Semifinale Dada Montarolo

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo dicembre sveleremo il tema deciso da Flavia Imperi. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Dada Montarolo

Messaggio#1 » lunedì 11 gennaio 2021, 13:31

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Odissea Wonderland
Combattono in questa semifinale:

Non esiste verità negli occhi, di Alessandro Canella
GroundGlass, di Eugene Fitzherbert

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: mercoledì 13 gennaio alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 13 gennaio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Alessandro -JohnDoe- Canella
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Re: Semifinale Dada Montarolo

Messaggio#2 » martedì 12 gennaio 2021, 13:18

Non esiste verità negli occhi
Alessandro Canella

8 MARZO 00:18
Martin Harris corse al portellone. Senza nemmeno attendere la piena apertura, s’infilò tra la parete e il pannello scorrevole. Il corridoio era vuoto. Il detective chiese al MindMate di verificare l’accesso agli ascensori: nessun utilizzo negli ultimi 7 minuti e 9 secondi.
Dagli altoparlanti il suono di una sirena.
Harris si lanciò verso le scale, abbatté la porta tagliafuoco con una spallata e scese i gradini due a due, giù fino al piano terra. A destra il portellone d’accesso al parcheggio. Si fermò.
Appoggiò le mani sul maniglione antipanico e spinse con cautela, attento a fare meno rumore possibile.
Il parcheggio era avvolto da una nebbia tanto fitta che nemmeno la luce dei lampioni era in grado di bucare. Avanzò tra le vetture parcheggiate.
Rumore di passi.
Piegato sulle ginocchia, si nascose dietro un’auto e si sporse quel tanto che bastava per sbirciare oltre il cofano.
Un ronzio nella testa, la voce di Greg in preda all’agitazione. “Martin, torna indietro! La squadra d’intervento sta per arrivare.”

7 MARZO 23:42
Harris appoggiò l’indice sull’obsoleto touchscreen del distributore automatico e iniziò a scorrere la lista delle bevande calde. Si sforzò di ricordare i gusti dei colleghi. Era certo che Nicole preferisse l’infuso di finocchio – rigorosamente senza zucchero – ma riguardo Greg… il vuoto. Controllò l’ora segnata sul display: meno di venti minuti a mezzanotte. Rischiava di fare tardi.
Sbatté le palpebre tre volte in rapida successione. Il MindMate si attivò. I nomi dei colleghi apparvero a fianco delle bevande che erano soliti ordinare con maggiore frequenza, seguiti da una percentuale. Harris si collegò al sistema informatico del distributore e inviò l’ordine. Una finestra traslucida al centro del cono visivo lo invitò a scegliere il metodo di pagamento. Optò per i Netcoin. Un’e-mail della banca lo informò in tempo reale del prelievo mentre una macro archiviava la ricevuta nella cartella condivisa col commercialista.
«A quanto pare Scotland Yard non si è ancora decisa a mandarla in pensione, detective.»
Harris si voltò. Di fronte a lui una donna sulla quarantina, lineamenti asciutti segnati da una cicatrice sullo zigomo destro che arrivava fino al naso, leggermente piegato da un lato. Non la riconobbe, non subito. Fu il MindMate a suggerirne l’identità.
«Jules?»
La donna sorrise. «Non fingere di avermi riconosciuta da solo. So bene che hai barato.»
«E me ne fai una colpa? Cristo santo, quanti anni sono passati?»
Il MindMate visualizzò un instaPOV datato undici anni prima.
Jules scosse la testa. «Il funerale di David non conta.» Doveva aver visualizzato un’immagine analoga.
«Dodici, allora.» Harris sospirò. «Quando te ne andasti, quello sì che fu un giorno triste.»
«Stronzate. Sono certa che già dopo un’ora avevi trovato un rimpiazzo.»
«Questo è poco ma sicuro; ma nessuno bravo quanto te. Piuttosto, che fai da queste parti?»
«Sono qui per una consulenza.»
«Una consulenza? A chi?»
«A te. A quanto pare i miei capi non si fidano troppo di voi dell’ITD per gestire il sospettato fermato a Heathrow. Non mi dirai che non sei stato informato?»
Gli occhi di Harris s’ingrigirono mentre controllava il messaggio ricevuto dalla centrale meno di un’ora prima. «So solo d’essere stato svegliato per un 10-54. Il rapporto dettagliato ora viene caricato in memoria all’interno degli uffici d’indagine. Nuova procedura. Jules, che sta succedendo?»
Un trillo lo avvisò che l’ordine era pronto per il ritiro.

