Semifinale Francesco Nucera

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo giugno sveleremo il tema deciso da Wladimiro Borchi. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#1 » martedì 29 giugno 2021, 0:13

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Vivo nel Buio
Combattono in questa semifinale:

Il gioco del buio, di Alessandro Canella
Alexane e il mistero della tomba senza nome., di Alex Didò

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: mercoledì 30 giugno alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 30 giugno. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



Alex Didò
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Re: Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#2 » mercoledì 30 giugno 2021, 12:36

Racconto rivisto e corretto. Buona gara a tutti.



Il boato del tuono mi sveglia.
Afferro il bastone-guida da sotto il cuscino e lo stringo sul petto. È solo un temporale, Alexane, un angelo distratto che rotola giù dalle scale del cielo. Sei in camera tua, adesso, protetta dall’icona della Mater Dolorosa e dal crocifisso di Nostro Signore. Nessuno è più forte di Loro. Nessuno può farti del male. Nessuno―
Una raffica di vento fa cigolare i cardini della finestra. Una tegola sul tetto si stacca e s’infrange tre piani più sotto con un suono simile a un salvadanaio quando si rompe.
Infilo la mano nella tasca del pigiama e tiro fuori la foto. Sarebbe meglio il rosario, per scacciare le ombre del temporale, ma è dentro al comodino e se uscissi dal letto mi salterebbero tutte addosso.
Poggio la fronte sulla foto. Strizzo le palpebre per strappare dalla mia mente un ricordo, un’immagine felice di me da bambina. Ma la foto è nera; nera come la mia stanza, la mia casa, il mondo fuori dalla finestra. L’accarezzo. I polpastrelli scivolano sulla lamina e trasformano la sensazione tattile in un colore, la pellicola in un ritratto: ci sono io, al centro del quadro, sono nel rilievo ruvido dei pulviscoli, nel calore che la filigrana assume sotto il bordo del foglio, dove le mie trecce fanno da gancio alla cornice. Accanto a me, appeso a testa in giù sul ramo del salice, c’è Antoine, il pipistrello che mi ha insegnato a vocalizzare e a orientarmi nel buio. Anche lui aveva paura dei temporali. Anche lui è stato preso dalle ombre in una notte come que―
Una risata maschile urta contro la finestra. Dal cimitero di famiglia, oltre il giardino, altre risate sovrastano la caduta della pioggia nelle pozzanghere.
Calma, Alexane, sono solo i mezzadri di papà. L’estate è appena iniziata e da qui a Fonte d’Amore la messe è abbondante. Magari sono solo venuti a scaricare gli attrezzi. Magari erano solo ubriachi e hanno perso la strada.
Le voci intonano una litania. Un oggetto metallico batte sul terreno e sfrigola sul pietrisco.
Era una pala? Vogliono rubare dalle tombe dei nonni? Nessun mezzadro farebbe una cosa del genere ai marchesi De Lamartine.
Poggio i piedi sul parquet. Le ombre acquattate sotto al letto mi afferrano le caviglie con dita gelide. Apro il comodino, afferro il rosario e lo punto in direzione del pavimento. Le ombre mollano la presa e strisciano con un lamento verso i quattro angoli della stanza.
Ben vi sta, demòni.
Mi alzo e punto il bastone in direzione della finestra.
La pioggia batte sul vetro come grandine. La grondaia all’esterno è stracolma e cigola fra gli anelli che la fissano al muro.
Ti prego, Signore, fa che non siano ladri, fa che tutto questo sia solo un brutto sogno.
Allaccio la mano sul pomello e apro la finestra. Il vento mi scompiglia i capelli e mi spruzza sul viso schizzi di pioggia e aghi di pino. Nell’aria c’è odore di incenso, crisantemi, di camini che sbuffano nell’aria zaffate di cenere.
Mi asciugo la faccia sul pigiama e indirizzo l’orecchio verso il cimitero.
Le voci sono confuse, si disperdono nel fischio del vento tra le foglie.
Premo la lingua sul palato e la stacco con uno schiocco. Il suono esce dalla mia bocca, raggiunge il cimitero e...
uno, due, tre…
…il suono torna nelle mie orecchie e disegna nei condotti uditivi due sagome ferme sotto la pioggia.
Una ha i capelli lunghi fino alle spalle. La mia matrigna? No, non può essere. Forse l’onda è stata disturbata dalla pioggia.
Vocalizzo di nuovo.
Le onde viaggiano nell’aria e disegnano i calchi delle due sagome nel cimitero. La prima è il dottore di famiglia: impugna una pala e sta ricoprendo una buca fra le due tombe dei miei nonni. L’altra è la mia matrigna: è sotto il salice, il vocalizzo l’ha raggiunta nell’atto di inchiodare al suolo una croce.
Hanno seppellito qualcuno? E perché lo hanno fatto di notte, sotto la pioggia? Devo scendere da mio padre e raccontargli tutto.
Mi avvicino alla porta e nella mia testa rimbomba la voce della mia matrigna che mi proibisce di uscire. Mi scoprirebbe, se lo facessi: lei sa sempre tutto, fiuta i miei pensieri, li legge anche da lontano. E se mi scoprisse mi rinchiuderebbe nella mia stanza per tutta l’estate.
Mi rinfilo nel letto. La pioggia è diminuita e gli ultimi tuoni brontolano lontano, nel ventre delle montagne. Stringo la foto. Forse la persona che hanno sepolto è legata al mio passato. Magari se scopro il nome inciso sulla croce ricorderò qualcosa della mia infanzia: perché sono cieca, ad esempio, e perché non ricordo nulla del giorno di ieri.
Non disubbidire, Alexane, il diavolo cerca solo una scusa per strapparti le orecchie, non lo sai?
Deglutisco. È vero. La croce è lì e posso leggerla anche domani, se voglio.
Chiudo gli occhi e conto le pecorelle. Una, due tre… la quarta si ferma prima dell’ostacolo e mi sorride. ‘Beee e se non ti permetteranno più di uscire? Beee e se da domani mattina ti chiuderanno a chiave nella tua stanza?’
Che pensiero sciocco, pecora. Mia madre non arriverebbe mai―
‘Non mentire, beee. Tua madre è un mooostro, beee, un mooostro’.
Hai ragione, non posso aspettare. Quel nome potrebbe aiutarmi a recuperare la memoria. E io voglio sapere chi sono e voglio saperlo adesso, subito.

