Il Giardino segreto
Inviato: domenica 20 dicembre 2020, 10:58
Il Giardino segreto
di Alessio Magno
I polmoni gli andavano a fuoco.
Si piegò in avanti reggendosi sulle ginocchia, la visione del terreno frastagliato dalle radici appariva appannata dal sudore finito tra gli occhi, che ora gocciava dalla fronte sulle sneakers nuove ormai ridotte ad un colabrodo.
«Jane! Jaanee!»
La sua voce echeggiò in quell’incubo boscoso. Non rispose. Non aveva mai risposto, da quando era sparita poco prima.
Il cuore era un rullante che picchiava senza sosta.
Si asciugò il volto fradicio con la maglietta e guardò in alto, oltre le chiome degli alberi. C’era ancora luce. Quanta gliene sarebbe rimasta ancora? Cercò di orientarsi e capire quanta strada avesse fatto, ma a lui quel posto sembrava tutto uguale.
Di Jane non c’era traccia, non riusciva ancora a capire come fosse sparita. Un secondo prima era lì, davanti a lui, l’attimo dopo non c’era più. Senza emettere un rumore, un grido. Evaporata nel nulla.
Ormai era grande abbastanza da sapere che le persone non possono evaporare; come gli aveva insegnato suo fratello Liam c’era sempre una spiegazione logica a tutto, anche quando l’apparenza suggeriva il contrario. Soprattutto quando suggeriva il contrario. Ma allora perché si erano inoltrati oltre i sicuri confini del Giardino segreto, per finire in quello strano bosco apparso dal nulla? Non conosceva la strada per tornare indietro, era stata Jane a portarlo fin laggiù.
Era lei quella che sapeva orientarsi guardando il sole, che sapeva seguire le tracce, quella che amava esplorare i canneti fingendo di essere un’astuta avventuriera. Era la sua migliore amica. La sua unica amica.
Un pensiero angosciante si insinuò come un vermiciattolo e iniziò a dimenarsi nella sua mente, proprio come quelli giallastri e tozzi che infilzava all’amo suo padre, quando lo portava a pescare.
E se non fosse mai più tornato a casa?
Era terrorizzato.
Non avrebbe più rivisto i suoi, ma neanche Jane. Questo lo addolorava più che mai. Se ne vergognava, ma durante quell’estate era stata lei la sua vera famiglia. I suoi gli volevano bene, ma ormai non riuscivano più a dimostrarglielo... non dopo quello che era successo a Liam. Lei invece era arrivata come un dono dal cielo e da quel momento gli era rimasta sempre vicino.
I sensi di colpa iniziarono a crescergli dentro come edera velenosa. Quello che era accaduto a suo fratello l’anno scorso era stata tutta colpa sua. E adesso in qualche modo, forse stava accadendo la stessa cosa con Jane.
***
«Adam, prendi gli scatoloni con le tue cose e portale in camera» squittì allegra sua madre. «Su su, forza!»
«...Si ma’.»
Afferrò una delle pesanti scatole e la portò nella sua nuova stanza, impregnata dall’odore di vernice.
Avevano cambiato casa per portare una ventata d’aria fresca nelle loro vite, dopo la morte di Liam. Un nuovo inizio per tutti. Mentre tornava indietro a prendere le altre scatole, si domandò quanto gli effetti di quel cambiamento sarebbero durati.
Trovò la risposta due settimane dopo, quando una sera suo padre rientrò molto tardi a casa. Barcollava, aveva la faccia sconvolta e biascicava le parole. Sapeva che era solo questione di tempo prima che riaccadesse, come in passato.
A differenza loro, lui non credeva ai miracoli. Lo vide aggredire sua madre per avergli fatto trovare la cena fredda, frantumare il piatto a terra e andarsene chissà dove così com’era tornato. Lei pianse moltissimo.
C’era un’analogia per lui, tra quel piatto e sua madre. Entrambi erano solo cocci, un lontano ricordo di com’era prima del disastro. Avrebbe voluto consolarla e lasciarsi andare, dirle che lui non l’avrebbe mai delusa, ma aveva paura della sua reazione, perché in realtà l’aveva già delusa. E quella delusione era stata la causa di tutto.
Col cuore spaccato a metà corse a piangere nella sua stanza.
In una metà s’insidiavano i sensi di colpa per ciò che era accaduto a Liam, nell’altra invece si celava l’innegabile esigenza di essere compreso, di ricevere un abbraccio che avrebbe confutato tutte le sue angosce. Non riusciva a smettere di pensarci, mentre inzuppava il cuscino in preda a quell’insopportabile condizione, che andava ormai avanti da più di un anno.
La cosa che lo devastava era che Liam lo avrebbe compreso. Gli sarebbe stato vicino a modo suo; uno scappellotto sulla testa seguito da un discorso sull’ottimismo e sul credere in sé stessi. Liam era quello bravo a scuola, quello che riusciva a far amicizia con chiunque, quello che sapeva esattamente ciò che voleva dalla vita. L’esatto opposto di lui.
Pianse talmente tanto da svuotarsi di ogni emozione; le uniche certezze che possedeva iniziarono a colmarlo come un contenitore vuoto. Suo fratello non c’era più, una certezza che non sarebbe mai cambiata, per il resto dei suoi giorni.
***
Scoprì che l’odore di erba umida tipica del mattino presto gli piaceva moltissimo.
Si fece strada nella sterpaglia, in quella che era sia una passeggiata che una sorta di esplorazione, rimuginando su quella nuova sensazione di libertà. L’unico lato davvero positivo del trasloco era che adesso poteva finalmente allontanarsi da solo, cosa che prima non gli era consentito; andare a zonzo era fuori discussione, per via del vecchio quartiere poco raccomandabile. Poteva farlo solo con Liam al massimo e mai di sera.
