Al numero 3 di Straight street
Inviato: lunedì 1 marzo 2021, 15:17
Al numero 3 di Straight street.
Doug era soddisfatto, la giornata era stata perfetta, concluso l’affare aveva festeggiato con sua moglie concedendosi una superba bistecca in uno dei ristoranti più esclusivi della città.
Ora voleva solo godersi una meritata notte di riposo in vista del giorno seguente, il giorno in cui avrebbe firmato per quella villa negli Hamptons che gli sarebbe costata nove milioni di dollari e diciotto anni di battaglie nel sordido mondo delle speculazioni finanziarie.
Guardò fuori dalla finestra della camera, il cielo era terso e gli sembrava che le stelle brillassero più intensamente quella notte.
Stesosi sul suo giaciglio, il sonno lo colse pressoché immediatamente e lo trascinò nel regno di Morfeo.
Doug si ritrovò a camminare nella via in cui abitava da ragazzo, Straight street, ma c’era qualcosa di strano.
Il cielo era nero, ma non era notte, in lontananza poteva intravedere un riverbero rossastro, come se appena oltre il limite dello sguardo ci fosse un incendio, l'atmosfera era surreale.
Tutto era abbandonato.
La strada era sudicia e ingombra di fogliame, cocci e rottami. Qui e là auto rugginose o bruciate giacevano come carcasse spolpate dagli sciacalli.
Le siepi e i giardini, solitamente curati alla perfezione, erano ora abbandonati all’incuria: contenevano piante sformate e insozzate da rifiuti indefinibili, i laghetti artificiali, una volta impeccabili, erano ora come bocche che rigurgitavano alghe marcescenti e scheletri di pesci morti su cui nugoli di insetti rivoltanti volteggiavano in un'infinita danza macabra. Le case erano in rovina, i tetti sfondati, alcune pareti erano crollate, le altre mostravano vaste chiazze di muffe dai colori malsani o erano invase da rampicanti deformi, le cui foglie, parevano mani scheletriche.
Doug vagò con lo sguardo in cerca della sua vecchia casa, al numero 3, ma non la trovò. Al suo posto, avvolta da una vegetazione disordinata, nodosa e ritorta, c’era una villa padronale nello stile delle piantagioni, come se ne vedono ancora in Kentucky o in Louisiana.
Anche questa magione era fatiscente ma, rispetto alle altre, vi poteva scorgere tracce di attività. Alle finestre, che Doug non riusciva a contare e che pareva fossero adornate da pesanti tendaggi scuri e in continuo movimento, apparivano luci, come lampi nella tempesta, a volte fioche, a volte molto intense, sembrava che all’interno delle stanze fossero accesi dei fuochi o delle braci.
Udiva suoni indecifrabili, una cacofonia di urla e gemiti, strilli, risate isteriche, voci gutturali, colpi sordi, motivetti stonati e versi di animali.
Davanti alla casa, al centro del vialetto, Doug scorse un uomo che stava facendo dei gesti per attirare la sua attenzione e, quando la ottenne, gli indicò di raggiungerlo.
Lasciò la via, si inoltrò in quella selva andando verso quel curioso personaggio.
Quando fu a pochi passi da lui, lo riconobbe, era il preside del suo vecchio liceo, Erving Saturday, pareva non essere invecchiato di un giorno dall’ultima volta che lo aveva visto, quasi vent’anni prima, quando diventò il suo primo cliente affidandogli i risparmi di una vita. Era vestito in modo bizzarro, portava un frac di velluto nero con dei bottoni d’argento, un cilindro e un bastone color avorio e degli occhiali, tondi e scuri, nonostante l'assenza di luce.
“Ah, Douglas Albert Geere! Quale sorpresa vederti qui!”
“Signor Saturday, è proprio lei? Può aiutarmi per favore, credo di essermi perso”
“Certo mio caro, sono qui per questo, non sei certo il solo ne il primo che si è perso lungo Straight street, ti condurrò nel luogo a cui sei destinato”.
Doug notò che Saturday aveva dei batuffoli di cotone che gli uscivano dal naso. Ignorò anche quel bizzarro particolare.
“Grazie signor Saturday”.
“Aspetta a ringraziarmi, figliolo. Ma non restiamo qui fuori, vieni dentro con me, forza, seguimi, ti farò strada”.
Doug seguì il suo mentore.
Il portico della casa ora gli pareva l’antro di una grotta, una voragine oscura che si apriva verso l’ignoto che veniva celato solo da una porta, questa si aprì con un cigolio sinistro e i due furono investiti da un ragtime suonato su un piano scordato e da l’odore della carne di maiale alla griglia.