***

Apro il portone del Casale. L’aria che rientra dall’esterno risucchia dalle mie caviglie l’ultimo calore delle coperte. È il freddo della notte, quello che scende dal Morrone per ricoprire di brina i capelli dei salici.
Infilo il portaombrelli fra il portone e il muro. Ti prego, Signore, fa che il vento non lo sposti, fa che la mamma non si svegli prima del mio ritorno. Ho attesa un’ora, dopo il suo rientro, e potrebbe essere l’unica occasione che ho per leggere quel nome.
Tasto con le dita lo spazio esterno alla porta. È freddo, umido, l’aria che lo riempie puzza del letame che proviene dalle stalle.
Oriento il bastone in direzione del cimitero e mi faccio strada. Le scarpe affondano in zolle di fango e aghi di pino. La melma rientra nei passanti dei lacci e mi congela i calzini. Devo ripulirmi bene, una volta in camera, e sperare che mi madre non noti le mie impronte sulle scale.
Supero il glu glu della fontana al centro del giardino; sposto le fronde dei salici che fanno da confine al cimitero e mi fermo davanti alla croce, fra le due tombe dei nonni.
L’odore dell’incenso e dei crisantemi risale dalla terra con l’umidità della pioggia. Un gufo, alle mie spalle, mi saluta con un verso basso, di gola, e qualcosa di più grosso striscia veloce fra le siepi.
Non farti spaventare, Alexane, devi solo scoprire il nome inciso sulla croce e rientrare in camera tua prima che faccia giorno.
Allungo il bastone. La punta traccia una linea retta sul terreno e si ferma contro un paletto di marmo. Lo ripercorro in altezza e mi fermo al centro, in corrispondenza di una targhetta metallica. Il nome dovrebbe essere inciso qui. Ci sono quasi.
Mi inginocchio, aggancio le mani al braccio laterale della croce e tasto la targhetta. Il metallo è liscio, l’incisione che riporta il nome è a filo con la superficie. Strano. Le targhe dei nonni hanno i nomi in rilievo e questa no. Forse non volevano che la leggessi?
Calma, Alexane, l’incisione è più calda rispetto al metallo che la circonda. Se ti concentri, puoi arrivare al nome attraverso la differenza di temperatura.
Appoggio il palmo sulla targhetta e inspiro a fondo. Il metallo è freddo. I pulviscoli dell’incisione, al centro, sono più caldi, ma si addensano in una grafia troppo minuscola per le mie mani.
Avvicino la bocca alla scritta. I tubercoli sensibili delle labbra accarezzano l’incisione da destra verso sinistra. La prima parola del nome è una ‘L’; la seconda una ‘A’.
Bene. Ci sono qua―
Il portaombrelli che tiene aperta la porta rotola a terra con un tintinnio metallico. Alle mie spalle, dall’altra parte del giardino, la vibrazione dei tacchi di mia madre si propaga sul terreno in piccole onde concentriche.
Devo sbrigarmi!
Trattengo il fiato, accarezzo la targa e il resto della scritta si imprime lettera dopo lettera sulle mie labbra: Lamartine.
No, mi sto sbagliando, solo io e mio padre portiamo questo cognome.
I passi di mia madre mi arrivano alle ginocchia in cerchi sempre più svelti, nervosi, che frantumano i formicai sul prato.
Attacco le labbra all’incisione. La scritta non mente: la persona sepolta è una Lamartine.
Tutto questo non ha senso. Un funerale segreto, una tomba senza nome, un parente sconosciuto. E mio padre? Perché non era con loro?
Mia madre si ferma fuori il rettangolo della sepoltura. È dietro di me. Il respiro le galoppa furioso tra una narice e l’altra.
Strizzo le palpebre e incasso la testa fra le spalle. Mi preparo allo schiaffo, quello che mi riserva ogni volta che disubbidisco, ma non arriva.
Il suo respiro accelera, come se espirasse fiamme. «Razza di vipera. Cosa ci fate qui?»
Le punto il bastone contro. «Un altro passo e chiamo mio padre. Giuro su Dio che lo faccio!»
Ride, una risata affilata, come le pagini taglienti di una Bibbia. «Non ricordate cosa Dio disse alla donna? ‘Io moltiplicherò grandemente le tue pene’. Bisogna espiare con grandi preghiere, Alexane, pregare ed espiare, pregare ed espiare.»
Un brivido mi contrae le scapole. «Voglio mio padre! Perché non era con voi al funerale? Ditemi dov’è!»
Sbuffa, seccata, come se le avessi rovinato tutto il divertimento. «È nella vostra stanza, dove lo avete lasciato.»
Nella mia stanza? Non c’era nessuno quando sono uscita.
Aspetta…
Le dita dei miei piedi si rattrappiscono nelle scarpe e la memoria di qualcosa di cattivo mi sale da lì fino alla radice dei capelli.
È accaduto qualcosa nella mia stanza. Ma cosa? Devo ricordarlo. Il bruciore che mi avvampa nel petto mi dice che è importante, e che mi farà male…