Ma ora aveva ben tredici anni e vivevano in una modesta villetta in periferia, una zona dove il verde non mancava e ovunque volgesse lo sguardo era pieno di canneti, sterpaglie e terreni incolti, caduti in disuso o comunque tenuti male.
Gli sembrava più una piccola giungla dove avevano costruito abitazioni qua e là di tanto in tanto, che c’entravano ben poco col resto. Fatto sta che sua madre gli permetteva di andarci a zonzo, tanto gli bastava per alzare l’asticella del morale di almeno un paio di tacche.
Continuò ad avanzare cauto, quando si imbatté in una recinzione arrugginita parzialmente divelta dal terreno. Scavalcò la rete a terra, certo di non trovarvi nessuno oltre, quando la vide. Una spuma di seta rossastra che danzava a piedi nudi attorno ad un maestoso albero, tra graziosi fiori gialli e bianchi che non aveva mai visto prima.
Avvertì un ardore sulle guance, che in qualche strano modo comunicava con lo stomaco e col basso ventre.
Andò nel panico.
Cercò di indietreggiare, ma incespicò sulla recinzione e cadde di schiena, facendo un gran baccano. Sperò con tutto il cuore che la ragazza non lo avesse sentito.
«Ciao. Vuoi una mano?»
Era certo fosse abbastanza lontana! Come faceva a trovarsi già lì?
«Eh? N-no, faccio da solo.»
«...Sicuro?»
Fece forza sulle braccia tremanti. Ci provò un paio di volte, ma non riusciva a districarsi da quel maledetto groviglio ferroso.
«A me sembra proprio di no.»
Senza dire altro lei afferrò la sua mano impiastrata di terriccio e lo aiutò a tirarsi su.
«Non bisogna provare vergogna a chiedere aiuto. A volte è necessario.»
La sua voce era acqua dissetante dopo una giornata di marcia nel deserto.
«...Grazie. Davvero.»
Lei gli sorrise.
«Mi chiamo Jane.»
«Io sono Adam.»
«Quanti anni hai?»
«Tredici... tu invece?»
«...Un po' più grande di te.»
Ammiccò, si sistemò una ciocca fiammante poi si fece tutta seria.
«Che ci facevi qui? Mi spiavi?»
«Cosa? No no!»
«E cosa allora?»
«Io... stavo passeggiando. Poi ti ho vista e... non ti stavo spiando!»
Lei rise di gusto e lo afferrò per le spalle, guardandolo dritto negli occhi.
Le guance tornarono a infuocarsi. Il tempo smise di passare, fermato da quell’oceano di smeraldo.
«Sto scherzando!»
Corse via ridendo a crepapelle.
«Vieni con me!»
Le gambe erano due tronconi. Dovette far ricorso a tutta la sua volontà per seguirla verso il campo di fiori, ai piedi dell’albero, dove aveva subito ricominciato a danzare. Venne rapito dalle sue cosce candide, nude fin dove i calzoncini in jeans concedevano, e dai muscoli tesi e ben delineati. Era uno strano volteggiare il suo, quel saltellare aggraziato qua e là.
Nella sua mente si fece strada la visione di una goccia d’acqua solitaria che scivolava tra i fiori, slittava da un petalo all’altro cercando di sfuggire al suo inesorabile destino di svanire nella nuda terra.
Jane si fermò di colpo, senza un filo di affanno, e allungò il braccio in sua direzione.
«Danza con me.»
«...Cosa?»
«Avanti, è bellissimo!»
«Io... io non...»
«Ti sentirai un altro dopo, fidati!»
«I maschi... i ragazzi non danzano!»
«E chi lo dice? La tua è solo paura. È naturale, ma la paura è solamente un freno alle cose più belle. Non farti pregare, danza con me!»
Se prima erano solo le gambe ad essere un tronco, adesso era una corteccia umana, come quell’albero, quel maestoso essere vivente che stava ricevendo in dono la danza di quella strana ragazza. Non poteva riuscirci, doveva fuggire via subito da lì. Poi lei afferrò la sua mano e tutto si sciolse in un istante, come il disgelo portato dalla primavera dopo un lunghissimo inverno. Danzarono attorno all’albero per un minuto o forse un’ora. Danzarono fino a dimenticare ogni dolore che ristagnava nel suo cuore da più di un anno.
***
La sveglia suonò di buon’ora, interrompendo uno strano sogno che aveva già rimosso.
Si lanciò a preparare la colazione, che consumò in fretta. Salutò sua madre, intenta a spegnere l’ennesimo mozzicone nel posacenere saturo, già affossata sul divano di fronte la tv. Non ricambiò il saluto.
Uscì a testa bassa, richiudendo piano la porta.
Scacciò lo sconforto respirando a pieni polmoni l’aria fresca del mattino, diretto al Giardino segreto. Così l’aveva chiamato Jane il primo giorno. Alcune volte capitava a lui di arrivare per primo, ma quasi sempre lei era già lì, tra i fiori e il grande albero. Si erano incontrati tutti i giorni, una routine consolidata per tutta l’estate, che ora volgeva al termine.
Era stata la più bella di tutta la sua vita.
Avevano trascorso le loro giornate a danzare e giocare a rincorrersi a perdifiato, a girovagare per i canneti fingendo di lanciarsi all’avventura; oppure a parlare di mille cose diverse, passando da storie di fantasia a fatti reali accaduti a entrambi e difficili da affrontare. Jane aveva sempre una risposta per ogni dilemma e riusciva a sciogliere tutti i nodi nel suo cuore, qualunque essi fossero.