Harris avvicinò l’occhio al rilevatore biometrico. Il portellone della camera oscura scivolò dentro la parete con un risucchio. All’interno due agenti sprofondati sulle rispettive poltrone, le pupille inquiete e perse nella Rete.
Il detective appoggiò il vassoio su una delle scrivanie, prese l’infuso e lo infilò tra le dita di Nicole. Avvicinò la bocca all’orecchio della collega. «Abbiamo ospiti.»
Gli occhi di Nicole si placarono.
Con un cenno del capo Harris indicò alle sue spalle.
«Ma che…» Nicole appoggiò il bicchiere sulla sua scrivania e corse ad abbracciare la vecchia amica. «Jules, che bello vederti. Pensavo fossi tornata operativa all’estero.»
Jules prese il volto di Nicole tra le mani e la baciò su entrambe le guance. «Ormai sono tre anni che non lavoro più sotto copertura. L’MI6 ha preferito affidarmi all’intelligence.»
«Tu a fare lavoro d’ufficio? Oddio, tesoro, e cosa aspetti a tornare da noi?»
Harris si schiarì la gola. «Greg, ti presento Julianna Campbell, per gli amici Jules.» Raccolse il bicchiere di carta rimasto e lo passò al collega, nel frattempo riemerso anche lui dal MindMate. «Jules è un ex membro dell’ITD da tempo passata al lato oscuro, altrimenti noto come servizi segreti di Sua Maestà. Jules, lui è Gregory Parker, esperto di recupero dati e sociopatico privo di qualsiasi filtro tra cervello e bocca, nonché ultimo di una lunga e infruttuosa serie di tentativi di colmare il vuoto lasciato dalla tua dipartita.»
«Sempre belle parole, capo.» Greg buttò giù il suo espresso extralungo. «Allora, sentiamo: a cosa dobbiamo l’onore?»
Harris guardò l’amica. «Jules?»
La donna si avvicinò allo specchio unidirezionale che dava sulla sala interrogatori, le mani in tasca e le spalle leggermente incurvate.
«Oggi, intorno alle 17:30, all’aeroporto di Heathrow è stato fermato un ragazzo: Zaki al-Saba, quindici anni, figlio di Asad al-Saba, ambasciatore del Birkistan a Londra. Al momento del passaggio sotto gli scanner è stato rilevato un ritardo nell’upload delle chiavi d’identificazione da parte del suo MindMate. Nulla d’inconsueto con visitatori provenienti da paesi con standard tecnologici inferiori ai nostri. Tuttavia, qualcuno ha richiesto un controllo più approfondito, al termine del quale è risultata una partizione da quasi 25 petabyte bloccata da un protocollo crittografico sco–»
«Sconosciuto sì, nonché abbastanza grande da contenere una coscienza umana clandestina.» Greg lanciò il bicchiere di carta verso il cestino. Mancò il bersaglio. «Tutte informazioni già contenute nel rapporto in nostro possesso e che non rispondono alla mia domanda.»
Jules si appoggiò al vetro. «Due mesi fa Zaki ha subito un sequestro lampo della durata di sette ore. Abbiamo controllato i conti legati direttamente o indirettamente alla famiglia al-Saba: non risulta pagato alcun riscatto. Anche questo suppongo sia riportato sul rapporto.» La donna spostò lo sguardo su ogni membro della squadra. «Credo sia superfluo sottolineare che quanto sto per dire dovrà rimanere confidenziale.»
Harris e i suoi uomini annuirono.
«Abbiamo ragione di credere che dentro la testa di Zaki si nasconda Hakam al-Tawil.»
«Cazzo…» sfuggì dalla bocca di Nicole.
Greg si alzò a recuperare il bicchiere. «Un attimo, vorresti farci credere che il leader del Fronte di Liberazione Mediorientale avrebbe lasciato il suo rifugio nascosto nel culo del mondo soltanto per farsi catturare come il più coglione dei clandestini digitali?»
«Al-Tawil non è uno stupido. Confida nell’immunità politica di al-Saba e nell’appoggio di una sua cellula attiva proprio qua a Londra.»
Nicole aggrottò la fronte. «Ma perché venire di persona anziché mandare un uomo di fiducia?»
Gli occhi di Greg si persero nel vuoto, le pupille che tracciavano linee orizzontali. «E il giorno in cui le grandi città d’occidente inizieranno a bruciare, io sarò lì, in piedi, di fronte a voi, e riderò delle fiamme che vi avvolgeranno.»
Un link al videomessaggio da cui era tratta la citazione – uno dei più famosi di al-Tawil – fluttuò davanti a ognuno dei presenti.
Harris rimosse il collegamento con un gesto della mano. «Se l’MI6 ha le prove di quanto affermi, perché non l’avete fermato voi?»
«Per lo stesso motivo per cui al-Tawil ha scelto Zaki come mezzo di trasporto. Il Birkistan è una polveriera pronta a esplodere. Se dovessimo sbagliarci, il Regno Unito non rischierebbe soltanto uno scandolo politico. L’ordine è di mantenere un basso profilo.»
In quel momento le luci della stanza sfumarono dal bianco al rosso.
«A quanto pare il nostro ospite è arrivato», disse Harris.
Jules si avviò verso l’uscita. «Ti aspetto dall’altra parte.»
Greg attese che il portellone si richiudesse. «Che ne pensate?»
«In tutta onestà?» Nicole si ricordò dell’infuso lasciato sulla scrivania. Diede un sorso. «Penso che se è davvero al-Tawil l’ospite di Zaki, non esiste agente migliore di Jules per identificarlo.»
«Che intendi?»
Fu Harris a rispondere. «Nove anni fa anche lei fu rapita dall’FLM durante una missione. Solo che nel suo caso la prigionia non fu altrettanto breve.»
Gli occhi di Greg interrogarono il database delle forze dell’ordine. «Dati segretati… Di quanto parliamo?»
Harris sbatté le palpebre. Brandelli di memoria dal MindMate: i videomessaggi inviati a Jules durante gli anni di prigionia e mai visualizzati, l’instaPOV di quando si era recato all’ospedale militare dopo il rientro in patria, l’audio di due agenti in borghese che gli consigliavano di smettere di contattarla. Chiuse gli occhi. «Sei anni.»

8 MARZO 00:21
Harris prese fiato. “Senti, Greg, sono certo di poter risolvere la situazione senza l’uso della violenza. Fammi solo–”
“No, cazzo! Ascoltami: siamo stati presi per il culo fin dall’inizio.”

Harris s’infilò tra due volanti. “Di che stai parlando?”
“La traduzione. Parlo della fottuta traduzione! Credo di aver fatto una cazzata…”


7 MARZO 23:56
Harris entrò nella sala interrogatori.
Seduto al lato opposto del tavolo centrale, Zaki aspettava in silenzio, le mani conserte. Attorno alla fronte un anello inibitorio bloccava ogni funzione del suo MindMate.
Harris andò a sedersi.
Un messaggio di Jules: “Sarai tu a condurre l’interrogatorio. Io mi limiterò a fornire assistenza.”
“Pensi possa riconoscerti a livello inconscio?”
“In tutta onestà? Lo spero.”

Harris avviò la registrazione. «Ore 23:57 del 7 marzo 2048. Ha inizio l’interrogatorio di Zaki al-Saba. Sono presenti gli agenti Martin Harris e Julianna Campbell.» Harris si piegò in avanti. «Dimmi, Zaki, sei stato informato del motivo per cui ti trovi qua?»
Il ragazzo spostò lo sguardo da Harris a Jules e poi di nuovo su Harris. «Mi hanno detto che c’è qualcosa che non va nel mio MindMate, che c’è un errore nella memoria. Non so altro. Per favore, posso parlare con mio padre? Lui potrà darvi tutte le risposte che volete.»
«Parliamo del tuo sequestro. Due mesi fa sei stato rapito per sette ore. Cos’è successo quel giorno?»
«Io… Io non so… Loro mi hanno preso mentre tornavo da scuola.»
«Chi sono loro
«Non so. Ricordo che mi hanno coperto la bocca e mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato ero dentro un furgone in movimento. Poi il furgone si è fermato e due tizi mi hanno buttato fuori, sulla strada. Non so altro, giuro.»
Harris incrociò le braccia al petto. «Zaki, sarò onesto con te. Se ti trovi qui non è per qualcosa che hai fatto. Abbiamo ragione di pensare che durante il tuo sequestro qualcuno abbia caricato una seconda coscienza nel tuo MindMate allo scopo di farle raggiungere il nostro paese. Se così fosse, una volta uscito dall’aeroporto saresti stato avvicinato da un complice dei tuoi rapitori che, attraverso una parola chiave, avrebbe sbloccato la coscienza parassita, cancellando di fatto la tua.»
Gli occhi di Zaki si spalancarono. «Cosa? Perché allora mi interrogate? Dovete toglierla subito! Voi dovete!»
Harris sospirò. «Non è così semplice. Per farlo dovremmo rimuovere chirurgicamente il tuo MindMate. Si tratta di un’operazione invasiva e preferiremmo eseguirla solo se necessario.» Harris appoggiò la mano sul tavolo, davanti a Jules.
La donna girò attorno al tavolo e cliccò su un pannello. Da un vano laterale uscì un cavo d’interfaccia biodigitale.
«L’agente Campbell ti collegherà ora al nostro software d’analisi. Ciò che faremo sarà verificare la corrispondenza tra azioni consapevoli e onde cerebrali, così d’accertare la presenza della seconda coscienza nel tuo cervello elettronico. Non proverai dolore.»
Zaki alzò lo sguardo su Jules.
La donna afferrò la mascella del ragazzo e la piegò di lato. «Non muoverti.» Con un gesto deciso infilò il connettore nell’ingresso posto dietro l’orecchio sinistro.
«Ora, Zaki, dirò alcune parole e tu dovrai rispondere con la prima cosa che ti verrà in mente, non importa quanto stupida o priva di senso possa sembrare. Mi raccomando: una sola parola per risposta. Tutto chiaro?»
Zaki annuì.
«Iniziamo allora. Banana.»
«Cucchiaio.»
«Scuola.»
«P-proiettile.»
«Azzurro.»
«Camicia.»
«Errore.»
«Dolore.»
«Pesce.»
Il ragazzo aprì la bocca; la richiuse. «Non so come tradurre quello che ho in testa. Posso usare la mia lingua?»
Harris fece segno di continuare.
«Rashi.»
«Spruzzo», tradusse Jules.
Un messaggio automatico inviato dal software d’analisi confermò.
Harris continuò. «Libro.»
«Polvere.»
«Strada.»
«Buco.»
«Rancore.»
Il ragazzo esitò. «Non conosco questa parola.»
«Daghina», disse Jules.
Il ragazzo rimase in silenzio.
«Veloce, Zaki.»
«Al'abwayn.»
«Genitore», tradusse di nuovo Jules.
«Contat—»
«No, ora basta!» Zaki si strappò il cavo e lo lanciò contro Jules. «Sono stanco di questo gioco.»
Harris fece segno a Jules di rimanere ferma. «Non sei tu a decidere, Zaki.»
Il ragazzo sbatté le mani sul tavolo. «E chi allora? L’uomo nella mia testa?»
Il detective scambiò un’occhiata con Jules. Stava per dire qualcosa, ma la voce di Greg lo raggiunse prima. “Tornate qua, in fretta.”