La musica proveniva da dietro un bancone di legno, come quelli presenti nella reception dei motel o dei vecchi bordelli del sud, un anziano uomo di colore, calvo e in tuta da lavoro beige, suonava un pianoforte verticale malconcio, dondolandosi alla Ray Charles
Saturday pretese la sua attenzione: “Homer, il nostro ospite è giunto”.
Il musicista si girò di scatto abbandonando la sua performance, Doug notò che era cieco, le iridi erano nivee e le pupille assenti.
“Douglas Albert Geere”, cadenzò con lentezza, “Benvenuto. Non l’aspettavamo così presto. Mi dispiace ma non posso farla andare oltre, la sua stanza non è ancora pronta, lei deve andarsene”.
Saturday intervenne in modo fermo: “Homer, registra Doug come ospite temporaneo, così è stato deciso dal direttore e a noi non è data facoltà né di capire né di protestare”.
Homer, contrariato, fece una smorfia e prese un registro enorme, rilegato in pelle di un intenso rosso cupo, lo aprì e scrisse qualcosa con una piuma di corvo ed uno svolazzo della mano.
“Ecco fatto signor Geere, le formalità sono sbrigate, può entrare ora. Le raccomando, lei è un visitatore, non si soffermi troppo, il suo tempo è limitato”.
Accompagnato da Saturday, Doug si avviò verso uno stretto corridoi dove erano presenti molte porte. Il soffitto era notevolmente più basso rispetto all'atrio rendendo l’ambiente claustrofobico. Anche la moquette e la carta da parati sembravano concorrere a rendere lo spazio più soffocante, erano adornate con un motivo indefinibile ed irregolare il cui colore passava dal viola al marrone scuro poi al verde ed al rosso.
“Andiamo Doug, abbiamo un lungo sentiero da percorrere per arrivare nel posto in cui devi recarti”, proferì giocosamente Saturday.
Arrivati di fronte alla prima stanza, udirono provenire dall’interno un rumore che sembrava la pancetta che sfrigola e colpi sordi seguiti da esplosioni liquide, come se qualcuno lanciasse frutti marci contro il muro.
La porta si aprì violentemente, all’interno Doug vide sua moglie Trisha avvinghiata a John, il suo migliore amico dai tempi del liceo. Erano travolti da una passione irrefrenabile e si rotolavano a terra in un liquido nerastro, come se stessero facendo lotta nel fango. Doug guardò meglio, non era fango ma scarafaggi di diverse dimensioni. Trisha e John si schiaffeggiavano a vicenda violentemente, sbattevano contro le pareti e il pavimento per liberarsi dagli insetti che, ostinatamente, cercavano di partecipare alla copula. Gli scarafaggi venivano fracassati, schiacciati, esplodevano schizzando i loro fluidi e pezzi di carapace chitinoso. Le interiora degli artropodi li ricoprivano e colavano in ogni dove ma la coppia non riusciva a fermare il congiungimento carnale anzi, si baciavano, si leccavano e si mordevano nonostante la lordura in cui erano immersi.
Doug distolse lo sguardo ed ebbe un fremito, stordito dallo schifo di quello spettacolo e dai suoi protagonisti.
Saturday chiuse la porta e gli si rivolse dolcemente “Andiamo Doug, questo non è posto per te, c’è molto altro da vedere”.
Doug fece un respiro profondo e si rimise eretto, fece un cenno d’assenso alla sua guida e ripresero a camminare.
Gli era sembrato che le varie porte fossero vicine tra loro ma, ora che procedeva lungo il corridoio, si accorse che invece erano molto distanti l’una dall’altra.
Giunsero alla seconda porta e notò che era socchiusa.
“Sei sempre stato curioso Doug, è una qualità che ho sempre apprezzato in te, coraggio, dai un’occhiata”, incoraggiato dal precettore Doug aprì la porta.
Urla umane e suine lo investirono violentemente.
L’odore arrivò un attimo dopo.
La stanza era molto più ampia della precedente, non se ne vedevano i limiti.
Lunghe e innumerevoli schiere di gogne costringevano altrettanti umani, obesi e nudi, ad affondare le loro fauci in trogoli di pietra straripanti deiezioni, insetti, frutta e verdura marce, carcasse putride dove miriadi di bianchi vermi si agitavano.
Quelli sventurati non erano semplicemente obesi, avevano abbandonato la forma umana, erano più simili a dei barili di carne i cui rotoli e cuscinetti sembravano colare simili a liquidi viscosi come il petrolio o il vetro fuso.
Dietro di loro, c’erano figure che sfuggivano alla vista di Doug, non riusciva a inquadrarli, a metterli a fuoco, erano come le ombre che si vedono con la coda dell’occhio ma, quando ci si gira a guardarle, rivelano non esserci.
