del coperchio, lo sollevo e lo poggio a terra.
Non c'è benzina, ma non è nemmeno il fluido cerebrospinale. Ha l'odore della salamoia delle olive al bar. Nel liquido galleggiano dei pezzi di carne sbiancata, sembrano cosce di pollo, e altri pezzi di chissà quale bestia. Non voglio nemmeno sapere che merda mangiava quello schifoso.
«Hai fame?» domando alla bambina. «Meglio non mangiare questa roba però. Quando ce ne andiamo ti porto da McDonald's.»
«Mauro.» mi dice.
«Mauro?» Prendo la torcia e mi guardo intorno. «C'è un altro bambino?»
Fa di sì con la testa, indica il barile con la salamoia «Mauro.»
Un fiotto di vomito mi risale in bocca, non lo trattengo, mi giro per non colpire la piccola.
Pulisco la bocca con il braccio, illumino ancora una volta i barili con la torcia. Decine e decine di barili. In quanti non c'è benzina o liquor?
Qualcosa di vetro, esplode, di sopra.
«Andiamocene!» Afferro la manina, l'aiuto a salire gli scalini, la seguo nel cesso.
Oltre la tenda da doccia si muove una sagoma, deformata dalla semi-trasparenza del telo.
Un fischio fende l'aria, travolge la tenda scampanellante. Il muro, a un palmo dalla mia testa, esplode. Piovono frammenti di mattoni sbriciolati.
La bambina scavalca il relitto della tenda e fugge, scartando il vecchio. Lui tira indietro la scure, la cosa che si è appena abbattuta sul muro, ed entra in bagno.
Indietreggio, sotto i miei talloni il pavimento sparisce, c'è un vuoto. Sono sull'orlo della botola.
Il vecchio mi fronteggia. La lama della scure è radente il muro, la punta del manico tocca la lamiera, tanto è stretto il cesso.
Un filo di sangue gli cola dal naso, tutta la camicia ne è impregnata.
«È scappata. Pure se mi uccidi sei fottuto.» lo schernisco.
Il vecchio sorride, i denti spaccati e insanguinati. «Certo, sono sicuro che a nove anni se la cava, con la tempesta.»
Inarca la schiena, impenna la scure, la lama sfiora il faretto.
È finita, sono morta.
«No!» urla la bambina, apparsa dal nulla. Balza contro la schiena del carnefice, spingendolo.
Il vecchio ondeggia, affonda un piede in avanti per recuperare l'equilibrio, basito. Pianta a terra il manico della scure e vi si regge, si volta verso la bambina, ringhiante. Forza sul bastone per rialzarsi.
Scatto in avanti, «non credo proprio.» gli dico. Sfrutto l'inerzia dello slancio per caricare la gamba, come battessi un rigore. Il puntale dello scarpone gli schianta l'inguine, maciulla i testicoli. Il vecchio si accartoccia sotto il peso dell'arma, ululante di dolore.
«Brutto figlio di puttana! Maniaco del cazzo!» Gli piazzo un calcio in faccia, lo schianto fa il rumore di pesche mature lanciate contro un muro.
Mi bolle il sangue, cazzo. «Mi hai fatto anche venire i sensi di colpa.» Un calcione dritto nei reni. Il vecchio boccheggia, la bocca si riempie di sangue e il boccheggiare diventa un gorgoglìo.
«Non ci sperare che finisce qui» gli dico. Stringo il manico dell'ascia, lo strattono. Non viene via, la sua presa è ancora troppo forte.
«Va beh, sai cosa? Buon viaggio.» Con la pianta dello scarpone lo faccio rotolare nella botola. Vola di sotto a peso morto, di faccia. Al tonfo si accompagnano i suoi lamenti e lo scricchiolare di articolazioni esplose.
Sgancio la scaletta, la tiro su, chiudo la botola.
La bambina mi fissa pietrificata.
«Adesso non può farti più niente.» La prendo per mano, la porto nello stanzone, la faccio sedere sul tavolo, vicino alla chiave inglese ancora sporca di sangue.
«Come ti chiami?»
«G-Giorgia»
«Bene io sono Claudia. Adesso dobbiamo restare un po' qui, perché fuori c'è una tempesta. Lo sai cosa sono le tempeste, sì?»
Annuisce
«Allora lo sai che non si può uscire.»
Fa sì con la testa.
Non voglio immaginare di quanta terapia avrà bisogno.