Harris rientrò nella camera oscura a grandi passi. «Che succede?»
Greg trasmise un fotogramma proveniente da una delle telecamere di sorveglianza. «Asad al-Saba. È arrivato pochi minuti fa minacciando ritorsioni se suo figlio non verrà immediatamente liberato.»
«È stato informato delle ragioni del fermo?»
«La cosa non sembra interessarlo. Il capitano ha già mosso l’ufficio legale, ma per il momento l’ordine è di rilasciare il ragazzo.»
«Merda! Che dicono i dati raccolti?»
Nicole scosse la testa. «Corrispondenza solo parziale tra azione e pensiero, non abbastanza per affermare con certezza che la testa di Zaki è occupata da una coscienza clandestina.»
Greg allargò le braccia. «E allora i petabyte criptati? Dai ragazzi, vogliamo farci prendere per il culo?»
Harris si grattò la guancia ispida. «Jules, tu che dici?»
La donna era seduta, i gomiti sulle ginocchia, le mani intrecciate, gli occhi fissi sul pavimento. «Quando oggi pomeriggio mi hanno chiamata per il fermo di Zaki ho pensato “è fatta, finalmente quel figlio di puttana farà la fine che merita”. Ora però… Non so, davvero.» Si alzò. «Se permetti, Martin, vorrei essere io a riaccompagnare Zaki. Si sarà anche comportato da stronzo, ma è pur sempre lui la vittima. E poi non mi dispiacerebbe guardare in faccia quell’idiota del padre.»
Harris piegò le labbra in un sorriso forzato. «È stato bello riaverti in squadra, anche se per poco.»
I due si abbracciarono e lo stesso fece Jules con Nicole.
Harris osservò l’amica allontanarsi dalla stanza e ricomparire dall’altro lato dello specchio. Attraverso le casse la sentì parlare in arabo. Seduto al suo posto, Zaki s’irrigidì per poi alzarsi e correre ad abbracciare la donna. Jules disse qualcosa e il ragazzo si ricompose. Uscirono.
Nella camera oscura calò il silenzio.
«Allora è davvero finita?», disse Nicole. «Lo lasciamo andare e tanti saluti?»
Harris scosse la testa. «No. Lo terremo sotto monitoraggio. Controlleremo ogni suo movimento, ogni contatto, ogni conversazione. Se davvero c’è al-Tawil dentro Zaki, stai certa che lo beccheremo.»
Greg alzò una mano. «Credi si possa ottenere un mandato anche per il padre? Insomma, tutta questa storia del riscatto non v’insospettisce? Per non parlare dell’ultima frase di Zaki.»
Nicole alzò le spalle. «Il Birkistan è nel caos da anni, ma rimane pur sempre nostro alleato nella lotta all’FLM.»
«Ufficialmente.»
Harris si stropicciò la faccia. «Vuoi trovare le prove di un complotto internazionale, Greg? Bene, fallo. Hai credo ancora dieci secondi prima che Zaki venga riconsegnato alla famiglia. Quindici, se sei fortunato.»
Greg scrocchiò le ossa del collo. «Me li farò bastare.» Si sistemò sulla poltrona e s’immerse nel MindMate.
Nicole si avvicinò ad Harris e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Mi spiace, Martin.»
Harris non rispose.
«Senti, mi occupo io del rapporto. Stavo anche pensando che forse potremmo…»
La donna si bloccò, gli occhi che vibravano, impegnati a scambiare informazioni.
«Che succede?», domandò Harris.
«È l’accettazione. Chiedono perché non è stato ancora richiesto il codice di sblocco dell’anello di Zaki.» Nicole si coprì la bocca. «Oddio, non penserai che Jules voglia…»
Harris si girò verso il portellone.

8 MARZO 00:22
Harris alzò di nuovo lo sguardo oltre il cofano dell’auto.
“Con calma, Greg. Spiegati.”
“Parlo di quando Jules è andata a prelevare Zaki. In quel momento il software d’analisi era inattivo, tanto ormai l’interrogatorio era concluso, giusto? Beh, sono stato un idiota. Jules non stava dicendo a Zaki che era libero di andare: stava attivando il codice di sblocco!”