Quella mattina di fine estate la passarono giocando, ma durante il pomeriggio, all’ombra dell’albero, le cose si erano fatte davvero serie. Lei parlò di suo padre e di come l’aveva abbandonata quand’era piccola, di come sua madre non abbia retto al colpo. Lui, in tutta risposta, raccontò della morte di suo fratello Liam, appena accennata durante l’estate.
«Cosa significa che è colpa tua?» domandò lei irrigidendosi. «Non avrai mica...»
«L’ho ucciso io.»
Jane si portò la mano alla bocca.
«Se vuoi ti spiego come.»
Lei annuì, senza distogliere gli occhi spauriti dai suoi.
«Un anno fa... anzi ormai di più. Eravamo al lago... sai, mio padre amava pescare, anche se preferiva il fiume... ma quel giorno andammo al lago. Mio fratello aveva insistito.»
Rivide tutto con gli occhi della memoria; davanti a lui non c’erano più i dolci riccioli di Jane, ma una distesa d’acqua piatta e grigiastra e l’ombra di una sensazione sgradevole.
«...La pesca è noiosa sai. Cioè, non mi dispiace, ma il tempo non ti passa mai. Liam la odiava. La prima cosa che fece appena arrivati fu tuffarsi, poi io lo seguii e giocammo a palla tutto il tempo. Fu un bel pomeriggio...»
«E poi?»
«...Accadde in un attimo. Qualcosa mi afferrò la gamba e mi trascinò sul fondo. Non ricordo altro.»
Jane lo guardò accigliata.
«...Come hai-»
«Mi risvegliai tra le braccia di mio padre. Non smetteva di piangere, anche se ero vivo. Mio fratello... mi aveva salvato. Da allora mio padre non si perdona la sua... mancanza di attenzione. E anche mia madre. Lei non perdona entrambi.»
Rimasero in silenzio a lungo. Jane lo fissava, incredula.
«...Adam, non l’hai ucciso tu. Lo sai, vero?»
«...Invece si.»
«Invece no! È stato un incidente!»
Lo sapeva, ma i sensi di colpa lo divoravano. Se solo avesse detto a Liam che era stanco e avrebbe voluto tornare a riva... ma voleva dimostrargli che poteva essere come lui, poteva giocare a palla e nuotare ed essere sportivo, essere il fratello che meritava di avere. Se non fosse stato uno sfigato non avrebbe sentito l’impulso di dimostrare il contrario e Liam sarebbe ancora vivo. Il resto non gli importava, ma odiava non ricordare. C’era solo l’attimo in cui respirava e quello dopo nell’oscurità. In mezzo nulla. Solo... ombre.
Un tocco umido e fresco lo riportò nel presente.
Jane lo stava baciando sulla fronte.
Tornò quell’intensa sensazione viscerale, piacevole ma anche fastidiosa. La scacciò via e rimase solo il bacio. Adesso era come il bacio di una madre.
«In cuor tuo sai che non hai colpa, quindi non dartene.»
Lo baciò ancora. Si lasciò abbracciare, poggiò la testa sopra i suoi piccoli seni. Quello era l’abbraccio che aveva desiderato tante volte. Avrebbe potuto rimanere così per sempre.
«La vita è questo... un eterno conflitto tra noi e il mondo. E nel frattempo le cose care ci scivolano via tra le mani. Ma sai cos’è l’unica cosa che conta davvero?»
«...Cosa?»
«La memoria. Ricordare e onorare il valore del ricordo e ciò che ha significato per noi, non c’è altro di più importante. Se ti tormenti così, non gli rendi onore.»
Pianse, ma non se ne vergognò. Con lei poteva.
Rimasero così un altro po', poi si alzarono. Lei lo prese per mano e gli sussurrò:
«Vieni con me. Ora sei pronto.»
***
Il cielo infuocato andava spegnendosi sfumando in un blu grigiastro, il che significava essere davvero nei guai.
Era infreddolito e affamato e stava odiando il sudore freddo che gli incollava la maglietta. Camminava molto più lentamente adesso, i rumori del bosco iniziavano a farsi minacciosi e non riusciva a vedere più nulla.
Una parte di sé odiava Jane, l’altra era incredula, un’altra ancora curiosa ma atterrita e nessuna prevaleva sull’altra.
Iniziò a credere anche che le fosse capitato qualcosa di brutto, quando vide con la coda dell’occhio una ciocca rossa involarsi dietro gli alberi.
«Jane!»
Corse verso la macchia boscosa, ma non c’era nessuno. Sentì la sua risata inconfondibile in lontananza, dove la macchia era ancora più compatta. Inspirò a pieni polmoni e riprese a correre. Si infilò attraversò una fenditura tra gli alberi, una fitta rete di grovigli e rami che sembrava non finire mai; un corridoio oscuro di alberi spogli e avvizziti, del tutto diversi da quelli al di fuori, via via sempre più stretto, tanto che alla fine ci passava appena. Una volta uscito, la fenditura si richiuse alle sue spalle come una zip. Ciò che vide lo lasciò a bocca aperta.
«Ciao, vuoi una mano?»
«Questo è...»
«Il Giardino segreto? Si. Quello vero.»
Quello era il loro Giardino, ma non era lo stesso. I fiori gialli e bianchi adesso erano di un blu spettrale e risplendevano sotto il chiarore di una meravigliosa luna piena. E l’albero... era la cosa più assurda mai vista. Effondeva un bagliore vibrante, ondate di luce pulsanti che si facevano tenui e poi di nuovo intense; era come assistere al respiro profondo di un essere ultraterreno. Incastonato nella corteccia, c’era un enorme specchio.
Jane lo attendeva accanto all’albero.
«Vieni, Adam.»
Si avvicinò cauto, ma le gambe molli andavano da sole.