***

«La colazione.» Mia madre si ferma ai piedi del letto. Un profumo aspro di Tè e biscotti alle mandorle riempie la camera.
Mi brucia lo stomaco, gli acidi gastrici mi graffiano la gola come spilli. E mangiare di certo non mi aiuta: negli ultimi giorni non ho fatto altro che vomitare.
Sforzo un sorriso. «Vi ringrazio.»
Poggia il vassoio sul letto. «Il dottore vuole che mangiate tutto e che controlli personalmente che lo facciate.»
Deglutisco. «Non ho fame.»
«Come pretendete di guarire se non mangiate?»
«Ma-ma io sto bene.»
«Il dottore non è dello stesso avviso. Avvicinatevi, forza.»
Mi siedo sul bordo del materasso. Tasto le lenzuola e afferro un biscotto dal vassoio. Ne stacco un pezzo dall’angolo e lo mando giù. Le mandorle sono amare, l’impasto che le ricopre ha un retrogusto acido, come un limone andato a male. Mi sciacquo la bocca con due sorsi di Tè, mi tappo il naso e mando giù il resto.
«Bene.» Si alza, recupera il vassoio e si muove verso la porta. «Spero che il cibo vi porti giovamento. Non sappiamo più che altre strade prendere con voi.»
La porta si chiude, i suoi passi si allontano al di là della parete con una vibrazione nervosa, fredda, che graffia il silenzio del corridoio.
Una fitta allo stomaco mi piega in due. Mi precipito in bagno, mi inginocchio e vomito un fiotto acido all’interno della tazza.
Mi gira la testa, le orecchie mi ronzano come se nei timpani avessi le vespe. Devo reagire, togliermi dalla bocca questo sapore.
Mi alzo e getto la faccia sotto l’acqua del lavandino. Faccio dei gargarismi e risputo ogni rimasuglio nell’acquaio.
La porta della mia stanza si apre. Due scarpe di cuoio scricchiolano sui listelli del pavimento. Si avvicinano alla porta del bagno, si fermano, una bocca che puzza di sigari e disinfettanti emette un sospiro. «Debbo dedurre che i vostri sintomi non sono affatto migliorati, signorina Alexane.»
È il dottore. Per questo le mie spalle si sono irrigidite. Per questo le mie gambe si sono serrate come una forbice. Dopo così tanti anni non sono ancora riuscita ad abituarmi alla sua presenza.
Entra nel bagno, la porta si chiude. «Vi aiuto a distendervi, signorina.»
«No.» Il tono della mia voce è alto, più alto di quanto avrei dovuto.
Le sue mani mi toccano le spalle, mi salgono sul collo e s’insinuano lascive fra i capelli. «Non dovreste stare in piedi, lo sapete. La vostra salute è cagionevole e avete bisogno di riposo.»
Ventilo. «St-sto bene.»
Avvicina il bacino alle mie natiche e preme la fibbia della cintura sulla mia schiena. «Oh, no, questo lo devo stabilire io.»
«Vi pre...»
«Shhh.» Allunga un dito sulle mie labbra e le dischiude con l’unghia.
Mi fermo, tremo dalla testa ai piedi come una tavola percossa da un martello. Questo è solo l’inizio, il primo dei suoi numerosissimi giochi che mi vedranno prima in ginocchio, poi sdraiata, infine cavalcioni su di lui come un’amazzone.
Apro la bocca, emetto un roco per farlo smettere, ma il suo dito mi schiaccia le parole sulla lingua.
Sgomito. «No, flelmo, vi scongiuvo.»
«Oh, sì, avete le tonsille infiammate.» Affonda due dita nella gola e le muove intorno all’ugola. «Sì, proprio infiammate, dobbiamo umettarle con il mio balsamo speciale.»
Tossisco, uno spruzzo di vomito mi schizza dal naso e mi cola sul mento.
«Non muovetevi, stupida Lamartine.» Mi stringe i capelli, se li rigira in una mano e chiama il mio viso al cielo. «Adesso vi inginocchiate e approfondiamo la visita. Un solo lamento e dirò a vostra madre che mi trasferirò qui, nella vostra stanza, affinché possa continuare queste visite giorno e notte.»
Con la mano libera mi afferra la spalla e mi spinge in basso.
Non farlo, Alexane, non farlo.
Le mie ginocchia si piegano, vanno giù, sempre più giù, sulla scacchiera gelida del bagno.
Il dottore si slaccia la cintura. La fibbia di metallo mi scivola dai lombi e cade per terra. «Shhh, è per il vostro bene, zitta.»
Un fiotto di rabbia mi esplode lungo il corpo. Non c’è nulla, in questa casa, che sia fatto per il mio bene; nulla, in questa casa, che abbia un solo ricordo impregnato di amore. Sono meno che niente, per voi, meno di un pupazzo da gettare e ripescare da una cesta.
Ma adesso basta!
Sono stufa.
Stanca.
Ho solo voglia di gridare e...
m o r d e r e - m o r d e r e - m o r d e r e!
Contraggo la mascella e affondo i denti sul suo dito. Gli incisivi bucano la pelle, tranciano filamenti duri come il cuoio e raggiungono l’osso. Un fiotto caldo, dal sapore metallico, mi inonda la bocca.
Il dottore emette un urlo gutturale e mi schiaccia la fronte contro il muro del bagno. «Sputa, puttana, sputa!»
Puttana? Serro i denti con più forza e la punta del suo dito – CRACK – si spezza in due come un biscotto.
Caccia un grido acuto e mi colpisce la tempia con un pugno.
Le ghiandole degli occhi mi esplodono sugli zigomi in lacrime calde. Fa male, ma non posso mollare. Se lo lascio mi ammazzerà di botte.
Una vibrazione scuote il pavimento del bagno. La porta si spalanca e le mani fredde di mia madre mi afferrano per il collo. «Lascialo, vipera, lascialo!»
Le risputo metà dito addosso e le afferro le mani. Tiro per staccarle, ma non mollano.
Gli stivali di mio padre entrano nella stanza. Sono quelli con lo sperone sul tacco, quelli con i quali devo aver giocato qualche volta da bambina. Si avvicinano, si muovono lenti, inciampano sul risvolto del tappetto e si rimettono in piedi.
Il dottore apre l’acqua e getta le mani nel lavandino. «La ragazza è un’invasata. Chiamate il Pastore, subito!»
Le mani di mio padre mi afferrano per le spalle: sono bollenti, sudate, tremano sulle mie braccia come se fossero ripiene di formiche. Per questo non era con loro al funerale? Perché era malato?
Mi afferra per le spalle e mi libera da mia madre. «Santo Dio, che cosa vi è preso, Alexane?»
Indietreggio, batto con la scapola lo stipite della porta e mi fermo in camera. «St-sta mentendo, papà, è un bugiardo, un bugiardo!»
Un oggetto mi sfiora l’orecchio, batte sul muro in fondo e si rompe per terra in mille frammenti di cristallo. «Come osate? Siete un demonio, puttana!»
Mio padre mi affianca e mi stringe a sé. «Calmatevi, dottore. Sono sicuro che la ragazza non―» Un colpo di tosse gli mozza il respiro. Si batte il petto, tossisce, risputa sul pavimento un liquido che puzza di mandorle e sangue. «Uscite, Alexane, lasciatemi conferire con il dottore in privato.»
Mi allungo sulla porta della camera. Cado sul risvolto del tappeto e mi trascino con i gomiti fino all’uscita. Mia madre mi cammina dietro, ride, ci ha sempre goduto nel vedermi strisciare.
Mi rialzo sul pianerottolo delle scale e metto il piede sul primo gradino.
I tacchi di mia madre si fermano alle mie spalle. «Dove credete di andare?»
Mi giro. Il suo respiro nervoso mi sfiata addosso tutto lo sdegno, la vergogna, ora che mi sono ribellata e ho fatto quello che nessuna figlia dovrebbe mai fare: disubbidire.
«Sto uscendo, madre.» Calco l’ultima parola, la spezzetto fra i denti come se fosse di pietra.
Una mano mi colpisce il viso e mi fa girare la testa.
Indietreggio, i talloni incontrano il bordo del primo gradino e scivolano in basso. Sventolo le braccia, resto in bilico tra il cadere e il restare in piedi, ma un altro schiaffo mi colpisce la guancia e mi spinge di sotto.
Precipito.
La schiena e la testa urtano contro i gradini di pietra e negli occhi mi esplodono milioni di coriandoli neri.
Continuo a rotolare. I bordi sbucciati dei gradini mi martellano la schiena, i fianchi, la testa, dovrei gridare per il dolore ma non sento più nulla. Mi sto avvicinando all’uscita e il vento che proviene dall’esterno ha il calore dell’estate, della libertà, del volo degli uccelli dopo l’inverno.
Mi fermo sul pianerottolo dell’ultimo gradino. Il sangue mi ruscella dalla nuca e mi arroventa la pelle. Sto morendo, sì, ma non è la prima volta. Questo dolore alla testa è simile a quello di ieri e di ieri l’altro. Adesso lo so. Adesso so chi sono. Una morta, sì, un’anima bloccata in un giorno senza fine.