Harris si sedette, la schiena che lentamente cedeva contro la portiera.
“Mi hai sentito, Martin? È lei la cellula dormiente! Ti pre—”
Harris chiuse il canale.
Un duplice bip echeggiò nell’aria.
Non rimaneva più tempo. Harris lasciò da parte ogni cautela e si mise a correre tra le corsie, gli ultimi frammenti di un eco a guidarlo.
Movimento, una figura di spalle che apriva la portiera di un’auto e faceva segno a un’altra di entrare.
Harris rallentò. «Dunque è vero. È questo che sei diventata? La pedina di un terrorista?»
Jules appoggiò una mano sulla portiera. «Ti sbagli, Martin. Ti sei sempre sbagliato. Su di me. Su quello che facciamo. Su tutto.»
«Se è davvero così, allora spiegami. Perché quello che vedono i miei occhi è soltanto un’ex collega passata dalla parte del nemico.»
Jules si voltò. «Mi spiace averti mentito. Mi spiace aver mentito a tutti voi.»
La donna chiuse gli occhi. Harris non ne era sicuro, ma gli sembrò che stesse piangendo.
«Ma la colpa è soltanto vostra.» Gli occhi di Jules si riaprirono, il volto deformato dalla rabbia. «Per tre anni ho aspettato che qualcuno venisse a salvarmi. Tre anni di torture, di umiliazioni, di cibo servito nel fango, di notti passate a divertire gli uomini di al-Tawil. Poi un giorno ho capito: nessuno sarebbe venuto a salvarmi. E sai perché? Perché io non dovevo essere salvata. Ero esattamente dove il mio paese voleva che fossi: vicino al cuore del nemico. E allora ho fatto quello per cui ero stata addestrata. Ho mentito, mi sono sottomessa, ho finto di convertirmi alla causa, ho guadagnato la fiducia dei miei carcerieri. Ci sono voluti due anni prima di essere contattata attraverso un canale criptato che nemmeno i tecnici dell’FLM erano riusciti a inibire. Mi fu data una missione: rubare i piani e la tecnologia di al-Tawil. E ci sono riuscita; cazzo se ci sono riuscita! Così sono potuta tornare a casa. Non perché mi fossi meritata la salvezza. No, soltanto perché non servivo più.» S’interruppe. «Fui prelevata dopo appena una settimana, io ed io soltanto. Solo che durante quei sei anni ero diventata qualcosa di più di un semplice io
Dalla stazione rumore di porte spalancate, le luci delle torce installate sui fucili della squadra d’intervento che oscillavano nella nebbia.
Jules si girò verso quello che fino a pochi minuti prima era Zaki. Gli fece segno di uscire. «Lui è Rajaa, mio figlio.»
Una dozzina di agenti circondarono Martin e Jules, le armi puntate.
Il detective alzò il pugno. Nessuno osò agire.
«Negli ultimi tre anni ho fatto di tutto per riaverlo: ho superato ogni possibile test per l’idoneità al servizio, mi sono reintegrata, ho richiesto d’entrare nell’intelligence. Mi ci è voluto tempo, ma alla fine l’ho ritrovato. Avevo però bisogno di un modo per farlo arrivare qui, per salvarlo.» Jules fece un lungo respiro. «Ho deciso di sfruttare tutti i miei agganci nel Birkistan, anche quelli che non avrei voluto. Ed ecco arrivare una chance: Zaki, studente modello figlio di un politico e con in programma un viaggio nel nostro paese per motivi di studio.» Strinse i pugni. «Ecco, volevi la verità? Ora la conosci. Come ti senti adesso, detective?»
Harris avanzò di un passo, le braccia tenute larghe. «Jules, mi dispiace.» Un altro passo. «Sai bene però che non potrò lasciarti andare.»
Jules annuì. «Lo so. Per questo spiace anche a me.»
Harris si fermò. «Che intendi? Jules, cosa vuoi fare?»
Una lacrima bagnò la cicatrice della donna. «Ancora una volta ti sbagli, Martin. È già accaduto.» Le palpebre sbatterono tre volte.
Una notifica informò Harris dell’avvenuto download di un archivio dati. Senza alcuna autorizzazione, il file si scompattò e iniziò ad autoreplicarsi. Miliardi di ricordi sommersero la mente del detective.
Jules, nella camera oscura, il suo nome per la prima volta.
Jules, in macchina, che parla con Harris mentre fuori piove.
Jules, a scherzare davanti a due birre prima di rientrare a casa, che non vuole rientrare a casa.
Jules, in fondo a una chiesa, che sente un’altra donna dire sì.
Jules, che riceve una proposta, che s’imbarca su un aereo.
Jules, il naso schiantato contro un tavolo, le cosce divaricate.
Jules, in una cella, le unghie che grattano sulla pietra, lei che urla.
Jules, avvolta in una tunica, i dorsi delle mani sollevati e ricoperti di sangue.
Jules, il coltello che cade a terra, le dita che affondano nel cranio di un uomo.
Jules, che trasmette informazioni, che ne tiene molte altre per sé.
Jules, suo figlio scortato dentro una camionetta.
Jules, che saluta una vecchia conoscenza.
Jules, che osserva tutti quegli uomini davanti a sé, ciechi e impotenti.

E mentre la vista si faceva sempre più torbida, Harris vide sé stesso attraverso gli occhi di Jules. Avrebbe voluto piangere, eppure non poté fare a meno di sorridere un’ultima all’amica, prima che il buio lo inghiottisse.
lupus in fabula

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Eugene Fitzherbert
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Re: Semifinale Dada Montarolo

Messaggio#3 » martedì 12 gennaio 2021, 18:28

GroundGlass
Di Eugene Fitzherbert


Sono scossa da un singhiozzo. Stesa sul pavimento del bagno della scuola, mi rannicchio e stringo i pugni sulle labbra gonfie. Sussulto e il corpo mi fa eco con dolori da tutte le parti.
Ci sono andate giù duro, quelle stronze.
Strizzo gli occhi bagnati di lacrime.
Luana si piega su di me. «E la prossima volta tieni quella bocca lontano da mia sorella, leccavongole!» Mi afferra per i capelli. Ha il respiro affannato, mi ha presa a calci fino a farmi vomitare. «Mi fai schifo, lesbica.»
Lo sputo mi centra sulla guancia: è caldo, ma è l’umiliazione che brucia.
Mi sbatte la testa sul pavimento.
E ancora.
«Penso sia abbastanza, Lu.» È Barbara, con il suo cappellino. «Lasciala perdere.»
Luana torna a guardarmi: «Mi hai capito, Yole? Un’altra volta vicino a mia sorella e ti strappo gli occhi. Sei una femmina, deve piacerti il cazzo.»
Fanculo. È quello che vorrei dirle, ma mi esce un rantolo gorgogliante. Metà della faccia è un inferno di dolore e il mio occhio destro sembra voler schizzare fuori dall’orbita.
Luana e Barbara escono dal bagno. La porta si blocca e fa capolino la testa di Desirèe. Sgrana gli occhi e sghignazza. «Così sei più bella, Yole.» E mi lancia un bacio con la mano.
Stronza.
Mi metto carponi. Sono scossa da un conato di vomito. Non ce la faccio più.
Leccavongole.
Invertita.
Troia.
Lesbica.
Non so cosa sono. Non so cosa mi piace. CHI mi piace.
Speravo che tutto si spegnesse prima o poi e invece è ancora dentro di me: Fabio.
Fanculo.
Zoppico fino al lavandino. Mi sciacquo la faccia. Tra i rivoli rosati, mormoro: «GroundGlass.» La mia sola via d’uscita.