Lo specchio rifletteva la sua immagine, ma quando Jane si avvicinò cingendolo, continuava ad essere solo. Iniziò a tremare, colto dal panico.
«...Chi sei tu?»
«Jane. Sai bene chi sono.»
«No... no! Tu non esisti... non sei reale!»
«Solo perché non ho un riflesso? Nulla è come sembra Adam, ma se entrerai nello specchio lo capirai.»
«Entrare...?»
«Sono stata davvero bene con te, più che con qualsiasi altro ragazzino. Ne ho conosciuti molti sai? Ma... è tempo di salutarci.»
«Non capisco... Jane, che significa?»
Lei gli sorrise, come la prima volta, poi lo spinse contro lo specchio.
«Addio, Adam.»
Si protesse mettendo le mani avanti ma non ci fu nessun impatto.
Cadde invece in un vuoto avvolto da un turbinio di colori, per poi atterrare dentro quella che sembrava un’aula.
Un bambino circondato da altri bambini attirò la sua attenzione; lo schernivano di continuo, senza tregua. Si avvicinò per sentire meglio, ma poi tutto sfumò.
Piombò in un’altra classe, più grande e spoglia. Il bambino era cresciuto, aveva più o meno la sua età. Lo spettacolo fu identico, ma le vessazioni si erano fatte atti di bullismo vere e proprie. Provò compassione, sapeva bene cosa si prova in situazioni del genere, di come alcune persone sappiano essere tanto cattive sin da piccole.
Tutto vorticò di nuovo.
Adesso era in un cortile malandato, un gruppo di ragazzi stavano pestando qualcuno, ma non riusciva a vedere bene. Quando se ne andarono si avvicinò e, con un balzo al cuore, riconobbe il volto tumefatto.
A quale assurdità stava assistendo? Liam era una leggenda a scuola, ben voluto da tutti! Perché adesso giaceva lì, privo di sensi e pestato a sangue? Cercò di afferrarlo per la collottola, quando ancora una volta tutto sparì in un mulinello di luce.
Tornò a cadere nel vuoto, fino ad impattare in un tuffo fragoroso. Si ritrovò immerso nell’acqua ma non ne sentiva il peso, era come volare. Perché Jane lo aveva portato laggiù?
«Adam.»
Quella voce...
«Liam... sei tu!»
Lui gli sorrise malinconico.
«Eri tu quel bambino? Era… tutto vero?»
«Io e te siamo molto più simili di quanto pensi, sai? Troppi pensieri per la testa, sempre a crederci peggiori di quel che siamo...»
«Liam…»
«Mamma e papà lo sapevano, ma non te ne hanno mai parlato. Io non te ne ho mai parlato. Per te era meglio avere un fratello normale da prendere come esempio.»
«...Era tutto finto?»
«Sono sempre io, Adam. Ma la mia vita è sempre stata così, tutti i giorni, lo hai visto. Poi dopo la fine della scuola le cose andarono meglio, ma... certe esperienze ti lasciano un segno indelebile dentro. Era troppo per me.»
«Cosa significa... ah!»
«Si.»
«Non è vero! Non ci credo!»
«Quel giorno... avevo già deciso, ma non era previsto che tu rischiassi di annegare. Fu l’occasione perfetta e la colsi al volo. L’epilogo di una lunga pianificazione... non è mai stata colpa tua. Puoi odiarmi se vuoi ma... perdonami Adam, ti prego.»
Aveva il cuore in fiamme. Era stata tutta una menzogna.
Avrebbe voluto prenderlo a pugni e urlare, ma una voce nel fondo della coscienza gli ricordò come si era sentito quelle volte in cui anche lui era stato maltrattato, quell’orribile oppressione che ti porta a desiderare di sparire per sempre.
Liam l’aveva fatto, aveva ceduto, era sparito.
«...E Jane?»
«Lei è una guardiana dei confini. Sai... quelli tra i vivi e i morti. Mi ha raccontato che di tanto in tanto prende a cuore certi umani.»
«Incredibile...»
«Adam... mentre ero avvolto nell’oscurità riuscivo a sentire il cinguettio degli uccelli. Mi sembrava assurdo, ma era un suono nitido, chiaro come il sole che brillava più in alto. Solo in quel momento ho capito di aver sbagliato.»
Liam gli si avvicinò, era uguale a quell’ultimo giorno.
«Annegare è terribile. Se potessi tornare indietro non lo rifarei ma... adesso il dolore è sparito per sempre. Sono libero.»
Lacrime bollenti iniziarono a rigargli il viso. Lo abbracciò come non aveva mai fatto in vita, lo strinse forte e lui fece lo stesso.
«Ti voglio bene, Liam.»
Si sentì arpionare all’ombelico, trascinato nuovamente nel turbine di luci, ma stavolta veniva spinto verso l’alto. Buio.
Si risvegliò riverso a terra, sopra di lui il cielo stellato andava a schiarirsi. Era quasi l’alba.
L’albero del Giardino segreto si stagliava imponente, lo specchio era sparito e i fiori erano tornati i soliti. Tutto sembrava normale. Si alzò scrollando il terriccio dai jeans.
Aveva ragione Jane. Nulla è come sembra.
Quel giardino, suo fratello... tutto ciò che esiste al mondo. La verità si cela agli occhi di chi non sa osservare e giudica solo attraverso pregiudizi.
Era terribilmente dispiaciuto per Jane, gli sarebbe mancata per tutta la vita. E la verità su Liam era così dolorosa da lacerargli il petto. Ma adesso poteva affrontare la sua famiglia e sé stesso senza filtri e senza menzogne, un nuovo inizio, stavolta reale. Diede un ultimo sguardo al Giardino, conscio che non l’avrebbe mai più rivisto, poi sparì, oltre le siepi.
di Alessio Magno
I polmoni gli andavano a fuoco.