***

Vocalizzo.
Di fronte alla mia tomba ci sono il dottore e mia madre. Si stanno baciando. Le loro labbra emettono dei gemiti nauseanti, gli stessi che il dottore mi vomita addosso quando mi lecca l’orecchio. Per questo mi hanno ammazzata, certo. La mia matrigna era gelosa di me. Voleva il dottore tutto per lei. Ma se possono ancora vedermi, nonostante sia morta, allora significa che anche loro sono morti.
Lancio loro addosso una manciata di terra. «Siete dei mostri, vi odio!»
Il dottore risucchia la saliva nella bocca e ride. «Forza, Adele, prendiamola.»
Prendiamola? No, questa è la mia tomba. Qui non potete pre―
Uno scarpone bagnato si poggia sul dorso della mia mano e me la blocca. Il tacchetto di cuoio fa pressione sul mignolo per spezzarmelo.
Grido, fitte di dolore mi risalgono dal braccio fino alla testa.
Mia madre emette un soffio iroso e allaccia le mani sulla mia gola. Vuole strozzarmi. Non le basta il veleno nei biscotti, non le basta il sapermi già morta. Vuole togliermi tutto, anche la poca pace che mi spetta.
Allungo la mascella sulla sua faccia. Batto i denti intorno al suo naso. Non riesco a morderla.
È finita! Fra un po’ mi sveglierò in camera e tutto ricomincerà da zero. Il funerale, la tomba, mia madre, il ricordo, la caduta.
E il temporale. Le ombre dei demòni del casale, le catene dell’odio che ci imprigionano in questo limbo senza più corpo né storia.
Un colpo di fucile esplode nell’aria.
Mi sveglio. Sono ancora in giardino, al cimitero, sulla mia tomba.
Mia madre allenta la presa dal mio collo e si accascia su di me con un lamento. Il dottore molla la mia mano e indietreggia.
Mi scrollo mia madre di dosso. Le mani mi si imbrattano di sangue e brandelli di stoffa.
Un altro colpo di fucile fende l’aria come una frusta. Il dottore emette un roco basso, di petto, e cade davanti ai miei piedi.
Due scarpe pesanti si avvicinano. Un suono metallico di speroni li accompagna. Papà!
Dimmi che non puoi vedermi, papà. Dimmi che almeno tu sei vivo.
Si inginocchia accanto a me e mi accarezza la guancia. La sua pelle è fredda, puzza di mandorle e polvere da sparo. «Come stai?»
Premo la mia guancia sulla sua mano, in una carezza che do e ricevo. «Che cosa ti hanno fatto?»
La sua mano trema. «Quello che hanno fatto a te, piccola mia. Ma adesso non conta. Fra un po’ si risveglieranno e...»
E tutto ricomincerà da zero, lo so, in una strage familiare senza fine. «Portami con te, papà.»
Ferma la mano sulla mia tempia. «È meglio per te se resti qui. Barricherò le porte e farò in modo che nessuno più esca.»
Mi tiro su il moccolo. «Ti aspetterò qui, allora.»
Si alza. Gli speroni tintinnano nel retro degli stivali e si fermano. Vorrei tanto giocarci, adesso, ma il tempo dei giochi è finito. «Non avvicinarti al casale. Un giorno il Signore ci libererà, ne sono certo, e torneremo di nuovo insieme.»
Non mi muoverò, papà. Ti attenderò qui, sulla mia tomba, da sola.

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Alessandro -JohnDoe- Canella
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Re: Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#3 » mercoledì 30 giugno 2021, 23:38

Il gioco del buio
Alessandro Canella


Gli elettrodi attaccati lungo le braccia e sulle tempie iniziano a pizzicare. Speriamo almeno che questo esame duri meno del test a risposte multiple.
«Fastidio?»
Alzo lo sguardo sul dottore dall’altra parte della scrivania, intento a fissarmi con espressione distaccata. «Solo un leggero prurito.»
L’uomo torna a rivolgere l’attenzione al computer. «Soffre di qualche allergia?»
«Soltanto al pelo animale.» Alzo un sopracciglio. «Non sono previsti gatti durante l’esperimento, vero?»
Il dottore agita una mano in aria, come a voler scacciare una mosca. «Difficoltà a prendere sonno?»
«A volte, soprattutto d’estate.»
«Mai sofferto d’attacchi di panico? Claustrofobia?»
Alzo e riabbasso le spalle.
«Acluofobia?»
«Sarebbe?»
«Paura del buio.»
«Non direi. Insomma, da piccolo forse, ma quale bambino non ha paura del buio?»
Il dottore apre la bocca per un’altra domanda, quando la porta si spalanca e nello studio entra un uomo in completo grigio, sul petto una targhetta con su scritto un nome che non riesco a leggere.
Raccoglie la mia cartella e scorre le pagine. «Chi abbiamo?» La pronuncia tradisce un leggero accento tedesco.
Il dottore si aggiusta gli occhiali. «Soggetto 023.»
Il tedesco si piega sul monitor. «Come mai qui?»
La domanda mi coglie alla sprovvista. Davvero non lo immagina? «Beh, temo non vincerò il premio originalità della giornata.» Abbozzo un sorriso. «Insomma, 2000 Euro sono una bella cifra.»
«Ha problemi economici?»
Cristo, che tatto. «Sono uno studente fuori sede e senza borsa di studio. Di certo non navigo nell’oro.»
«Vive da solo?»
«No, condivido un appartamento con altri studenti.»
«Fidanzato?»
Stringo le labbra e scuoto la testa.
«Ultimo rapporto sessuale?»
«Scusi, questo cos’ha a che vedere con—»
«Si limiti a rispondere» s’intromette il primo dottore.
Deglutisco. «Sei mesi fa. Più o meno.»
«Paura più grande?»
Sto per rispondere, ma il crucco alza un dito. «Ci pensi attentamente. Non dica la prima cosa che le passa per la testa.»
Faccio come mi è stato detto e rimango in silenzio per un po’. «Essere ignorato. O dimenticato, addirittura.»
L’uomo dà un colpetto sulle spalle del collega per farlo alzare e sedersi al suo posto. Digita qualcosa sulla tastiera. «Ha preso visione dei rischi descritti sul modulo d’iscrizione? È consapevole che in caso di selezione le sarà chiesto di rinunciare a buona parte della sua privacy e dei suoi diritti civili?»
Annuisco. Non che l’annuncio sul giornale non lo facesse già intuire: team di ricerca scientifica cerca cavie umane per esperimento psicologico della durata di due settimane legato allo studio dello stress da isolamento estremo.
Il tedesco si alza. Senza troppi riguardi mi strappa gli elettrodi e mi porge un rotolone di carta assorbente con cui rimuovere il gel. «Attenda nell’atrio. Non appena conclusi i colloqui individuali, renderemo noti i candidati scelti.»
Butto la carta in un cestino e faccio per uscire.
«Un’ultima cosa.»
Mi giro.
«So che era scritto anche all’interno dell’annuncio, ma preferisco ricordarlo a tutti: fino al momento della selezione, è vietato qualunque scambio verbale tra candidati. Chiaro?»
Ancora una volta annuisco ed esco dallo studio.