Sono seduta alla scrivania e lo schermo del computer illumina la mia cameretta di un chiarore spettrale.
Il browser punta sul forum del GroundGlass, in uno dei meandri della BlackNet. “Prendete due pillole e mettetevi a letto. Fatevi il viaggio della vita.”, scrive l’utente Krx56. “Vi risveglierete come nuovi e i vostri problemi saranno risolti.”
“Dite addio ai vostri dubbi, alle incertezze e alle vostre paure e siate voi stessi. Non è una passeggiata, ma FUNZIONA!” SteveArgh è entusiasta.
Il resto dei commenti è sullo stesso tono. Due pillole di GroundGlass, un trip e la guarigione.
Abbandono la testa sulle braccia conserte. Nel buio ritornano il pestaggio, Luana e le sue amiche. Mi viene da piangere. Non posso continuare così, tra insulti, botte, e scherzi. Ma non posso nemmeno vivere senza sapere da che parte stare. È vero, ho baciato la sorella di Luana, ma questo cosa fa di me?
Cosa sono?
È da quando avevo cinque anni che me lo chiedo. E per i successivi undici, la risposta me l’hanno sempre data quelli come Luana.
Mi passo la mano tra i capelli corti. Sono anni che soffoco quella parte di me che non doveva emergere.
Fabio.
A volte vomito per la tensione, alla ricerca di una via d’uscita.
Apro il cassetto e tiro fuori la scatolina grigia. Dentro ci sono due capsule blu. Le faccio scivolare da una parte all’altra: ticchettano come le zampe di piccoli insetti.
Mi mordicchio il piercing sul labbro.
“Il GroundGlass non mente. Una volta che sei dentro la tua testa non c’è via di scampo: ritrovi te stesso e riesci rinati!” Perché mai dovrei dubitare di UhuruPax?
Mi stendo a letto e poso la scatolina sul petto, in mezzo a quell’accenno di tette che mi ritrovo.
E sia!
Ribalto la scatolina sulle labbra e lascio cadere le pillole in bocca. Le deglutisco con un bolo di saliva amara.
Aspetto a occhi chiusi.
Il buio è l’ultimo pensiero che mi attraversa la testa. Mi sembra di essere cieca.
Sprofondo nel sonno, dentro di me. Alla ricerca di…

***

«Fabio, stiamo per toglierti le bende.»
La voce della dottoressa Karnevitch mi arriva dal vuoto, come mi succede dagli ultimi undici anni della mia vita. Sono seduto sul letto con la schiena dritta e stringo due lembi delle lenzuola. È da un’eternità che aspetto questo momento, da quando il buio è stato il mio compagno.
Le dita della dottoressa si insinuano tra la fasciatura e i capelli corti. Le bende si tendono e stringono. Con un fruscio, gli strati di garze si staccano dalla testa.
Al di là delle palpebre chiuse, il nero si trasforma in un chiarore rossastro. Una singola lacrima cade dall’occhio sinistro e mi scivola sulla guancia. Il cuore mi corre nel petto.
Apro gli occhi.
Vedo!
Sollevo le mani e le metto a fuoco: sul dorso è infilato un ago e sulle unghie del medio e dell’indice ci sono dei segnetti bianchi. Le ruoto: i palmi sono segnati da rughe orizzontali e verticali. Apro e rilascio i pugni.
Le lenzuola sono candide e stropicciate. Muovo i piedi e le coperte si arricciano ancora di più. Alla mia destra c’è il comodino verde con un ripiano regolabile su cui è posata una bottiglia di succo di pesca.
«Allora? Come va?»
La dottoressa Karnevitch ha i capelli scuri, gli occhi verdi cerchiati da un paio di occhiali dalla montatura dorata. Il naso affilato taglia il volto in due metà simmetriche. Le labbra rosse sorridono e i denti sono perfetti.
Tra le dita stringe ancora i resti della garza: il cotone è screziato dal disinfettante e da qualche macchia rossa di sangue.
Mi porto le mani agli occhi: sono… normali. Hanno le palpebre, le ciglia, le sopracciglia. Aggrotto la fronte.
«Gli impianti sono invisibili.» Karnevitch sorride. «Sono tutti interni.»
Palpo le tempie, e sotto la pelle, in profondità, schiaccio i cavi, sottili come spaghetti, che corrono dietro le orecchie fino alla nuca.
«Abbiamo fatto un lavoro a regola d’arte. Com’è vedere di nuovo?»
Non ho parole. Come potrei averne? Il mondo si mostra a me, dopo avermi masticato per undici anni in un ovattato universo fatto di quattro sensi. Esistono delle parole che possono sintetizzare una rinascita di questo genere? Sono appena riemerso.
«È…» Deglutisco. «È… meraviglioso. La luce. Non ricordavo che fosse così…» Chiudo la bocca. «Luminosa.»
Mi sorride. «Funziona tutto, allora? Di che colore sono i miei capelli?»
«Neri, credo. Non so scegliere la parola giusta. Conosco i colori come un bambino di cinque anni. Però, ecco… Vi vedo!» Un’altra lacrima scivola lungo il naso. La pulisco con il dorso della mano. «Scusi.»
«Non preoccuparti. Lacrimazione improvvisa, bruciore, senso di tumefazione agli occhi sono sensazioni che avvertirai per tutta la convalescenza. Così come un leggero mal di testa o un senso di vertigine.» Si china all’altezza del mio sguardo. «Segui il mio dito.» Sposta l’indice da destra verso sinistra.
Io tengo lo sguardo fisso sulla punta.
Si rialza. «Bene, non c’è nistagmo, né difetto di accomodazione e laterodeviazione dello sguardo. I tuoi occhi funzionano bene. Domani faremo altri test. Per ora, rilassati e riposa.» Le scarpe della dottoressa ticchettano sul pavimento. «Non lasciare la tua stanza. Non vorrei che ti perdessi, ok?»
Non attende una mia risposta: apre la porta e se la richiude alle spalle.
Getto le coperte di lato e metto le gambe fuori dal letto. I piedi toccano il pavimento freddo. Mi alzo. Mi sorreggo alla testiera del letto e contraggo i muscoli delle gambe per riattivarli.
Cammino fino alla porta. Oltre l'oblò rettangolare, c’è un corridoio illuminato da neon freddi. Deserto. Ai lati ci sono delle porte, ma sono chiuse e senza insegne. Sono stanze di degenza? Uffici? Bagni?
Poso la mano sulla maniglia…
…e mi gira tra le dita.
Stringo la presa e la blocco.
Al di là dell’oblò, il volto di una ragazza mi fissa: ha i capelli corti che sparano da tutte le parti e le labbra sono coperte di rossetto scuro. Ha un piercing al labbro inferiore. Gli occhi sono due gocce di cromo incastonate tra le palpebre strette. Sono opachi e zigrinati, come vetro smerigliato.
Mi ritraggo dall’oblò e non mollo la maniglia.
Dall’altra parte, la ragazza batte con la mano libera. «Fammi entrare, cazzo!» Goccioline di saliva macchiano il vetro. «Non devi essere qui!» Strattona la porta che vibra contro lo stipite. Che sia scappata dal reparto psichiatrico?
«Chi sei?»
«Vaffanculo! Questo non è il tuo posto. Dannazione!» L’ultima parola è un ringhio rabbioso.
Il volto sparisce dalla vista.
La ragazza si allontana lungo il corridoio.
Chi diavolo era?
Apro la porta.