Si piegò in avanti reggendosi sulle ginocchia, la visione del terreno frastagliato dalle radici appariva appannata dal sudore finito tra gli occhi, che ora gocciava dalla fronte sulle sneakers nuove ormai ridotte ad un colabrodo.
«Jane! Jaanee!»
La sua voce echeggiò in quell’incubo boscoso. Non rispose. Non aveva mai risposto, da quando era sparita poco prima.
Il cuore era un rullante che picchiava senza sosta.
Si asciugò il volto fradicio con la maglietta e guardò in alto, oltre le chiome degli alberi. C’era ancora luce. Quanta gliene sarebbe rimasta ancora? Cercò di orientarsi e capire quanta strada avesse fatto, ma a lui quel posto sembrava tutto uguale.
Di Jane non c’era traccia, non riusciva ancora a capire come fosse sparita. Un secondo prima era lì, davanti a lui, l’attimo dopo non c’era più. Senza emettere un rumore, un grido. Evaporata nel nulla.
Ormai era grande abbastanza da sapere che le persone non possono evaporare; come gli aveva insegnato suo fratello Liam c’era sempre una spiegazione logica a tutto, anche quando l’apparenza suggeriva il contrario. Soprattutto quando suggeriva il contrario. Ma allora perché si erano inoltrati oltre i sicuri confini del Giardino segreto, per finire in quello strano bosco apparso dal nulla? Non conosceva la strada per tornare indietro, era stata Jane a portarlo fin laggiù.
Era lei quella che sapeva orientarsi guardando il sole, che sapeva seguire le tracce, quella che amava esplorare i canneti fingendo di essere un’astuta avventuriera. Era la sua migliore amica. La sua unica amica.
Un pensiero angosciante si insinuò come un vermiciattolo e iniziò a dimenarsi nella sua mente, proprio come quelli giallastri e tozzi che infilzava all’amo suo padre, quando lo portava a pescare.
E se non fosse mai più tornato a casa?
Era terrorizzato.
Non avrebbe più rivisto i suoi, ma neanche Jane. Questo lo addolorava più che mai. Se ne vergognava, ma durante quell’estate era stata lei la sua vera famiglia. I suoi gli volevano bene, ma ormai non riuscivano più a dimostrarglielo... non dopo quello che era successo a Liam. Lei invece era arrivata come un dono dal cielo e da quel momento gli era rimasta sempre vicino.
I sensi di colpa iniziarono a crescergli dentro come edera velenosa. Quello che era accaduto a suo fratello l’anno scorso era stata tutta colpa sua. E adesso in qualche modo, forse stava accadendo la stessa cosa con Jane.
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«Adam, prendi gli scatoloni con le tue cose e portale in camera» squittì allegra sua madre. «Su su, forza!»
«...Si ma’.»
Afferrò una delle pesanti scatole e la portò nella sua nuova stanza, impregnata dall’odore di vernice.
Avevano cambiato casa per portare una ventata d’aria fresca nelle loro vite, dopo la morte di Liam. Un nuovo inizio per tutti. Mentre tornava indietro a prendere le altre scatole, si domandò quanto gli effetti di quel cambiamento sarebbero durati.
Trovò la risposta due settimane dopo, quando una sera suo padre rientrò molto tardi a casa. Barcollava, aveva la faccia sconvolta e biascicava le parole. Sapeva che era solo questione di tempo prima che riaccadesse, come in passato.
A differenza loro, lui non credeva ai miracoli. Lo vide aggredire sua madre per avergli fatto trovare la cena fredda, frantumare il piatto a terra e andarsene chissà dove così com’era tornato. Lei pianse moltissimo.
C’era un’analogia per lui, tra quel piatto e sua madre. Entrambi erano solo cocci, un lontano ricordo di com’era prima del disastro. Avrebbe voluto consolarla e lasciarsi andare, dirle che lui non l’avrebbe mai delusa, ma aveva paura della sua reazione, perché in realtà l’aveva già delusa. E quella delusione era stata la causa di tutto.
Col cuore spaccato a metà corse a piangere nella sua stanza.
In una metà s’insidiavano i sensi di colpa per ciò che era accaduto a Liam, nell’altra invece si celava l’innegabile esigenza di essere compreso, di ricevere un abbraccio che avrebbe confutato tutte le sue angosce. Non riusciva a smettere di pensarci, mentre inzuppava il cuscino in preda a quell’insopportabile condizione, che andava ormai avanti da più di un anno.
La cosa che lo devastava era che Liam lo avrebbe compreso. Gli sarebbe stato vicino a modo suo; uno scappellotto sulla testa seguito da un discorso sull’ottimismo e sul credere in sé stessi. Liam era quello bravo a scuola, quello che riusciva a far amicizia con chiunque, quello che sapeva esattamente ciò che voleva dalla vita. L’esatto opposto di lui.
Pianse talmente tanto da svuotarsi di ogni emozione; le uniche certezze che possedeva iniziarono a colmarlo come un contenitore vuoto. Suo fratello non c’era più, una certezza che non sarebbe mai cambiata, per il resto dei suoi giorni.
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Scoprì che l’odore di erba umida tipica del mattino presto gli piaceva moltissimo.
Si fece strada nella sterpaglia, in quella che era sia una passeggiata che una sorta di esplorazione, rimuginando su quella nuova sensazione di libertà. L’unico lato davvero positivo del trasloco era che adesso poteva finalmente allontanarsi da solo, cosa che prima non gli era consentito; andare a zonzo era fuori discussione, per via del vecchio quartiere poco raccomandabile. Poteva farlo solo con Liam al massimo e mai di sera.