Queste figure, queste ombre, armate di lame arrugginite e spuntate e delle fogge più varie e improbabili, massacravano i quarti posteriori dei lardosi ricavandone libre su libre di carne senza che questi si esaurissero mai, le cucinavano direttamente su carboni o con spiedi e successivamente le gettavano in pasto a degli esseri secchi e miseri, sulle cui ossa, stava solo un sottile strato di pelle grinzosa e grigiastra. Questi sventurati, dalle forme rachitiche, senza quasi più denti, erano incatenati al muro e, ogni volta che qualcuno gli lanciava un boccone,vi si lanciavano contro come bestie fameliche ma, una volta afferrata la carne, questa si tramutava in polvere e li lasciava con la fame e la disperazione, ma sempre privi di speranza.
In mezzo a questo grottesco allevamento passeggiava un gigante, era alto il doppio di un uomo e con il ventre prominente e rotondo, era bendato e portava con se una cornucopia colma di mele rosse che mordeva e poi lanciava a caso tra gli ospiti della stanza.
Saturday chiuse la porta “Non è questo il luogo che devi visitare, ma non ti dovrebbe essere nemmeno del tutto estraneo”, gli riferì sorridendo.
Proseguirono il viaggio, il corridoio procedeva planare curvando leggermente a sinistra ma, a Doug, sembrò di scendere, di sprofondare sempre più verso un baratro oscuro e senza fondo.
La coppia passò davanti ad un’altra porta, era antica e consunta, graffi e solchi la percorrevano come cicatrici, sembrava riuscire a reggersi a malapena sui cardini arrugginiti. Dall'altro lato provenivano grida e pianti, urli e strepiti, invocazioni blasfeme e risate malvagie.
Saturday poggiò una mano sulla spalla di Doug e lo incitò a proseguire: “Qui non c’è niente per te, figliolo”.
Ripresero il cammino in silenzio, Saturday procedeva quasi danzando, come un istrione che conduce una parata. Doug aveva lo sguardo rivolto a terra e strascinava i piedi come fossero macigni.
Udirono un gallo cantare, tre volte.
“Il tempo sta terminando Doug, dobbiamo sbrigarci”, disse dolcemente Saturday.
Poco dopo incontrarono un’altra porta, nera ed intarsiata con simboli arcani, talmente contorti e incomprensibili, che la mente umana farebbe fatica anche solo a immaginarli e la mano della progenie di Adamo non ha la capacità di inciderli.
Sopra la porta, inchiavardata al muro con un chiodo di ferro lungo quanto un braccio, una testa di mucca in decomposizione, le orbite vuote sembravano fissare l’ospite, pelle e carne erano a brandelli e penzolavano da quel macabro trofeo, sangue e liquami erano colati incorniciando la porta come stipiti organici. Dall’interno di quella stanza proveniva quello che sembrava un canto in una lingua impossibile, Doug aveva frequentato poco la chiesa ma gli era capitato di ascoltare inni sacri e canzoni religiose, quel canto gli ricordava quel genere, solo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato, innaturale, le voci erano gorgoglianti come se i cantori fossero sott’acqua, l’armonia dei cori era spaventosa e terrificante, il tempo inquietante sconvolgeva l’animo e le grida inumane turbavano la mente.
Anche questa volta Saturday incitò Doug a proseguire, quando i due si avviarono, la testa di mucca si mosse per seguire il loro movimento, Doug se ne accorse e si girò a guardarla, il bovino fece per muggire ma, come aprì la bocca, la lingua marcia cadde a terra e continuò a contorcersi mentre bava verdastra e sangue colarono formando una pozza.
Il preside prese per mano l’allievo e lo distolse da quello spettacolo costringendolo a proseguire.
Passarono altre porte, Saturday forzò Doug alla marcia imputando quella fretta alla tirannia del tempo.
Arrivarono ad una scala che si inabissava nel buio, da quella voragine tetra scaturivano incostanti refoli di aria gelida.
Saturday sorrise a Doug, “Io non posso accompagnarti oltre, mio caro, segui questo sentiero, è questa la tua strada ora e ti consiglio di non perdere tempo, non ne rimane molto”.
Doug si volse verso l’ingresso nella tenebra e piagnucolante implorò: “La scongiuro, mi accompagni ancora per un po’ almeno, è molto buio e non so nemmeno dove siamo!”, quando si girò a cercare nuovamente il suo interlocutore non lo trovò, ora era solo in quel corridoio e, dalla direzione da cui era arrivato, provenivano voci, grida e quello che sembrava il fragore di un branco di cavalli al galoppo che si avvicinava.
Rassegnato,si mosse verso il buio.
Gli scalini erano lapidi conficcate nella parete rocciosa, la scala si svolgeva a spirale, ad ogni gradino a Doug sembrava che il freddo si facesse più intenso.