A metà strada, la sconosciuta si infila in una porta e se la chiude alla spalle con un clac.
Stringo le mani. Non posso uscire dalla mia stanza, la dottoressa è stata chiara. Se mi sentissi male, nessuno saprebbe dove mi trovo. Potrebbe essere pericoloso.
Però…
Quel volto. Quei capelli. Quel rossetto.
Avanzo: mi appoggio al muro, anche se non ho vertigini. La solidità dell’intonaco mi dà sicurezza, una vecchia parte di me non riesce ancora ad abituarsi alla vista.
La porta dove si è cacciata la ragazza ha una targhetta: ci sono dei segni, delle lettere, credo, ma non so leggere. Ci passo il dito sopra: sono lisce.
Il cuore accelera nel petto. Apro.
L'ambiente è grande, con scrivanie e computer. Alle pareti sono attaccati dei pannelli luminosi. La luce filtra soffusa attraverso le pellicole scure che mostrano ossa, costole, teschi. Forse è radiologia.
Sposto una sedia con le rotelle e avanzo tra due file di scrivanie. Non c’è traccia della ragazza.
La penombra rende tutto spettrale: ci sono raccoglitori di documenti, stampanti e fasci di fogli compilati.
Un frusciare di passi scalzi dietro e qualcuno mi spinge con una spallata. Finisco contro la scrivania.
La sconosciuta mi fissa con i suoi occhi argentati, che riflettono la luce azzurrognola. «Perché esisti? Non dovresti esserci. Mi stai rovinando la vita!»
«Io non ti conosco, perché mi stai facendo questo?»
Lei scappa e si chiude la porta alle spalle.
Mi lancio e afferro la maniglia. Il clangore della chiave che scatta nella serratura mi vibra nella mano. Questa volta sono io a battere i pugni sul legno. «Ehi! Fammi uscire!»
«Sei la mia rovina! È ora di farla finita.» Sono singhiozzi quelli che vengono dall’altra parte della porta?
«La tua rovina? Apri questa porta!» Batto con il pugno.
«Ora scoprirai cosa mi hai fatto. Fanculo…»
La luce soffusa della stanza inizia a sfarfallare. Mi volto: le pareti luminose lampeggiano e le lastre appese tremolano come spostate da una corrente d’aria.
Le immagini retroilluminate si gonfiano e perdono il loro aspetto bidimensionale. Sgrano gli occhi: le ossa emergono dalle lastre. Una dopo l’altra, le radiografie cadono dalle pareti, spinte dal peso stesso delle ossa che contengono. Il rumore è quello secco di bacchette di legno che cadono al suolo: tloc, tloc, tloc.
Scivolano sul pavimento e si avvicinano l’una all’altra. Si stanno componendo.
«Ehi, ci sei? Fammi uscire!» Do una spallata alla porta.
Mi volto: oh mio Dio!
Dietro la scrivania, in piedi, c’è uno scheletro, le orbite vuote cerchiate da una luce evanescente. Se ne solleva un secondo e un terzo.
Un calcio alla porta. «Dai! Apri!» Mi aggrappo alla maniglia, la ruoto e la strattono. È tutto inutile. «Perché mi fai questo?»
Una morsa si stringe sulla mia spalla e mi tira indietro. Cado di schiena. Mollo un calcio alla cieca e colpisco una delle gambe. Mi metto carponi e mi spingo verso la porta. Mani di ossa afferrano il pigiama e mi rimettono giù.
Arriva un colpo sulla spalla. Il dolore è lancinante. Urlo, ma la voce è soffocata da un calcio nello stomaco. Mi rannicchio e chiudo la testa tra le braccia per proteggere gli occhi. Un altro colpo mi raggiunge alle gambe. È come essere picchiati con una mazza della scopa.
Colpisco qualcosa con il piede nudo: è bagnato e appiccicoso. Picchio di nuovo e la pianta del piede affonda in qualcosa di spugnoso.
Un altro colpo alla spalla, ma stavolta è umido e affonda come uno straccio bagnato.
Mi hanno ferito?
Apro gli occhi: sulle ossa luminose guizzano brani di carne sanguinolenta si contraggono a ogni movimento. Muscoli! I tessuti si creano dal nulla intorno alle articolazioni. Ogni colpo alza schizzi rossi per la stanza e in faccia sono freddi, morti.
Un calcio sulla schiena, mi inarco per il dolore, stringo i denti e grugnisco. Uno degli scheletri mi afferra per i capelli.
No, no!
Mi sbatte la testa a terra. Il dolore alla guancia esplode.
I miei occhi!
Mi aggrappo al braccio e lo stringo. I calci mi colpiscono ai reni, alle gambe, ma gli occhi sono più importanti. «Lasciami andare.» Serro le dita e i muscoli carnosi si strizzano come stracci bagnati.
Il mostro mi scuote la testa ma non mollo la presa.
Affondo le unghie nella carne umida e strappo un fascio di muscoli. Gli altri due continuano a pestarmi.
«Ehi! Aiutami!» Paro un altro pugno e mi spingo con i talloni per sfuggire alla gragnuola di colpi. Scivolo sul sangue raccolto a terra.
Una morsa mi stringe la gamba. Ritraggo il piede e lo sfilo dalle mani di una ragazza. Anche gli altri due mostri stanno completando la trasformazione.
«Leccavongole!» Quella che mi aveva preso per i capelli si china su di me ancora. «Deve piacerti il cazzo!»
Un calcio nella pancia mi toglie il respiro.
Gattono verso la porta. Raggiungo la maniglia e mi aggrappo con tutto il peso. Mi tiro su. «Ehi tu! Sei là fuori? Apri questa porta!»
Mi schiacciano contro il battente. «Questa volta ti faccio fuori, Lesbica!» La stessa voce di prima mi solletica l'orecchio.
Strizzo gli occhi.
«Ammazzala, Lu.» È l’altra a parlare.
Lu mi prende per i capelli e allontana la mia faccia dalla porta.
Ansimo. Mollo una gomitata dietro di me. Il colpo affonda nella faccia di Lu che molla la presa. Si è portata una mano alla faccia. La pelle che le sta crescendo è lacerata a metà del volto. La mandibola penzola da un lato e gocciola sangue.
Le tre ragazze nude mi fissano sorprese. È il mio momento. Prendo una stampante e la scaravento contro Lu. Il cranio esplode per l’impatto.
Sono fragili!
Afferro per un braccio un’altra delle ragazze e la strattono. L’arto mi resta in mano. Sorrido. Lo sollevo e colpisco i mostri davanti a me.
Il sangue sprizza a ogni colpo e la luce vira all'indaco e poi al viola.
A terra, delle ragazze sono rimasti solo resti fratturati percorsi da spasmi.
Che cazzo significa tutto questo? Perché il nome Lu non mi è nuovo? Mi passo la mano tra i capelli impiastricciati.
Un clac risuona nella stanza e la porta si apre.
Esco in corridoio. La ragazza con gli occhi a specchio mi aspetta.
«Chi sei?» Ansimo. «Cos’erano quelle cose? E perché diavolo non mi hai aiutato?»
L’altra si volta e se ne va.
«Ehi!» Il cuore mi martella nel petto. «Dove vai?»
«Seguimi.» Si infila in un’altra stanza.
«Dopo il mio incontro con quelle cose? Non ci penso proprio!»
I suoi occhi a specchio compaiono oltre lo stipite. «Vuoi qualche risposta?»
Mi mordo il labbro.
Con un sospiro, la seguo.