Ma ora aveva ben tredici anni e vivevano in una modesta villetta in periferia, una zona dove il verde non mancava e ovunque volgesse lo sguardo era pieno di canneti, sterpaglie e terreni incolti, caduti in disuso o comunque tenuti male.
Gli sembrava più una piccola giungla dove avevano costruito abitazioni qua e là di tanto in tanto, che c’entravano ben poco col resto. Fatto sta che sua madre gli permetteva di andarci a zonzo, tanto gli bastava per alzare l’asticella del morale di almeno un paio di tacche.
Continuò ad avanzare cauto, quando si imbatté in una recinzione arrugginita parzialmente divelta dal terreno. Scavalcò la rete a terra, certo di non trovarvi nessuno oltre, quando la vide. Una spuma di seta rossastra che danzava a piedi nudi attorno ad un maestoso albero, tra graziosi fiori gialli e bianchi che non aveva mai visto prima.
Avvertì un ardore sulle guance, che in qualche strano modo comunicava con lo stomaco e col basso ventre.
Andò nel panico.
Cercò di indietreggiare, ma incespicò sulla recinzione e cadde di schiena, facendo un gran baccano. Sperò con tutto il cuore che la ragazza non lo avesse sentito.
«Ciao. Vuoi una mano?»
Era certo fosse abbastanza lontana! Come faceva a trovarsi già lì?
«Eh? N-no, faccio da solo.»
«...Sicuro?»
Fece forza sulle braccia tremanti. Ci provò un paio di volte, ma non riusciva a districarsi da quel maledetto groviglio ferroso.
«A me sembra proprio di no.»
Senza dire altro lei afferrò la sua mano impiastrata di terriccio e lo aiutò a tirarsi su.
«Non bisogna provare vergogna a chiedere aiuto. A volte è necessario.»
La sua voce era acqua dissetante dopo una giornata di marcia nel deserto.
«...Grazie. Davvero.»
Lei gli sorrise.
«Mi chiamo Jane.»
«Io sono Adam.»
«Quanti anni hai?»
«Tredici... tu invece?»
«...Un po' più grande di te.»
Ammiccò, si sistemò una ciocca fiammante poi si fece tutta seria.
«Che ci facevi qui? Mi spiavi?»
«Cosa? No no!»
«E cosa allora?»
«Io... stavo passeggiando. Poi ti ho vista e... non ti stavo spiando!»
Lei rise di gusto e lo afferrò per le spalle, guardandolo dritto negli occhi.
Le guance tornarono a infuocarsi. Il tempo smise di passare, fermato da quell’oceano di smeraldo.
«Sto scherzando!»
Corse via ridendo a crepapelle.
«Vieni con me!»
Le gambe erano due tronconi. Dovette far ricorso a tutta la sua volontà per seguirla verso il campo di fiori, ai piedi dell’albero, dove aveva subito ricominciato a danzare. Venne rapito dalle sue cosce candide, nude fin dove i calzoncini in jeans concedevano, e dai muscoli tesi e ben delineati. Era uno strano volteggiare il suo, quel saltellare aggraziato qua e là.
Nella sua mente si fece strada la visione di una goccia d’acqua solitaria che scivolava tra i fiori, slittava da un petalo all’altro cercando di sfuggire al suo inesorabile destino di svanire nella nuda terra.
Jane si fermò di colpo, senza un filo di affanno, e allungò il braccio in sua direzione.
«Danza con me.»
«...Cosa?»
«Avanti, è bellissimo!»
«Io... io non...»
«Ti sentirai un altro dopo, fidati!»
«I maschi... i ragazzi non danzano!»
«E chi lo dice? La tua è solo paura. È naturale, ma la paura è solamente un freno alle cose più belle. Non farti pregare, danza con me!»
Se prima erano solo le gambe ad essere un tronco, adesso era una corteccia umana, come quell’albero, quel maestoso essere vivente che stava ricevendo in dono la danza di quella strana ragazza. Non poteva riuscirci, doveva fuggire via subito da lì. Poi lei afferrò la sua mano e tutto si sciolse in un istante, come il disgelo portato dalla primavera dopo un lunghissimo inverno. Danzarono attorno all’albero per un minuto o forse un’ora. Danzarono fino a dimenticare ogni dolore che ristagnava nel suo cuore da più di un anno.
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La sveglia suonò di buon’ora, interrompendo uno strano sogno che aveva già rimosso.
Si lanciò a preparare la colazione, che consumò in fretta. Salutò sua madre, intenta a spegnere l’ennesimo mozzicone nel posacenere saturo, già affossata sul divano di fronte la tv. Non ricambiò il saluto.
Uscì a testa bassa, richiudendo piano la porta.
Scacciò lo sconforto respirando a pieni polmoni l’aria fresca del mattino, diretto al Giardino segreto. Così l’aveva chiamato Jane il primo giorno. Alcune volte capitava a lui di arrivare per primo, ma quasi sempre lei era già lì, tra i fiori e il grande albero. Si erano incontrati tutti i giorni, una routine consolidata per tutta l’estate, che ora volgeva al termine.
Era stata la più bella di tutta la sua vita.
Avevano trascorso le loro giornate a danzare e giocare a rincorrersi a perdifiato, a girovagare per i canneti fingendo di lanciarsi all’avventura; oppure a parlare di mille cose diverse, passando da storie di fantasia a fatti reali accaduti a entrambi e difficili da affrontare. Jane aveva sempre una risposta per ogni dilemma e riusciva a sciogliere tutti i nodi nel suo cuore, qualunque essi fossero.