Non c’era nessuna fonte di luce, malgrado ciò, Doug vedeva fino ad un paio di gradini sotto di lui.
Sulle lapidi che calpestava, i nomi cesellati erano illeggibili a causa dell’usura e della lingua in cui erano scritti o, semplicemente, erano nomi che per Doug non avevano senso.
Continuò a scendere e il tempo si dilatò nel ripetersi dei suoi movimenti.
Su un gradino trovò un foglio, lo raccolse e lo lesse.
Era il contratto che aveva fatto firmare al signor Saturday, il suo primo contratto, gli tornarono in mente gli inizi della sua carriera, quando era un giovane stolto colmo di sogni, speranze e fiducia. Scoprì ben presto che per poter farsi strada in quel mondo bisognava avere ben pochi scrupoli.
Un altro gradino, un altro contratto,un altro ricordo.
La signora Kalys, una dolce vecchietta che viveva in un piccolo appartamento dai toni pastello. A Doug serviva la sua firma su una polizza per impressionare il suo superiore, la signora si fidava di lui, Doug le propose un fondo ad alto rischio. La signora Kalys perse l’appartamento, la pensione e i suoi pochi risparmi.
La trovarono pacificamente addormentata nel suo letto, accanto a lei, due confezioni vuote di barbiturici.
Doug fu promosso e incassò la provvigione che gli spettava.
Accartocciò quel foglio e se lo gettò alle spalle.
“Giuda!”
La voce della signora Kalys, dal nulla, colpì Doug di sorpresa e si perpetrò con un eco nel vuoto dell’oscurità che lo circondava.
Proseguì la discesa.
Gradino, contratto, ricordo.
Il signor Thompkins, aveva gestito la drogheria che era stata della sua famiglia per quattro generazioni, lui fu l’ultimo dei Thompkins ad esserne proprietario grazie a un piccolo ma devastante errore, l'aver creduto in Doug. Il signor Tompkins fu rinvenuto nel retrobottega della drogheria, impiccato ad una trave. Ma Doug aveva bisogno di quella firma, aveva bisogno di soldi per un loft in centro e voleva una Mercedes.
“Giuda!”
Alla signora Kalys si era aggiunto il signor Thompkins.
Gradino dopo gradino, lapide dopo lapide, molte voci si aggiunsero al coro, una per ogni tradimento.
“Giuda! Giuda! Giuda!”
Doug, travolto dai ricordi e dai suoi fantasmi, si mise a correre lungo la scala cercando di sfuggire alle voci che lo seguivano, implacabili, ricordandogli le sue colpe.
“Giuda! Giuda! Giuda!”
La sua fuga fu interrotta bruscamente, non riusciva più a muovere le gambe, si erano come incollate ad un gradino, Doug riuscì a leggere il nome che vi era inciso:
“Douglas Albert Geere”.
Uno strato di ghiaccio cominciò ad avvolgerlo salendo dal basso e rendendogli sempre più difficile ogni movimento.
Dalle profondità della tenebra giunse un verso mostruoso, inarticolato e fortissimo, innaturale e raggelante, era un latrato, un ruggito, un grido che squassava le radici del mondo e la mente del peccatore, cresceva di intensità e la fonte da cui sgorgava sembrava farsi sempre più vicina.
Il viaggiatore venne colto dal panico, provò a muoversi, a liberarsi da quella morsa ghiacciata ma era tutto inutile.
Si mise a gridare in preda al terrore.
Doug si svegliò di soprassalto, ritrovandosi seduto sul letto.
Si guardò attorno, era nella sua stanza, accanto a lui sua moglie dormiva, pacifica. Alzò lo sguardo e rivide le stelle la cui luce gli diede conforto.
Sorrise e diede un’occhiata alla sveglia, erano le sei del mattino.
Si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra, entrava uno spiffero d’aria fredda, non era stata chiusa bene.
Decise di tornare a letto ma, come si voltò verso il talamo, un latrato lo sorprese alle spalle lacerando il silenzio della notte. Doug si rivolse verso la fonte del suono, proveniva dalla strada su cui dava la sua finestra, era ancora buio e non riuscì a vedere quale era stata l'origine di quel frastuono. Passò un auto illuminando la via. Doug indietreggiò fino a sedersi sul letto, si portò una mano alla bocca per trattenere l’urlo che gli stava nascendo in gola.
Scosse il capo negando a se stesso quella visione, si disse che il poco sonno l’aveva confuso, che si era appena svegliato e non era completamente lucido, che il sogno che aveva appena fatto lo aveva sgomentato e impressionato. Non lo avrebbe mai raccontato a nessuno ma gli era parso che, sotto la sua finestra, sulla strada, ci fosse un uomo che lo salutava con la mano mentre con l'altra teneva al guinzaglio un cane.