L’atrio del centro di ricerca è affollato da più di un centinaio di candidati, uomini per lo più, tutti in piedi e in silenzio, come tanti moscerini attratti da un po’ di zucchero.
Vicino alle macchinette del caffè qualcuno riceve una telefonata. Fa appena in tempo a rispondere che lo avvicina un pelato con addosso un camice bianco. Da dove mi trovo non capisco cosa dicono, fino a quando i toni non iniziano a crescere e il tizio col cellulare viene accompagnato verso l’uscita.
Dagli altoparlanti parte un ronzio, seguito da una voce femminile. «Verranno ora elencati i numeri dei candidati scelti per l’esperimento. I soggetti saranno divisi in cinque gruppi da tre. Non appena sentirete il vostro numero, siete pregati di alzare la mano.»
Uno alla volta, vengono elencati i numeri selezionati e a ogni formazione esaurita, le squadre vengono fatte uscire da un corridoio laterale. Pochi minuti e arriva il momento dell’ultimo gruppo.
«Squadra 5. Numeri 7, 23, 86.»
Sì, cazzo!
Alzo il braccio e mi faccio largo tra la massa di esclusi che comincia a svuotare l’atrio lasciandosi a commenti di vario tipo. Bye bye, sfigati.
Non senza qualche difficoltà mi unisco ai miei compagni. Lancio un’occhiata ai loro braccialetti per poterli distinguere. 7 si rivela essere una donna dagli occhi gentili e in leggero sovrappeso. 86, invece, un omone riccio e dalla barba folta.
Il pelato di poco prima ci fa segno di seguirlo.
Ci addentriamo tra i corridoi, fino a raggiungere un portellone nero oltre il quale si apre un’ampia stanza con al centro un totem a base triangolare con uno schermo per lato, simile a quelli per le ordinazioni nei fastfood. Dalla piattaforma tre nastri adesivi bianchi si stendono per alcuni metri sul pavimento in linoleum, andando a collegare il blocco di vetro e metallo alle testate di altrettanti letti dalla struttura in acciaio. Ai piedi delle brande, un borsone e un bagno chimico privo di pareti.
Il pelato si avvicina al borsone a lui più vicino. «Vi prego di spogliarvi e indossare la divisa e il bracciale contenuti all’interno. Non appena vestiti, riponete abiti e dispositivi elettronici nelle sacche. Vi saranno riconsegnati a esperimento ultimato. Se dovete avvisare qualcuno, questo è l’ultimo momento a disposizione per usare il cellulare.»
Inizio a spogliarmi dando le spalle a 7, sensibilità che 86 non sembra invece possedere.
Infilata la divisa e allacciato il braccialetto, faccio per scrivere un messaggio a mia madre. Le dita indugiano sui tasti. Cosa posso dire senza farla incazzare? Quando l’altro giorno le ho parlato dell’annuncio non si è dimostrata proprio entusiasta al riguardo…
Oh, che si fotta. Non è lei quella che mi paga gli studi. Lascio cadere il cellulare nella sacca e chiudo la zip.
Il pelato passa a raccogliere i borsoni. Nel momento in cui gli porgo il mio, dal portellone compare lo scienziato con accento tedesco.
L’uomo poggia una mano sulle spalle del collega. «Da qui ci penso io.» Il tedesco attende che il pelato sia uscito prima di tornare a parlare. «Lasciate innanzitutto che vi ringrazi per il prezioso contributo che vi apprestate a fornire. Durante il periodo d’osservazione, questa sarà la vostra casa. Qui mangerete, qui dormirete, qui espleterete le vostre necessità corporali. Non avrete contatti con l’esterno e le uniche persone presenti sarete sempre e soltanto voi tre.» Con un dito indica il mio braccialetto. «Attraverso il dispositivo che tenete al polso, monitoreremo i vostri parametri: battito cardiaco, qualità del sonno, livello di sudorazione.»
Avvicino il braccialetto agli occhi per osservarlo meglio. La superficie è in gomma, con un leggero rigonfiamento nel punto in cui sono installati i sensori.
7 alza una mano. «Ci sta dicendo che dovremo fare i nostri bisogni davanti a tutti?»
Lo scienziato muove lo sguardo al soffitto. «La privacy non sarà un problema, almeno in parte. Per l’intera durata dell’esperimento, le luci rimarranno spente. Potrete riconoscere la disposizione dell’ambiente soltanto grazie al nastro adesivo fosforescente sul pavimento.» Gli occhi dell’uomo tornano a rivolgersi a noi. «Queste le regole da rispettare, pena l’espulsione e la perdita dell’intera somma di denaro. Regola 1: mai togliere il braccialetto, per nessun motivo. Regola 2: quando dagli altoparlanti verrà annunciato il vostro numero, dovrete raggiungere il totem e fare ciò che vi verrà ordinato. Regola 3: rivolgersi agli altri solo col loro numero. Regola 4: è fatto divieto di scambiare cibo o altri oggetti con i compagni. Ultima regola: non sono ammessi atti di violenza di nessun tipo. Tutto chiaro?»
7 ed io ci scambiamo uno sguardo e annuiamo. Soltanto 86 rimane impassibile.
«Molto bene.» Lo scienziato si avvicina al portellone d’uscita. «Buona permanenza e buona fortuna, signori.»
L’uomo gira la maniglia ed esce.
Le luci si spengono.