Quella mattina di fine estate la passarono giocando, ma durante il pomeriggio, all’ombra dell’albero, le cose si erano fatte davvero serie. Lei parlò di suo padre e di come l’aveva abbandonata quand’era piccola, di come sua madre non abbia retto al colpo. Lui, in tutta risposta, raccontò della morte di suo fratello Liam, appena accennata durante l’estate.
«Cosa significa che è colpa tua?» domandò lei irrigidendosi. «Non avrai mica...»
«L’ho ucciso io.»
Jane si portò la mano alla bocca.
«Se vuoi ti spiego come.»
Lei annuì, senza distogliere gli occhi spauriti dai suoi.
«Un anno fa... anzi ormai di più. Eravamo al lago... sai, mio padre amava pescare, anche se preferiva il fiume... ma quel giorno andammo al lago. Mio fratello aveva insistito.»
Rivide tutto con gli occhi della memoria; davanti a lui non c’erano più i dolci riccioli di Jane, ma una distesa d’acqua piatta e grigiastra e l’ombra di una sensazione sgradevole.
«...La pesca è noiosa sai. Cioè, non mi dispiace, ma il tempo non ti passa mai. Liam la odiava. La prima cosa che fece appena arrivati fu tuffarsi, poi io lo seguii e giocammo a palla tutto il tempo. Fu un bel pomeriggio...»
«E poi?»
«...Accadde in un attimo. Qualcosa mi afferrò la gamba e mi trascinò sul fondo. Non ricordo altro.»
Jane lo guardò accigliata.
«...Come hai-»
«Mi risvegliai tra le braccia di mio padre. Non smetteva di piangere, anche se ero vivo. Mio fratello... mi aveva salvato. Da allora mio padre non si perdona la sua... mancanza di attenzione. E anche mia madre. Lei non perdona entrambi.»
Rimasero in silenzio a lungo. Jane lo fissava, incredula.
«...Adam, non l’hai ucciso tu. Lo sai, vero?»
«...Invece si.»
«Invece no! È stato un incidente!»
Lo sapeva, ma i sensi di colpa lo divoravano. Se solo avesse detto a Liam che era stanco e avrebbe voluto tornare a riva... ma voleva dimostrargli che poteva essere come lui, poteva giocare a palla e nuotare ed essere sportivo, essere il fratello che meritava di avere. Se non fosse stato uno sfigato non avrebbe sentito l’impulso di dimostrare il contrario e Liam sarebbe ancora vivo. Il resto non gli importava, ma odiava non ricordare. C’era solo l’attimo in cui respirava e quello dopo nell’oscurità. In mezzo nulla. Solo... ombre.
Un tocco umido e fresco lo riportò nel presente.
Jane lo stava baciando sulla fronte.
Tornò quell’intensa sensazione viscerale, piacevole ma anche fastidiosa. La scacciò via e rimase solo il bacio. Adesso era come il bacio di una madre.
«In cuor tuo sai che non hai colpa, quindi non dartene.»
Lo baciò ancora. Si lasciò abbracciare, poggiò la testa sopra i suoi piccoli seni. Quello era l’abbraccio che aveva desiderato tante volte. Avrebbe potuto rimanere così per sempre.
«La vita è questo... un eterno conflitto tra noi e il mondo. E nel frattempo le cose care ci scivolano via tra le mani. Ma sai cos’è l’unica cosa che conta davvero?»
«...Cosa?»
«La memoria. Ricordare e onorare il valore del ricordo e ciò che ha significato per noi, non c’è altro di più importante. Se ti tormenti così, non gli rendi onore.»
Pianse, ma non se ne vergognò. Con lei poteva.
Rimasero così un altro po', poi si alzarono. Lei lo prese per mano e gli sussurrò:
«Vieni con me. Ora sei pronto.»
***
Il cielo infuocato andava spegnendosi sfumando in un blu grigiastro, il che significava essere davvero nei guai.
Era infreddolito e affamato e stava odiando il sudore freddo che gli incollava la maglietta. Camminava molto più lentamente adesso, i rumori del bosco iniziavano a farsi minacciosi e non riusciva a vedere più nulla.
Una parte di sé odiava Jane, l’altra era incredula, un’altra ancora curiosa ma atterrita e nessuna prevaleva sull’altra.
Iniziò a credere anche che le fosse capitato qualcosa di brutto, quando vide con la coda dell’occhio una ciocca rossa involarsi dietro gli alberi.
«Jane!»
Corse verso la macchia boscosa, ma non c’era nessuno. Sentì la sua risata inconfondibile in lontananza, dove la macchia era ancora più compatta. Inspirò a pieni polmoni e riprese a correre. Si infilò attraversò una fenditura tra gli alberi, una fitta rete di grovigli e rami che sembrava non finire mai; un corridoio oscuro di alberi spogli e avvizziti, del tutto diversi da quelli al di fuori, via via sempre più stretto, tanto che alla fine ci passava appena. Una volta uscito, la fenditura si richiuse alle sue spalle come una zip. Ciò che vide lo lasciò a bocca aperta.
«Ciao, vuoi una mano?»
«Questo è...»
«Il Giardino segreto? Si. Quello vero.»
Quello era il loro Giardino, ma non era lo stesso. I fiori gialli e bianchi adesso erano di un blu spettrale e risplendevano sotto il chiarore di una meravigliosa luna piena. E l’albero... era la cosa più assurda mai vista. Effondeva un bagliore vibrante, ondate di luce pulsanti che si facevano tenui e poi di nuovo intense; era come assistere al respiro profondo di un essere ultraterreno. Incastonato nella corteccia, c’era un enorme specchio.
Jane lo attendeva accanto all’albero.
«Vieni, Adam.»
Si avvicinò cauto, ma le gambe molli andavano da sole.