Quell'uomo era il signor Saturday e con lui c'era un cane a tre teste.
Tom
Doug era soddisfatto, la giornata era stata perfetta, concluso l’affare aveva festeggiato con sua moglie concedendosi una superba bistecca in uno dei ristoranti più esclusivi della città.
Ora voleva solo godersi una meritata notte di riposo in vista del giorno seguente, il giorno in cui avrebbe firmato per quella villa negli Hamptons che gli sarebbe costata nove milioni di dollari e diciotto anni di battaglie nel sordido mondo delle speculazioni finanziarie.
Guardò fuori dalla finestra della camera, il cielo era terso e gli sembrava che le stelle brillassero più intensamente quella notte.
Stesosi sul suo giaciglio, il sonno lo colse pressoché immediatamente e lo trascinò nel regno di Morfeo.
Doug si ritrovò a camminare nella via in cui abitava da ragazzo, Straight street, ma c’era qualcosa di strano.
Il cielo era nero, ma non era notte, in lontananza poteva intravedere un riverbero rossastro, come se appena oltre il limite dello sguardo ci fosse un incendio, l'atmosfera era surreale.
Tutto era abbandonato.
La strada era sudicia e ingombra di fogliame, cocci e rottami. Qui e là auto rugginose o bruciate giacevano come carcasse spolpate dagli sciacalli.
Le siepi e i giardini, solitamente curati alla perfezione, erano ora abbandonati all’incuria: contenevano piante sformate e insozzate da rifiuti indefinibili, i laghetti artificiali, una volta impeccabili, erano ora come bocche che rigurgitavano alghe marcescenti e scheletri di pesci morti su cui nugoli di insetti rivoltanti volteggiavano in un'infinita danza macabra. Le case erano in rovina, i tetti sfondati, alcune pareti erano crollate, le altre mostravano vaste chiazze di muffe dai colori malsani o erano invase da rampicanti deformi, le cui foglie, parevano mani scheletriche.
Doug vagò con lo sguardo in cerca della sua vecchia casa, al numero 3, ma non la trovò. Al suo posto, avvolta da una vegetazione disordinata, nodosa e ritorta, c’era una villa padronale nello stile delle piantagioni, come se ne vedono ancora in Kentucky o in Louisiana.
Anche questa magione era fatiscente ma, rispetto alle altre, vi poteva scorgere tracce di attività. Alle finestre, che Doug non riusciva a contare e che pareva fossero adornate da pesanti tendaggi scuri e in continuo movimento, apparivano luci, come lampi nella tempesta, a volte fioche, a volte molto intense, sembrava che all’interno delle stanze fossero accesi dei fuochi o delle braci.
Udiva suoni indecifrabili, una cacofonia di urla e gemiti, strilli, risate isteriche, voci gutturali, colpi sordi, motivetti stonati e versi di animali.
Davanti alla casa, al centro del vialetto, Doug scorse un uomo che stava facendo dei gesti per attirare la sua attenzione e, quando la ottenne, gli indicò di raggiungerlo.
Lasciò la via, si inoltrò in quella selva andando verso quel curioso personaggio.
Quando fu a pochi passi da lui, lo riconobbe, era il preside del suo vecchio liceo, Erving Saturday, pareva non essere invecchiato di un giorno dall’ultima volta che lo aveva visto, quasi vent’anni prima, quando diventò il suo primo cliente affidandogli i risparmi di una vita. Era vestito in modo bizzarro, portava un frac di velluto nero con dei bottoni d’argento, un cilindro e un bastone color avorio e degli occhiali, tondi e scuri, nonostante l'assenza di luce.
“Ah, Douglas Albert Geere! Quale sorpresa vederti qui!”
“Signor Saturday, è proprio lei? Può aiutarmi per favore, credo di essermi perso”
“Certo mio caro, sono qui per questo, non sei certo il solo ne il primo che si è perso lungo Straight street, ti condurrò nel luogo a cui sei destinato”.
Doug notò che Saturday aveva dei batuffoli di cotone che gli uscivano dal naso. Ignorò anche quel bizzarro particolare.
“Grazie signor Saturday”.
“Aspetta a ringraziarmi, figliolo. Ma non restiamo qui fuori, vieni dentro con me, forza, seguimi, ti farò strada”.
Doug seguì il suo mentore.
Il portico della casa ora gli pareva l’antro di una grotta, una voragine oscura che si apriva verso l’ignoto che veniva celato solo da una porta, questa si aprì con un cigolio sinistro e i due furono investiti da un ragtime suonato su un piano scordato e da l’odore della carne di maiale alla griglia.
La musica proveniva da dietro un bancone di legno, come quelli presenti nella reception dei motel o dei vecchi bordelli del sud, un anziano uomo di colore, calvo e in tuta da lavoro beige, suonava un pianoforte verticale malconcio, dondolandosi alla Ray Charles
Saturday pretese la sua attenzione: “Homer, il nostro ospite è giunto”.