Il buio è assoluto, impenetrabile.
Nemmeno da sotto il portellone filtra alcun barlume. Soltanto i nastri adesivi emergono dall’oscurità, ma la loro luminescenza e così fioca da impedire di distinguere alcunché si trovi anche solo a un centimetro di distanza.
Mi torna in mente la vecchia casa dei miei genitori, la vigilia dell’ultimo Natale passato tutti insieme. Sono disteso a letto. Dall’uscio della cameretta papà mi augura la buonanotte mentre mamma schiocca un bacio sulla mano e chiude la porta. Io però rimango con gli occhi aperti, troppo emozionato per poter dormire. Poco alla volta le forme dei mobili acquisiscono nuova consistenza, fino a riottenere la loro rassicurante familiarità.
Qui non è così.
Tenere gli occhi chiusi o aperti non fa alcuna differenza, eppure non riesco a resistere alla necessità di muoverli in ogni direzione, alla ricerca di qualche riferimento.
Con le mani cerco il bordo del letto. Lo afferro e mi ci siedo sopra per provare la consistenza del materasso. Un po’ troppo morbido per i miei gusti, ma mi ci posso abituare. «Ho il sospetto che questa non sia la stanza più luminosa dell’albergo.»
Una risata femminile da sinistra. «Poco male. Almeno riuscirò ad addormentarmi senza difficoltà.»
«Aspetta a dirlo. Non mi hai ancora sentito russare.»
7 sospira. «Ti assicuro che dodici anni di matrimonio e tre figli maschi mi hanno temprata a questo e altro.»
Ridiamo, tranne 86. Non ho ancora sentito nessuno rumore provenire dalla sua direzione.
Con la coda dell’occhio scorgo una leggera variazione nella luminosità provenire dal totem. Sul pannello rivolto nella mia direzione un LED rosso ha iniziato a brillare a intermittenza. Dagli altoparlanti parte un ronzio e una voce sintetizzata pronuncia il mio numero.
Anche se non posso vedere, percepisco l’attenzione degli altri su di me. Mi alzo dal letto e con passo incerto inizio a seguire il percorso segnalato dal nastro adesivo. So che non ci sono ostacoli, eppure l’istinto mi consiglia cautela.
Raggiunto il totem, lo schermo s’illumina quel tanto che basta per distinguere un orsetto in pixel art che mi saluta scuotendo le zampe. L’espressione gioviale dell’animale viene però subito sostituita da un’animazione che lo mostra massaggiarsi la pancia con aria triste. A lato dello schermo, tre tasti riportano le opzioni nutrimi, addormentami e puniscimi.
Il letto di 7 cigola. «Che succede?»
Mi gratto dietro il collo. «Sembra una sorta di tamagotchi.»
Nell’angolo in alto a destra un timer inizia un conto alla rovescia di 30 secondi. Senza pensarci troppo, premo su nutrimi.
Lo schermo si spegne e dalla base giunge un clic. Gli altoparlanti chiamano il numero 86.
Passi pesanti che si avvicinano da destra.
Mi sposto di quel tanto che basta per notare che anche sul lato di 86 si è accesa una spia rossa, il cui ritmico lampeggiare illumina poco alla volta la sua figura sempre più massiccia.
Indietreggio.
A fatica intravedo 86 chinarsi sulle ginocchia e prendere qualcosa alla base del totem. Torna in piedi, fa per girarsi.
Si ferma.
86 piega il collo e mi fissa, la bocca deformata da quello che sembra un sorriso grottesco.

86 viene richiamato dal totem poco tempo dopo, permettendo a 7 di mangiare. Dopo un po’ — minuti? ore? chi può dirlo — da 7 si passa al sottoscritto, e così via per i successivi turni, secondo quello che pare un ordine prestabilito.
Quello che sembra casuale è invece l’intervallo tra un appello e il successivo. O almeno così credo. Avere consapevolezza del passare del tempo è impossibile qua dentro. Posso basarmi soltanto sul metabolismo del mio corpo, ma temo di non poterci fare affidamento ancora a lungo. Per il momento credo siano trascorsi un paio di giorni dal nostro ingresso e di certo parecchie ore dal mio ultimo pasto.
L’ormai familiare ronzio delle casse anticipa la nuova chiamata di 7. Lei però non sembra muoversi. Concentro l’udito nella sua direzione. Merda, sta dormendo!
La chiamo.
Nessuna reazione.
«7, cazzo, svegliati!»
Uno sbadiglio. «Che c’è?»
«Il totem! Sei stata chiamata!»
Il cervello di 7 ci mette un paio di secondi a elaborare l’informazione. La sento scendere dal materasso e subito inciampare. «Cazzo!» La poca luce emessa dallo schermo basta appena per intravedere il suo profilo raggiungere il totem carponi e premere sul touchscreen.
Dalle casse il solito rumore statico. Mi alzo in piedi e faccio per muovere un piede avan—
«86.»
Cosa? Non è possibile! «7, cosa cazzo hai schiacciato?»
«Nutrimi, che altro?»
«Non può essere, devi aver sbagliato qualcosa! O forse era scaduto il tempo.»
7 sbuffa. «Senti, punto uno: so distinguere un bottone da un altro. Punto due: mancava ancora un secondo allo scadere. Quindi incazzati quanto vuoi, ma io non c’entro nulla. Devono aver cambiato qualcosa quelli dei piani alti.»
Affondo le dita nella lenzuola e mi lascio andare a una serie di accidenti a denti stretti.
86 si avvicina al totem, prende il suo pasto e torna alla branda.
«Ehi, amico. Senti, non è che potremmo condividere il pranzo? O la cena, o quello che è?»
86 m’ignora.
«Non lo farà» dice 7. «Ricordi? Vietato condividere.»
Lascio andare le lenzuola e mollo un pugno al cuscino. Fanculo!