La ragazza è seduta su un secchio rovesciato, tra gli scaffali pieni di prodotti per le pulizie. Ha i gomiti appoggiati alle ginocchia allargate e la testa ciondoloni. «Perché?» Alza gli occhi. «Speravo di riuscire a farla finita…»
Col cavolo che entro. «Chi sei e che vuoi da me?»
«Pensavo fosse più facile.» È pallida e il piercing al labbro ha lo stesso colore degli occhi. «Mi chiamo Yole.»
«Yole?» Un nome che mi risuona. «Questo non spiega perché mi hai rinchiuso in quella stanza.»
Si strofina il naso. «Volevo finire il lavoro senza sporcarmi le mani. Ma il GroundGlass non funziona così.» Punta il dito contro di me. «Tu hai reagito, Fabio.»
«Ehi, aspetta.» Aggrotto le sopracciglia. «Come fai a conoscere il mio nome?»
Si alza e ridacchia. «Sai perché sei qui?»
«Perché sono stato operato: ero cieco. Da quando avevo cinque anni.»
«E prima?»
«Prima no… Ero…» Chiudo la bocca. Sbatto le palpebre. E prima?
«E va bene.» Si mordicchia il piercing. «Vuoi sentire una storia?»

***
Sono seduta sulla sedia e dondolo i piedi.
La Mamma e la Maestra discutono al di là delle porte a vetri. A quanto pare l’ho fatta grossa, stavolta. La mamma continua a fare sì con la testa, e la maestra non smette di parlare. Si girano verso di me.
Mi raddrizzo e con un balzo mi metto in piedi: escono dalla stanza della Maestra. Sorrido.
La Mamma si accovaccia di fronte a me e mi aggiusta il colletto della maglia e mi stira la gonnellina. «Ti sei rivestita tutta da sola. Brava, la mia piccola Yole.» Mi passa la mano sui capelli e dietro l’orecchio. «Ora, tesoro, ascolta quello che ti dice la Maestra. E non fare più quello che hai fatto oggi, ok?» Mi sorride, ma la sua espressione non è sorridente: è triste.
Annuisco. Farei di tutto per vedere la Mamma felice, per farle sparire quell’ombra negli occhi.
Mi schiocca un bacio sulla fronte e si allontana.
«E allora, Yole. Come vanno i vestiti asciutti?» La Maestra ha lo stesso sguardo triste della Mamma, anche se la voce è allegra. Non è contenta di quello che ho fatto.
«Sto bene.» Esito. «Mi piace la gonna.»
«Ascoltami ora, Yole.» Il tono di voce è serio. «Quello che hai fatto non va bene. Te l’abbiamo già spiegato, ti ricordi?»
Annuisco. Le lacrime mi pizzicano gli occhi. «Sì, Maestra.» Deglutisco. «Le bambine fanno la pipì da sedute. Solo i maschietti la fanno in piedi.» Abbasso lo sguardo.
«Brava. E tu cosa sei?»
Cosa sono? «Io sono una bambina.»
«Ti chiami Yole.»
«Sì, Maestra.» Stringo gli occhi. Mi sposto sui piedi.
«Sei un maschietto?»
«No.» Scuoto la testa e i capelli sbattono da una parte all’altra.
«Non ti chiami Fabio.»
«N-no. Sono Yole.» Una lacrima mi scorre sulla guancia.
«Chi è Fabio?» La voce della Maestra è ancora più cupa.
«Nessuno…» Stringo i pugni. «Io… Ecco… Io volevo chiamarmi Fabio, essere un po’ maschietto. Si può?» Alzo gli occhi verso la Maestra.
Il suo sguardo è affranto. Fa un passo indietro.
La Mamma si avvicina e mi prende la testa fra le mani. «Siccome è la quarta volta che facciamo questo discorso negli ultimi sei mesi, abbiamo deciso con la Maestra che ti vedrai con una dottoressa.»
Spalanco la bocca e sgrano gli occhi.
«Non preoccuparti, Yole.» Ancora quel sorriso triste. «Niente medicine. Devi solo parlare. È una dottoressa dell’ascolto.» Mi accarezza i capelli. «Ti ricordi il gioco dell’Ascolto?»
«Sì, uno parla e gli altri stanno in silenzio.» Ho la voce spezzata.
«Brava. In questo caso, tu parlerai e la Dottoressa ti ascolterà. Nient’altro.»
«Sicura?»
«Sicura!» Mi accarezza la guancia e si porta via la lacrima. «Così finalmente ci libereremo di questo Fabio che ti gira in testa.»
Annuisco e tiro su con il naso.
Abbraccio la Mamma.
Ma… dove andrà Fabio? Se non può stare con me, da chi andrà?


***

Yole mi prende per un braccio e mi scaraventa per terra sulla schiena. «Capisci, ora? Dovevi essere sparito!» Con un balzo si mette a cavalcioni sul petto e mi blocca le braccia con le ginocchia. «E invece sei qui! È come se io non avessi mai smesso di fare la pipì in piedi!»
Ansimo sotto il peso del suo corpo.
Yole ha le labbra piegate verso il basso.
«Devo liberarmi di te con le mie mani. Senza aiuti.» Mi mette le mani al collo. I pollici premono sulla trachea.
«No, aspetta. Perché devi uccidermi?»
«Perché tu non c’entri niente con me! Da quando esisti, mi incasini la vita!» Gli occhi si ingrandiscono, due pozze di mercurio si allargano sulla faccia e cancellano le guance, le sopracciglia, fino ad arrivare sulla fronte, verso l’attaccatura dei capelli corti che sparano da tutte le parti.
Si piega su di me. Io tossisco. In quegli occhi cromati per la prima volta vedo me stesso: l’espressione sofferente, le macchie di sangue secco, ma anche le labbra strette, le sopracciglia sottili e i capelli che sparano da tutte le parti. « Noi… Siamo… Uguali.»
Gli occhi di Yole, enormi, si estroflettono, colano fuori verso la mia faccia.
«Siamo uguali! Perché devi uccidermi?» Gracchio queste parole con gli ultimi ansiti che riesco a inalare.
Le pareti dello sgabuzzino vanno in frantumi. Il mondo intorno a noi si sgretola.
Gli occhi di Yole toccano i miei.