Il musicista si girò di scatto abbandonando la sua performance, Doug notò che era cieco, le iridi erano nivee e le pupille assenti.
“Douglas Albert Geere”, cadenzò con lentezza, “Benvenuto. Non l’aspettavamo così presto. Mi dispiace ma non posso farla andare oltre, la sua stanza non è ancora pronta, lei deve andarsene”.
Saturday intervenne in modo fermo: “Homer, registra Doug come ospite temporaneo, così è stato deciso dal direttore e a noi non è data facoltà né di capire né di protestare”.
Homer, contrariato, fece una smorfia e prese un registro enorme, rilegato in pelle di un intenso rosso cupo, lo aprì e scrisse qualcosa con una piuma di corvo ed uno svolazzo della mano.
“Ecco fatto signor Geere, le formalità sono sbrigate, può entrare ora. Le raccomando, lei è un visitatore, non si soffermi troppo, il suo tempo è limitato”.
Accompagnato da Saturday, Doug si avviò verso uno stretto corridoi dove erano presenti molte porte. Il soffitto era notevolmente più basso rispetto all'atrio rendendo l’ambiente claustrofobico. Anche la moquette e la carta da parati sembravano concorrere a rendere lo spazio più soffocante, erano adornate con un motivo indefinibile ed irregolare il cui colore passava dal viola al marrone scuro poi al verde ed al rosso.
“Andiamo Doug, abbiamo un lungo sentiero da percorrere per arrivare nel posto in cui devi recarti”, proferì giocosamente Saturday.
Arrivati di fronte alla prima stanza, udirono provenire dall’interno un rumore che sembrava la pancetta che sfrigola e colpi sordi seguiti da esplosioni liquide, come se qualcuno lanciasse frutti marci contro il muro.
La porta si aprì violentemente, all’interno Doug vide sua moglie Trisha avvinghiata a John, il suo migliore amico dai tempi del liceo. Erano travolti da una passione irrefrenabile e si rotolavano a terra in un liquido nerastro, come se stessero facendo lotta nel fango. Doug guardò meglio, non era fango ma scarafaggi di diverse dimensioni. Trisha e John si schiaffeggiavano a vicenda violentemente, sbattevano contro le pareti e il pavimento per liberarsi dagli insetti che, ostinatamente, cercavano di partecipare alla copula. Gli scarafaggi venivano fracassati, schiacciati, esplodevano schizzando i loro fluidi e pezzi di carapace chitinoso. Le interiora degli artropodi li ricoprivano e colavano in ogni dove ma la coppia non riusciva a fermare il congiungimento carnale anzi, si baciavano, si leccavano e si mordevano nonostante la lordura in cui erano immersi.
Doug distolse lo sguardo ed ebbe un fremito, stordito dallo schifo di quello spettacolo e dai suoi protagonisti.
Saturday chiuse la porta e gli si rivolse dolcemente “Andiamo Doug, questo non è posto per te, c’è molto altro da vedere”.
Doug fece un respiro profondo e si rimise eretto, fece un cenno d’assenso alla sua guida e ripresero a camminare.
Gli era sembrato che le varie porte fossero vicine tra loro ma, ora che procedeva lungo il corridoio, si accorse che invece erano molto distanti l’una dall’altra.
Giunsero alla seconda porta e notò che era socchiusa.
“Sei sempre stato curioso Doug, è una qualità che ho sempre apprezzato in te, coraggio, dai un’occhiata”, incoraggiato dal precettore Doug aprì la porta.
Urla umane e suine lo investirono violentemente.
L’odore arrivò un attimo dopo.
La stanza era molto più ampia della precedente, non se ne vedevano i limiti.
Lunghe e innumerevoli schiere di gogne costringevano altrettanti umani, obesi e nudi, ad affondare le loro fauci in trogoli di pietra straripanti deiezioni, insetti, frutta e verdura marce, carcasse putride dove miriadi di bianchi vermi si agitavano.
Quelli sventurati non erano semplicemente obesi, avevano abbandonato la forma umana, erano più simili a dei barili di carne i cui rotoli e cuscinetti sembravano colare simili a liquidi viscosi come il petrolio o il vetro fuso.
Dietro di loro, c’erano figure che sfuggivano alla vista di Doug, non riusciva a inquadrarli, a metterli a fuoco, erano come le ombre che si vedono con la coda dell’occhio ma, quando ci si gira a guardarle, rivelano non esserci.