«Io adesso vado fuori a controllare una cosa. Tu promettimi che non ti muovi, e che qualsiasi cosa me la dici. Promessa di amiche?» Le porgo il palmo per un batti cinque, lei si ritrae coprendosi la testa. Quanto avrei voglia di scendere a torturare quel pezzo di merda.
Le accarezzo, vado fuori.
Allungo la mano con il rilevatore oltre la gabbia. Il led sfarfalla, la luce non fa in tempo a spegnersi per quanto lampeggia in fretta. La tempesta è al massimo, chissà quando potremo levarci dalle palle.
Torno dentro. «Tutto ok, Giorgia?»
Fa spallucce. «Ho sentito un colpo.»
«Ah, ma allora ogni tanto parli.» La accarezzo di nuovo. Vado in bagno. La pompa fa il rumore di sempre, sembra tutto in ordine.
Un colpo secco risuona dal seminterrato.
«Ah ah ah.»
Il vecchio se la ride.
«Uh uh uh.»
Apro la botola, mi sporgo.
È steso su un fianco, in una mano regge la scure, la presa sul manico è vicinissima alla lama.
Carica un colpo, impatta alla base di un fusto, colpendolo con lo spigolo appuntito. Dal suono che fa dev'essere un barile pieno.
Dà un secondo colpo, sul metallo si allarga un forellino, sgorga un liquido che impregna il terreno.
L'odore pungente è quello di benzina.
Il vecchio alza lo sguardo, il volto è una maschera tumefatta, brontola. «Cazzo se vi brucio.»
Merda! Abbatto il coperchio della botola, corro da Giorgia. La sua espressione è sgomenta, ha già capito che qualcosa non va.
«Vai fuori!» le urlo, vado verso uno scaffale, «aspettami vicino ai tubi, dal lato interno mi raccomando.»
Rovisto sui pianali: barattoli, cartacce, lame, ingranaggi, viti, chiodi, tubetti, lampadine, taniche, fascette, pennell—
Fascette! Sì, le fascette possono andare.
Una deflagrazione, una sorda frustata scuote il pavimento.
Il vecchio urla come un ossesso, cupi ululati sofferenti. Cristo si è dato fuoco sul serio. Dall'ingresso della stanzetta sgorga fumo nerissimo.
Via, cazzo, prima che il fuoco arrivi agli altri barili.
Esco fuori, la bambina mi aspetta vicino a un tubo, vado da lei.
«Siediti, spalle poggiate al tubo.»
Obbedisce, si siede a squadra, con le gambe protese in avanti.
Le prendo le caviglie e le avvolgo con una fascetta, lei si ritrae.
Con quello che ha passato non si farà legare nemmeno per sbaglio.
«Giorgia, ti devi fidare di me.»
Mi osserva in silenzio.
«La conosci la storia di Ulisse e le sirene?»
Scuote il capo.
«Ci sono delle sirene cattive, chiunque le sente cantare si butta in mare.» Mi volto, dalla porta della baracca erompono gonfie nuvole di fumo. «Allora Ulisse lo sai che cosa fa per non impazzire? Si fa legare mani e piedi, così non può buttarsi in acqua. Adesso facciamo lo stesso, così le sirene non ci possono fare niente. Ok?»
Tituba, non l'ho convinta.
«Ti prometto, Giorgia, che andrà tutto bene.»
Ci pensa su un attimo, mi porge le mani. Faccio passare le sue braccia dietro al tubo e le blocco con una fascetta, blocco anche le caviglie.
Mi sfilo la maglia, la strappo in due. Con una fascia di stoffa la bendo, così non vede niente, con l'altra la imbavaglio, così non si morde la lingua.
Mi avvicino al suo orecchio «Stai tranquilla. Le sirene ti faranno sentire un sacco di cose strane, ma non ti possono prendere.»
Vado al tubo più vicino, devo legarmi alla svelta.
Un vulcano fiammeggiante di detriti, lamiere, salamoia di bambini e succo di Lessie erutta dalla casa. La gabbia di Lentz è un ragno senza più addome, restano solo i tubi che spuntano dal terreno come zampette invischiate nella resina. Al posto della baracca crepita un cratere rovente.
Le fiamme sanno di paprika, il calore è una lingua verde, si infila tra i capelli, viscida. Oddio devo togliermela di dosso. Da terra prendo un cuscino, lo sollevo sulla testa, lo lascio cadere.