Lo specchio rifletteva la sua immagine, ma quando Jane si avvicinò cingendolo, continuava ad essere solo. Iniziò a tremare, colto dal panico.
«...Chi sei tu?»
«Jane. Sai bene chi sono.»
«No... no! Tu non esisti... non sei reale!»
«Solo perché non ho un riflesso? Nulla è come sembra Adam, ma se entrerai nello specchio lo capirai.»
«Entrare...?»
«Sono stata davvero bene con te, più che con qualsiasi altro ragazzino. Ne ho conosciuti molti sai? Ma... è tempo di salutarci.»
«Non capisco... Jane, che significa?»
Lei gli sorrise, come la prima volta, poi lo spinse contro lo specchio.
«Addio, Adam.»
Si protesse mettendo le mani avanti ma non ci fu nessun impatto.
Cadde invece in un vuoto avvolto da un turbinio di colori, per poi atterrare dentro quella che sembrava un’aula.
Un bambino circondato da altri bambini attirò la sua attenzione; lo schernivano di continuo, senza tregua. Si avvicinò per sentire meglio, ma poi tutto sfumò.
Piombò in un’altra classe, più grande e spoglia. Il bambino era cresciuto, aveva più o meno la sua età. Lo spettacolo fu identico, ma le vessazioni si erano fatte atti di bullismo vere e proprie. Provò compassione, sapeva bene cosa si prova in situazioni del genere, di come alcune persone sappiano essere tanto cattive sin da piccole.
Tutto vorticò di nuovo.
Adesso era in un cortile malandato, un gruppo di ragazzi stavano pestando qualcuno, ma non riusciva a vedere bene. Quando se ne andarono si avvicinò e, con un balzo al cuore, riconobbe il volto tumefatto.
A quale assurdità stava assistendo? Liam era una leggenda a scuola, ben voluto da tutti! Perché adesso giaceva lì, privo di sensi e pestato a sangue? Cercò di afferrarlo per la collottola, quando ancora una volta tutto sparì in un mulinello di luce.
Tornò a cadere nel vuoto, fino ad impattare in un tuffo fragoroso. Si ritrovò immerso nell’acqua ma non ne sentiva il peso, era come volare. Perché Jane lo aveva portato laggiù?
«Adam.»
Quella voce...
«Liam... sei tu!»
Lui gli sorrise malinconico.
«Eri tu quel bambino? Era… tutto vero?»
«Io e te siamo molto più simili di quanto pensi, sai? Troppi pensieri per la testa, sempre a crederci peggiori di quel che siamo...»
«Liam…»
«Mamma e papà lo sapevano, ma non te ne hanno mai parlato. Io non te ne ho mai parlato. Per te era meglio avere un fratello normale da prendere come esempio.»
«...Era tutto finto?»
«Sono sempre io, Adam. Ma la mia vita è sempre stata così, tutti i giorni, lo hai visto. Poi dopo la fine della scuola le cose andarono meglio, ma... certe esperienze ti lasciano un segno indelebile dentro. Era troppo per me.»
«Cosa significa... ah!»
«Si.»
«Non è vero! Non ci credo!»
«Quel giorno... avevo già deciso, ma non era previsto che tu rischiassi di annegare. Fu l’occasione perfetta e la colsi al volo. L’epilogo di una lunga pianificazione... non è mai stata colpa tua. Puoi odiarmi se vuoi ma... perdonami Adam, ti prego.»
Aveva il cuore in fiamme. Era stata tutta una menzogna.
Avrebbe voluto prenderlo a pugni e urlare, ma una voce nel fondo della coscienza gli ricordò come si era sentito quelle volte in cui anche lui era stato maltrattato, quell’orribile oppressione che ti porta a desiderare di sparire per sempre.
Liam l’aveva fatto, aveva ceduto, era sparito.
«...E Jane?»
«Lei è una guardiana dei confini. Sai... quelli tra i vivi e i morti. Mi ha raccontato che di tanto in tanto prende a cuore certi umani.»
«Incredibile...»
«Adam... mentre ero avvolto nell’oscurità riuscivo a sentire il cinguettio degli uccelli. Mi sembrava assurdo, ma era un suono nitido, chiaro come il sole che brillava più in alto. Solo in quel momento ho capito di aver sbagliato.»
Liam gli si avvicinò, era uguale a quell’ultimo giorno.
«Annegare è terribile. Se potessi tornare indietro non lo rifarei ma... adesso il dolore è sparito per sempre. Sono libero.»
Lacrime bollenti iniziarono a rigargli il viso. Lo abbracciò come non aveva mai fatto in vita, lo strinse forte e lui fece lo stesso.
«Ti voglio bene, Liam.»
Si sentì arpionare all’ombelico, trascinato nuovamente nel turbine di luci, ma stavolta veniva spinto verso l’alto. Buio.
Si risvegliò riverso a terra, sopra di lui il cielo stellato andava a schiarirsi. Era quasi l’alba.
L’albero del Giardino segreto si stagliava imponente, lo specchio era sparito e i fiori erano tornati i soliti. Tutto sembrava normale. Si alzò scrollando il terriccio dai jeans.
Aveva ragione Jane. Nulla è come sembra.
Quel giardino, suo fratello... tutto ciò che esiste al mondo. La verità si cela agli occhi di chi non sa osservare e giudica solo attraverso pregiudizi.
Era terribilmente dispiaciuto per Jane, gli sarebbe mancata per tutta la vita. E la verità su Liam era così dolorosa da lacerargli il petto. Ma adesso poteva affrontare la sua famiglia e sé stesso senza filtri e senza menzogne, un nuovo inizio, stavolta reale. Diede un ultimo sguardo al Giardino, conscio che non l’avrebbe mai più rivisto, poi sparì, oltre le siepi.