Queste figure, queste ombre, armate di lame arrugginite e spuntate e delle fogge più varie e improbabili, massacravano i quarti posteriori dei lardosi ricavandone libre su libre di carne senza che questi si esaurissero mai, le cucinavano direttamente su carboni o con spiedi e successivamente le gettavano in pasto a degli esseri secchi e miseri, sulle cui ossa, stava solo un sottile strato di pelle grinzosa e grigiastra. Questi sventurati, dalle forme rachitiche, senza quasi più denti, erano incatenati al muro e, ogni volta che qualcuno gli lanciava un boccone,vi si lanciavano contro come bestie fameliche ma, una volta afferrata la carne, questa si tramutava in polvere e li lasciava con la fame e la disperazione, ma sempre privi di speranza.
In mezzo a questo grottesco allevamento passeggiava un gigante, era alto il doppio di un uomo e con il ventre prominente e rotondo, era bendato e portava con se una cornucopia colma di mele rosse che mordeva e poi lanciava a caso tra gli ospiti della stanza.
Saturday chiuse la porta “Non è questo il luogo che devi visitare, ma non ti dovrebbe essere nemmeno del tutto estraneo”, gli riferì sorridendo.
Proseguirono il viaggio, il corridoio procedeva planare curvando leggermente a sinistra ma, a Doug, sembrò di scendere, di sprofondare sempre più verso un baratro oscuro e senza fondo.
La coppia passò davanti ad un’altra porta, era antica e consunta, graffi e solchi la percorrevano come cicatrici, sembrava riuscire a reggersi a malapena sui cardini arrugginiti. Dall'altro lato provenivano grida e pianti, urli e strepiti, invocazioni blasfeme e risate malvagie.
Saturday poggiò una mano sulla spalla di Doug e lo incitò a proseguire: “Qui non c’è niente per te, figliolo”.
Ripresero il cammino in silenzio, Saturday procedeva quasi danzando, come un istrione che conduce una parata. Doug aveva lo sguardo rivolto a terra e strascinava i piedi come fossero macigni.
Udirono un gallo cantare, tre volte.
“Il tempo sta terminando Doug, dobbiamo sbrigarci”, disse dolcemente Saturday.
Poco dopo incontrarono un’altra porta, nera ed intarsiata con simboli arcani, talmente contorti e incomprensibili, che la mente umana farebbe fatica anche solo a immaginarli e la mano della progenie di Adamo non ha la capacità di inciderli.
Sopra la porta, inchiavardata al muro con un chiodo di ferro lungo quanto un braccio, una testa di mucca in decomposizione, le orbite vuote sembravano fissare l’ospite, pelle e carne erano a brandelli e penzolavano da quel macabro trofeo, sangue e liquami erano colati incorniciando la porta come stipiti organici. Dall’interno di quella stanza proveniva quello che sembrava un canto in una lingua impossibile, Doug aveva frequentato poco la chiesa ma gli era capitato di ascoltare inni sacri e canzoni religiose, quel canto gli ricordava quel genere, solo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato, innaturale, le voci erano gorgoglianti come se i cantori fossero sott’acqua, l’armonia dei cori era spaventosa e terrificante, il tempo inquietante sconvolgeva l’animo e le grida inumane turbavano la mente.
Anche questa volta Saturday incitò Doug a proseguire, quando i due si avviarono, la testa di mucca si mosse per seguire il loro movimento, Doug se ne accorse e si girò a guardarla, il bovino fece per muggire ma, come aprì la bocca, la lingua marcia cadde a terra e continuò a contorcersi mentre bava verdastra e sangue colarono formando una pozza.
Il preside prese per mano l’allievo e lo distolse da quello spettacolo costringendolo a proseguire.
Passarono altre porte, Saturday forzò Doug alla marcia imputando quella fretta alla tirannia del tempo.
Arrivarono ad una scala che si inabissava nel buio, da quella voragine tetra scaturivano incostanti refoli di aria gelida.
Saturday sorrise a Doug, “Io non posso accompagnarti oltre, mio caro, segui questo sentiero, è questa la tua strada ora e ti consiglio di non perdere tempo, non ne rimane molto”.
Doug si volse verso l’ingresso nella tenebra e piagnucolante implorò: “La scongiuro, mi accompagni ancora per un po’ almeno, è molto buio e non so nemmeno dove siamo!”, quando si girò a cercare nuovamente il suo interlocutore non lo trovò, ora era solo in quel corridoio e, dalla direzione da cui era arrivato, provenivano voci, grida e quello che sembrava il fragore di un branco di cavalli al galoppo che si avvicinava.
Rassegnato,si mosse verso il buio.
Gli scalini erano lapidi conficcate nella parete rocciosa, la scala si svolgeva a spirale, ad ogni gradino a Doug sembrava che il freddo si facesse più intenso.
Non c’era nessuna fonte di luce, malgrado ciò, Doug vedeva fino ad un paio di gradini sotto di lui.