***

Spalanco gli occhi e mi siedo sul letto. Ansimo.
Uno dei trip più tremendi della mia vita. Mando giù un bolo di saliva acida e in bocca mi resta il sapore amaro di medicinale.
Siamo uguali! Perché devi uccidermi?
Le parole mi vorticano in testa.
La cameretta è buia: il computer è entrato in stand-by. Mi prendo la testa tra le mani. Dovrei sentirmi diverso, ma il mio corpo è quello di sempre. Mi passo le mani tra i capelli corti, mi strofino le braccia: tutto come prima. Mi porto dietro questi cromosomi come un’opinione che non posso cambiare.
Una cosa è certa: sono stanchissimo e incazzato per quello che hanno detto sui forum. GroundGlass un cazzo! Sono lo stesso di prima.
Mi blocco.
Sbatto le palpebre e ritorno sui miei pensieri.
Sono stanco. Sono lo stesso di prima.
Cristo.
Chi sono?
Siamo uguali. Perché devi uccidermi?
Dopo quella frase, i nostri occhi si sono toccati.
Si sono fusi!
Corro in bagno. Il cuore mi martella nel petto. Mi appoggio al lavandino e avvicino la faccia allo specchio: non c’è niente di nuovo. Gli occhi sono normali, il piercing è al suo posto. «Chi sei?»
Il mio riflesso ricambia lo sguardo. «Fabyole.»
Sorrido.
GroundGlass ha funzionato.

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Re: Semifinale Dada Montarolo

Messaggio#4 » martedì 19 gennaio 2021, 23:24

Dada Montarolo




Commento a

“Non esiste verità negli occhi”




Robert Ludmun, Michael Crichton, Tom Clancy e gli altri illustri autori di techno – thriller devono essere stati i grandi ispiratori per l’autore/autrice di questo racconto che segue in modo canonico le linee guida del genere: narrazione di tipo cinematografico che tende alla sceneggiatura, apparati tecnologici che aiutano i protagonisti umani senza mai prevaricarli o sostituirsi a loro, ambientazioni algide, sfondi neutri per dare spazialità e rilievo alle storie, ai personaggi. Questi ultimi, pur nell’essenzialità delle descrizioni, sono ben tratteggiati, si lasciano intravvedere e scoprire attraverso dialoghi serrati e gestualità ridotte al minimo concedendo al lettore la piacevole opportunità di creare la regia dell’azione.
Di conseguenza la scrittura è aspra, pungente, lo stile essenziale, efficace, privo di sbavature e incalzante. In certi passaggi addirittura fin troppo e crea qualche perplessità: la sequenza delle immagini/azioni di Jules ripercorsa da Harris negli ultimi momenti di vita, per esempio, non è di immediata e facile comprensione, bisogna ragionarci sopra a discapito del ritmo quasi ansiogeno imposto fino a quel momento. A proposito del finale, mi sembra lasciato in sospeso: che ne sarà degli altri? Jules eliminerà anche loro oppure “si accontenta” di fuggire con il figlio? Intrigante l’idea di lasciar decidere alla fantasia del lettore ma un accenno, un indizio non guasterebbero.
La scelta di organizzare la fabula a sbalzo analessico, ancorché interessante, può forse dare adito a qualche confusione ma il vero problema di questo lavoro, a parer mio, è nel non aver gestito al meglio il focus intorno a cui ruota la narrazione: com’è possibile che nel 2048 un apparato di intelligence così sofisticato come MI6 non si sia preoccupato di monitorare in modo continuo e completo la vita di un suo agente con la conseguenza di ignorare la nascita di un figlio? Soprattutto a fronte di una possibile radicalizzazione causata dalla prigionia? I temi del racconto sono di affascinante complessità; per questo risultano troppo compressi e più adatti a un romanzo, dove le occasioni per trattarli si presentano più ampie, articolate e darebbero maggiori soddisfazioni a chi scrive e a chi legge.
Qualche ripetizione e pochi refusi, evitabili con un minimo supplemento di revisione.




Commento a

“GroundGlass”



Echi kafkiani in questo racconto, che rimbalzano fra la scoperta angosciosa dell’”io” e la presa di coscienza dei limiti di noi stessi che vorremmo superare, mediati da una serie interessante di parallelismi: la violenza delle compagne come negazione rabbiosa e impaurita della diversità; l’oscurità che avvolge la prima parte della vita di Fabio come limite e inaccessibilità alla sua vera inclinazione sessuale; l’aggressione degli scheletri che si rigenerano aggiungendo carne e muscoli su se stessi come aberrazioni replicanti e distorte di una realtà alla quale il/la protagonista vuole sfuggire; la descrizione di un’infanzia particolare e dolorosamente mortificante come dito puntato contro l’inadeguatezza delle istituzioni scolastiche e delle famiglie, pur animate da tanta buona volontà, nel gestire situazioni complesse, delicate nella loro eccezionalità; infine la dualità stessa di Fabio/Yole compiuta e risolta con la creazione, attraverso una sorta di partenogenesi, di Fabyole: una Salmakis finalmente perfetta nella sua imperfezione.
GroundGlass non fornisce solo il codice di accesso a se stessi, come spiega la voce narrante, ma nel sottotesto ho intravisto l’avvio di un altro racconto, di nuovo in parallelo con la storia principale: quello di una personalità in costruzione e credo da qui inizi lo spazio dedicato alla creatività del lettore, il grande regalo che ogni scrittore fa alla fine di ogni suo lavoro.
Nel complesso, il racconto si dimostra uno squarcio dai bordi taglienti e sanguinanti, esplorativo e impietoso sulle verità ottusamente negate e affacciato su un antico problema sociale non ancora del tutto risolto, nonostante la sbandierata maturità, etologica e non solo tecnologica, conquistata.
Ben gestito e calibrato il climax, in un crescendo di emozione e azione in cui la violenza gioca un ruolo indispensabile, quasi accompagnamento musicale di percussioni ossessive a descrizioni di grande impatto (“… Gli occhi di Yole, enormi, si estroflettono, colano fuori verso la mia faccia…” e ancora “… Muscoli! I tessuti si creano dal nulla intorno alle articolazioni. Ogni colpo alza schizzi rossi per la stanza e in faccia sono freddi, morti…”).
Scrittura secca, precisa in modo quasi chirurgico nella sua dovuta brutalità e ben accordata al ritmo narrativo. L’uso del tempo presente, al di là della tendenza oggi amata da molti scrittori, conferisce al testo una particolare immediatezza che ben pennella l’incubo esistenziale, principale protagonista del racconto, destinato a una risoluzione speranzosamente definitiva e orgogliosamente determinata.
Qualche refuso, qualche ripetizione di troppo e un uso quasi compulsivo del riflessivo “mi” e degli aggettivi “mio”, “mia”, “miei” appannano qua e là la qualità del lavoro. Una revisione più attenta li avrebbe facilmente sistemati.


Il mio voto: elimino “Non esiste verità negli occhi” e mando in finale “GroundGlass”.

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