Quanti giorni sono trascorsi? Tre? Quattro? Sette? Se solo riuscissi a dormire potrei almeno dare pace ai crampi e alla sete, invece nulla. Assurdo, tutto questo buio e non riesco a prendere sonno. Dio, perché 7 non è stata ancora richiamata? Perché ho l’impressione che questo turno stia durando molto più dei precedenti?
È tutta colpa sua.
Sono certo che 7 abbia fatto qualche cazzata coi bottoni. Magari anche solo per errore, senza accorgersene.
nutrimi
addormentami
puniscimi

Eppure 86 è tornato alla branda con qualcosa in mano. Che non fosse cibo, ma altro?
nutrimi
addormentami
puniscimi

O forse il cibo lo ottieni sempre, a prescindere dalla scelta. Aspetta…
Piego le labbra in un sorriso. Ora ho capito! I pulsanti non riguardano l’orso e i suoi bisogni, ma influenzano ciò che accadrà a chi viene dopo nella successione!
addormentami
puniscimi

Uno dei due deve far saltare il turno, non c’è altra spiegazione.
Ronzio dalle casse. Di nuovo il turno di 7. Vedi di non fare cazzate questa volta.
Raggiunge il totem e col dito picchietta sullo schermo. Altro ronzio e finalmente è il mio numero a essere chiamato.
Raggiungo il totem il più veloce che posso. Non appena afferrata la scatola inizio a strapparne il cartone, ma nella foga il contenuto cade fuori. La bottiglietta d’acqua mi rimbalza sul piede nudo e rotola via. Fanculo…
Mi butto per terra, le mani che tastano alla rinfusa. Almeno l’incarto col cibo dev’essere qui vicino, ne sono certo. Urto qualcosa, rumore di carta d’alluminio che gratta sul pavimento. Trovato! Agguanto l’involucro e con le unghie rimuovo l’incarto quel tanto che basta per affondare i denti. Le papille gustative vengono investite da sapori che temevo dimenticati. La bocca si riempie di pane al sesamo croccante e succosa carne alla brace, della dolcezza della cipolla caramellata e dell’aspro del ketchup, della freschezza della lattuga e dell’amarognolo dei cetrioli. Un hamburger, è soltanto un cazzo di hamburger. Eppure sento le lacrime raccogliersi ai bordi degli occhi.
Non ho ancora finito di masticare che do un secondo morso.

Forse è soltanto la sete a parlare, ma l’acqua del gabinetto è meno schifosa del previsto. O forse lo è soltanto perché nel berla immagino di avere tra le mani un bicchiere di limonata fresca anziché un liquido sporco con molta probabilità di residui del mio piscio.
Dalle casse chiamano il mio numero.
L’orsetto mi saluta, mi chiede cosa fare. È giunto il momento di provare la mia teoria. Schiaccio su addormentami e aspetto di sentire cosa risponderà la voce artificiale.
Come previsto, è 7 a essere chiamata.
La donna mi raggiunge al centro della stanza. «Ma che succede?»
Meglio conservare il mio piccolo segreto per un po’. «Credo di doverti delle scuse. Avevi ragione. A quanto pare questo gioco non ha un vero or—»
Qualcosa mi sfiora il braccio, tenta di afferrarlo. Il mio corpo reagisce saltando all’indietro. Cado per terra.
7 urla. Passi veloci alla mia sinistra che si allontanano.
Vorrei farlo anch’io, ma braccia e gambe non reagiscono.
Poco distante, in direzione del totem, un respiro sordo e gutturale non sembra aver apprezzato il mio piccolo esperimento.

Per quanto mi sforzi, non riesco ancora a dormire. Ho caldo e l’odore acido del mio sudore non fa che tormentarmi le narici.
A quanto pare non sono però l’unico ad avere problemi.
Sul suo letto, 7 mugugna.
«Tutto a posto?»
«Sì, è solo che… Dio, è imbarazzante, ma oggi non sto molto bene di stomaco.»
La capisco. Lo sarebbe anche se fossimo tutti uomini, figuriamoci per lei.
«Ho una proposta. Che ne dici se mentre tu fai quello che devi fare noi ci copriamo le orecchie e urliamo a squarciagola?» Indirizzo la voce verso 86. «Sei d’accordo, chiacchierone?»
Come sempre, nessuna risposta.
«Lo prenderò per un sì.»
7 rimane a pensarci. «Sarebbe già qualcosa.»
Batto le mani, come a voler suggellare a distanza l’accordo appena preso. «Allora è deciso.» Copro le orecchie con i palmi e inizio a gridare.
Vado avanti fino a quando la voce di 7 non sovrasta la mia. Era ora. La gola cominciava a bruciare.
«Meglio?»
«Sì… Grazie. Davvero.» Il tono è gentile come sempre, eppure colgo una nota d’imbarazzo all’interno.
Dalla branda di 86 giunge un ritmico strusciare di lenzuola.

86 merita una lezione e so perfettamente come fare. Mi basta un turno.
Attendo il ronzio delle casse grattandomi il polso su cui è allacciato il braccialetto. Non so cosa darei per poterlo levare.
Le casse si attivano e lo schermo del totem s’illumina, mi chiama a sé.
nutrimi
addormentami
puniscimi

Sorrido e schiaccio sul terzo bottone. Fottiti, ami—
«7.»
Cosa? No, non è possibile! Cosa ho sbagliato?
Sento 7 scendere dal letto. Devo fermarla, devo…
Un refresh dello schermo sostituisce l’immagine dell’orsetto affamato con un’animazione che lo mostra con un dito davanti alla bocca. Una lettera alla volta, sul video viene caricata una scritta: non dire nulla o verrai eliminato. A rimarcare il concetto, l’orsetto estrae una pistola e me la punta.
7 raggiunge il totem e prende la sua scatola. Con la luce del video contro, non riesco a distinguerne la figura, ma di sicuro lei vede me.
«Tutto a posto?»
Annuisco e senza dire una parola torno al mio letto.

È da un po’ che 7 si agita tra le lenzuola. Si sforza di soffocare i lamenti, ma se c’è qualcosa che questo buio ha fatto rifiorire, sono tutti gli altri sensi. È come se la mia percezione dello spazio circostante si fosse ampliata oltre i confini del mio corpo. Passa attraverso il ritmico gonfiarsi dei polmoni dentro cassa toracica, il ticchettio delle zampe degli insetti sulle pareti, l’umido sfregare della lingua sul palato, il sapore salato dell’aria.
Dal letto di 7 un altro mugugno.
Vorrei chiederle come sta, ma ho paura che capisca cosa ho fatto.
Affondo la faccia nel cuscino e chiudo gli occhi. Il mal di testa sembra essere passato.