Sulle lapidi che calpestava, i nomi cesellati erano illeggibili a causa dell’usura e della lingua in cui erano scritti o, semplicemente, erano nomi che per Doug non avevano senso.
Continuò a scendere e il tempo si dilatò nel ripetersi dei suoi movimenti.
Su un gradino trovò un foglio, lo raccolse e lo lesse.
Era il contratto che aveva fatto firmare al signor Saturday, il suo primo contratto, gli tornarono in mente gli inizi della sua carriera, quando era un giovane stolto colmo di sogni, speranze e fiducia. Scoprì ben presto che per poter farsi strada in quel mondo bisognava avere ben pochi scrupoli.
Un altro gradino, un altro contratto,un altro ricordo.
La signora Kalys, una dolce vecchietta che viveva in un piccolo appartamento dai toni pastello. A Doug serviva la sua firma su una polizza per impressionare il suo superiore, la signora si fidava di lui, Doug le propose un fondo ad alto rischio. La signora Kalys perse l’appartamento, la pensione e i suoi pochi risparmi.
La trovarono pacificamente addormentata nel suo letto, accanto a lei, due confezioni vuote di barbiturici.
Doug fu promosso e incassò la provvigione che gli spettava.
Accartocciò quel foglio e se lo gettò alle spalle.
“Giuda!”
La voce della signora Kalys, dal nulla, colpì Doug di sorpresa e si perpetrò con un eco nel vuoto dell’oscurità che lo circondava.
Proseguì la discesa.
Gradino, contratto, ricordo.
Il signor Thompkins, aveva gestito la drogheria che era stata della sua famiglia per quattro generazioni, lui fu l’ultimo dei Thompkins ad esserne proprietario grazie a un piccolo ma devastante errore, l'aver creduto in Doug. Il signor Tompkins fu rinvenuto nel retrobottega della drogheria, impiccato ad una trave. Ma Doug aveva bisogno di quella firma, aveva bisogno di soldi per un loft in centro e voleva una Mercedes.
“Giuda!”
Alla signora Kalys si era aggiunto il signor Thompkins.
Gradino dopo gradino, lapide dopo lapide, molte voci si aggiunsero al coro, una per ogni tradimento.
“Giuda! Giuda! Giuda!”
Doug, travolto dai ricordi e dai suoi fantasmi, si mise a correre lungo la scala cercando di sfuggire alle voci che lo seguivano, implacabili, ricordandogli le sue colpe.
“Giuda! Giuda! Giuda!”
La sua fuga fu interrotta bruscamente, non riusciva più a muovere le gambe, si erano come incollate ad un gradino, Doug riuscì a leggere il nome che vi era inciso:
“Douglas Albert Geere”.
Uno strato di ghiaccio cominciò ad avvolgerlo salendo dal basso e rendendogli sempre più difficile ogni movimento.
Dalle profondità della tenebra giunse un verso mostruoso, inarticolato e fortissimo, innaturale e raggelante, era un latrato, un ruggito, un grido che squassava le radici del mondo e la mente del peccatore, cresceva di intensità e la fonte da cui sgorgava sembrava farsi sempre più vicina.
Il viaggiatore venne colto dal panico, provò a muoversi, a liberarsi da quella morsa ghiacciata ma era tutto inutile.
Si mise a gridare in preda al terrore.
Doug si svegliò di soprassalto, ritrovandosi seduto sul letto.
Si guardò attorno, era nella sua stanza, accanto a lui sua moglie dormiva, pacifica. Alzò lo sguardo e rivide le stelle la cui luce gli diede conforto.
Sorrise e diede un’occhiata alla sveglia, erano le sei del mattino.
Si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra, entrava uno spiffero d’aria fredda, non era stata chiusa bene.
Decise di tornare a letto ma, come si voltò verso il talamo, un latrato lo sorprese alle spalle lacerando il silenzio della notte. Doug si rivolse verso la fonte del suono, proveniva dalla strada su cui dava la sua finestra, era ancora buio e non riuscì a vedere quale era stata l'origine di quel frastuono. Passò un auto illuminando la via. Doug indietreggiò fino a sedersi sul letto, si portò una mano alla bocca per trattenere l’urlo che gli stava nascendo in gola.
Scosse il capo negando a se stesso quella visione, si disse che il poco sonno l’aveva confuso, che si era appena svegliato e non era completamente lucido, che il sogno che aveva appena fatto lo aveva sgomentato e impressionato. Non lo avrebbe mai raccontato a nessuno ma gli era parso che, sotto la sua finestra, sulla strada, ci fosse un uomo che lo salutava con la mano mentre con l'altra teneva al guinzaglio un cane.
Quell'uomo era il signor Saturday e con lui c'era un cane a tre teste.
Tom