Apro gli occhi, davanti a me c'è un bel pezzo di medico. «Buongiorno signorina.»
«Che, chi...» Sono in un letto da ospedale. Di fianco ho lo schermo di un tracciato cardiaco col suo zig-zag.
«Piacere, dottor Ferri» Allunga la mano, gliela stringo. Un paio di tubicini mi spuntano dal braccio.
«Sai il tuo nome?»
«Claudia.»
«Perfetto. Ricordi altro?»
Un incendio, qualcosa da legare, è tutto così sfumato. «Giorgia! Come sta?»
Il tracciato cardiaco ha un picco, il macchinario fa un bip.
«Calmati, sta bene, se così si può dire.»
«Uff,» sbuffo, «meno male.»
«Sono onorato di averti in cura, Claudia.» Mi fa un sorriso da illuminare mezza stanza.
Oddio, sento caldo alle guance, starò arrossendo come una tredicenne.
«Grazie.» Ma con che voce l'ho detto? Oddio che figura.
«Senza di te Giorgia sarebbe stata la quinta vittima, sai?»
«Merd— accidenti. Io come sto?»
«Hai dormito dieci giorni, ma ti rimetterai del tutto. E lasciamelo dire, è stata un'idea geniale.»
«Uh?»
«La roccia che ti sei fatta cadere in testa, no? Senza svenire non saresti uscita viva dalla tempesta.»
«Beh sa com'è, roba da geologi.»
«Ah ah, buona questa.»
Sorrido, lui ricambia.
«E comunque devi darti una mossa a recuperare.»
«Perché?»
«Primo perché Giorgia ti vuole vedere.»
«E secondo?»
Mi dà le spalle, esce dalla stanza.
Ma che?
Si riaffaccia dalla porta, solo con la testa. «Secondo perché devi venire a cena con me, no?»
Sorride di nuovo, sparisce nel corridoio.




– Giacomo Puca –


In narrativa non esistono regole, ma se le rispetti è meglio.

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Re: Laboratory Storm Delusion - Parte III

Messaggio#2 » giovedì 13 agosto 2020, 0:23

Tutto ok con i caratteri, pronto per la valutazione!

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Re: Laboratory Storm Delusion - Parte III

Messaggio#3 » domenica 16 agosto 2020, 20:17

Un finale convincente, peccato per quella prima parte la cui lettura ho davvero trovato difficoltosa. Nella seconda e terza diventa più scorrevole e il tuo stile riesce a esprimersi e intrattere il lettore. Non succede nulla di così cataclismatico perché l'evolversi dei fatti era abbastanza prevedibile, ma diverte e intrattiene. Anche il finale è in linea con il tono anche lievemente scanzonato. In definitiva qui si arriva, al pelo, al pollice quasi su. In classifica rimani dietro ai racconti di Borchi e di Fagiolo perché hanno avuto un'evoluzione più regolare in tutte le loro parti.

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