Non ho idea di quanto ho dormito. Di certo non abbastanza a giudicare dal buio che ancora riempie la stanza.
Dal letto di 7 non arriva nessun rumore. Forse anche lei dorme.
Dalle casse un nuovo ronzio. È il suo turno.
La chiamo, ma a rispondermi è soltanto l’eco della mia voce.
La chiamo di nuovo. Nulla.
Potrei andare io a schiacciare per lei, ma non ho idea di cosa questo comporterebbe. No, meglio stare al mio posto e vedere cosa succede.
Il conto alla rovescia scade con un lungo beep. Mi chiedo cosa accadrà.
Di nuovo il ronzio, ma ad essere chiamato non è il mio numero, bensì quello di 86. A quanto pare il giro ora è al contrario.
L’omone si alza dal suo letto, va a cliccare sullo schermo e subito torna al suo posto.
L’altoparlante chiama quindi me e io faccio la stessa cosa: mi alzo, prendo il pacchetto, torno indietro. Mi spiace per 7, ma almeno non ho dovuto saltare il pasto.

Dal letto di 7 ancora silenzio. Nessuna molla cigolante, nessuno struscìo di lenzuola, nessun colpo di tosse o sibilo del respiro. No, non è normale.
Striscio giù dal letto e seguo il nastro fosforescente fino al letto di 7.
La chiamo a bassa voce. Non risponde.
Con la mano risalgo la gamba del letto, seguo il bordo del materasso, faccio scivolare le dita sotto le lenzuola.
Non trovo nulla. A meno che… Dio, quanto cazzo ho dormito?
Sposto lo sguardo in direzione del letto di 86. Corro nella sua direzione. «Dove l’hai messa?»
Inizio a mollare pugni a caso, mi sbilancio, perdo l’equilibrio. Qualcosa mi afferra per una spalla. Tento di divincolarmi, di colpirlo, ma una seconda tenaglia si stringe attorno al braccio, lo piega all’indietro.
«Cosa le hai fatto?» La testa mi gira, il respiro si blocca nei polmoni. «Cosa… fatto?»
Con un ultimo barlume di coscienza, capisco di essere stato punito pure io.

È la luce a svegliarmi. Brucia come un tizzone ardente, anche attraverso le palpebre chiuse.
Copro il volto con un braccio e mi sforzo di aprire un occhio. Ai piedi del letto una figura indefinita mi osserva.
«Ci vorrà un po’ prima che ti abitui.» La voce è quella del tedesco.
Tento di sollevare la schiena. Lo scienziato mi aiuta a appoggiarmi alla testata del letto.
«Pensavo doveste monitorarci.» Ho la voce impastata. «E anche che la violenza non fosse consentita.»
«Mi pare sia stato tu ad aggredire per primo.»
«L’ho fatto per 7. Quel tizio… deve averle fatto del male.» Tossisco. «Come sta?»
Il tedesco mi appoggia una mano sulla gamba. «Ancora non hai capito, vero? Eri tu la cavia. Soltanto tu.»
Lo scienziato lascia la presa e si avvia verso l’uscita.
Mi passo la lingua sulle labbra. «Quanto mancava alla fine dell’esperimento?»
Il tedesco si blocca. «Parecchio.»
«Quindi è stato un fallimento.»
Un sospiro. «L’esatto contrario.»
Non riesco ancora a metterlo a fuoco, ma dal tono della voce sono certo stia sorridendo.
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Re: Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#4 » sabato 10 luglio 2021, 22:50

Alexane e il mistero della tomba senza nome.

Racconto confuso. Per esempio non ho capito l'ambientazione. In che epoca siamo, e dove? Posso anche accettare il fatto che questo sia voluto, per farci vivere in maniera più realistico lo stato d'animo della ragazza, ma almeno il secolo dovrei intuirlo.
Anche la confusione della ragazza mi convince poco. È troppo superficiale e da troppe cose per scontate. Per esempio la cecità, quella dovrebbe passare al lettore con paura e non tramite le informazioni che dai. A tal proposito vorrei farti notare che spesso passi informazioni in maniera un po' maldestra.
Una tegola sul tetto si stacca e s’infrange tre piani più sotto con un suono simile a un salvadanaio quando si rompe. -
Mi descrivi un temporale con un forte vento, la tegola che si infrange non dovrebbe rimandare il rumore. È una fesseria ma fa vacillare il contesto che stai creando.

Poi, onestamente, non sopporto i racconti senza “luce”, senza un attimo di felicità. Li trovo poco coinvolgenti. Non ho mai una speranza, che magari potresti infrangere ma che durante la lettura mi spinge a leggere. Per far ridere devi anche far piangere e viceversa.
In questo racconto c'è solo violenza gratuita, con i cattivi piatti e privi di motivazioni, che andrebbero bene per le fiabe dell'800 ma non oggi.
Lo stile è buono e non fa pesare troppo la scelta della prima persona presente.
Nel complesso è un racconto con tante ombre, che ho l'impressione che siano dovute a una scrittura alla cieca (permettimi la battuta). Sospetto che l'autore abbia iniziato a scrivere senza un vero e proprio obbiettivo e, una volta raggiunto il finale, non sia riuscito ad adattare le parti precedenti.

Il gioco del buio

Ciao, io il finale non l'ho colto. O meglio, temo non sia abbastanza incisivo. Arrivo alla fine e sono insoddisfatto. Non credo sia un problema di spazio, ma di spazio mal gestito. La prima parte è completamente inutile, potevi tagliarla (inserendo dei dialoghi con gli altri dell'esperimento o dei monologhi dati dall'isolamento) e dedicarti a sviluppare la storia. Tra l'altro avresti agganciato di più il lettore partendo direttamente al buio, mentre così hai una costruzione troppo lineare e piatta.
Ci sono un paio di scelte stilistiche che non mi piacciono, come per esempio la doppia negazione “ Non che l’annuncio sul giornale non lo facesse già intuire”. Piccolo consiglio, se inserisci un testo scritto, usa il maiuscolo “team di ricerca scientifica cerca cavie umane per esperimento psicologico della durata di due settimane legato allo studio dello stress da isolamento estremo.”
Nel complesso è una buona lettura, che però non posso considerare un “racconto” visto che, a mio avviso, manca parte dello sviluppo e un finale degno del resto del testo.

Come avrete intuito dai commenti, nessuno dei due racconti mi ha soddisfatto ma uno passa comunque in finale.
Passa il turno: Alexane e il mistero della tomba senza nome perché, nonostante gli errori, è un racconto coerente e finito.

Alla prossima!

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