Neve di calceOrcolat. Letteralmente orcaccio in lingua friulana. Con questo termine viene indicato il sisma che alle ore 21:00:12 del 6 maggio 1976 colpì il Friuli e causò 990 morti, 3000 feriti e più di 100mila sfollati, interessando l'area di 137 comuni di cui 45 completamente rasi al suolo. Con i suoi 6.5 gradi della scala Richter, l'Orcolat fu il quinto peggior evento sismico registrato in Italia nel XX secolo.
[Conosco l’Orcolat e so che è associato al sisma del 76 per antonomasia, ma in realtà è una creatura del folklore friulano che vive sotto le alpi della Carnia e provoca i terremoti quando si agita. A partire dal titolo la mia curiosità principale è capire se il tuo racconto avrà un retrogusto fantastico oppure no. Comunque vale anche per te il disclaimer fatto per l’altro racconto. Quando commento non indoro nessuna pillola e vado dritto al punto con l’intenzione di darti il feedback che, se saprai digerirlo, ti potrà aiutare di più a migliorare. Quindi magari sarò duro, ma sempre senza la minima cattiveria, anzi, faccio tutto per aiutarti il più possibile. Resta sempre inteso che non sei obbligato/a a concordare con quello che ti dico, prendi le mie opinioni e fanne ciò che ritieni più opportuno, compreso rifiutarle in toto se credi. Ultima nota: le annotazioni sul brano le faccio SEMPRE in prima lettura, perché sono i pareri che ho imparato essere più utili agli autori che vogliono davvero migliorare. Leggere tutto il brano e poi dare pareri solo a posteriori non aiuta tanto quanto sapere cosa passa per la testa di chi legge mentre legge. I lettori veri non ti danno la chance di leggere il tuo brano N volte per capire le cose, lo leggono una volta e quello è tutto ciò che avrai. Trovi i miei commenti lungo il brano tutti tra parentesi quadra, quindi con un banale “ctrl/cmd+f” sulla aperta quadra trovi tutto. Lo dico anche a te: se trovi errori grammaticali, scusami, Siri spesso pensa di sapere meglio di me cosa voglio scrivere.]
Carnia, maggio 1976.
La polvere copriva tutto: le strade, le bare raccolte sul piazzale di fronte alla chiesa crollata, gli aghi dei pini e dei larici. Pareva scendere dal cielo, come una neve fatta di calce, sottile e inesorabile. Franco starnutì, indietreggiò d'un passo e poggiò la mano sul brandello di muro. L’interno della casa era ricoperto di macerie, nessuna parete era ancora in piedi. Si sedette su un grosso ciottolo e si concesse un momento di riposo. [Al di là del fatto che è tutto tell, quello che manca a questo intro è qualche piccolo dettaglio che cali tutta la situazione che hai descritto in un contesto reale. Una chiesa resta una chiesa finché non “inquadri” la statua del santo patrono crollata dal tetto e schiantata a terra; le bare sono solo bare se non focalizzi la mia attenzione sulle impronte di mani strisciate e le righe delle lacrime che solcano la cortina di polvere che le ricopre, e via dicendo. Le macerie all’interno della casa sono solo macerie finché non mi mostri un orsacchiotto trafitto da una barra d’armatura del cemento crollato, una foto con il vetro della cornice infranto che “decapita” metaforicamente il bambino ritratto nella fotografia… e via dicendo. Capisci quanto puoi giocare con i dettagli, come puoi far calare la scena sul lettore anche con dei non detti, con delle metafore anche visive per partire subito con tutto il dramma di una situazione del genere? Invece cominci con “la polvere, le bare, la chiesa, le macerie”…]
I muri di tutte le case di quel paesino di montagna erano fatti di pietre colte dal letto del fiume Tagliamento [brutto brutto questo spieghino], e poi attaccate tra loro con la sputacchia [meglio questo, ma di’ solo questo, come pensiero indiretto libero del protagonista: “cosa si aspettavano tutti? Pietre di fiume tenute insieme con lo sputo” è comunque bruttino ma almeno ci cali nella psiche del personaggio e ci fai vedere davvero la scena con i suoi occhi]. I tetti erano paglia su incroci di assi di legno, spesso e volentieri mangiate dai tarli. Non era una sorpresa se il terremoto aveva raso al suolo tutto il paese. Che gente strana. Chi mai poteva vivere isolato e in quelle condizioni di miseria? Solo vecchi testardi e duri come le pietre con cui avevano costruito le loro inutili casette. [Qui tutto troppo verboso e tutto sempre tell e pochi dettagli concreti che ci calerebbero nella scena]
Franco sospirò e si rimboccò le maniche. Raccolse un pesante sasso e lo buttò da parte, batté le mani guantate e produsse un fiotto di polvere che lo investì in faccia. Tossì e sputò calcina impastata di catarro. Stava certamente scavando nel posto sbagliato. [Solo qui abbiamo un primo indizio del fatto che il protagonista potrebbe essere un soccorritore, o uno della protezione civile o consimili, dal narrato non emerge quasi nulla del suo filtro psicologico, quindi arriviamo qui senza sapere niente di lui, questo è abbastanza grave, ricorda che i lettori empatizzano con le storie che racconti solo attraverso i personaggi. Non rendere bene i personaggi è un errore che manda all’aria le tue idee come quasi nient’altro. Quindi calaci dentro il protagonista, facci vedere il mondo attraverso i suoi occhi e filtracelo attraverso i suoi pensieri e i dettagli che nota, vedrai che funzionerà tutto subito molto molto meglio.] No, doveva cercare in corrispondenza della camera da letto. Cercò attorno, ma a parte cumuli di pietre non riuscì a trovare nulla che gli indicasse la presenza di un letto o di un armadio. [detta così sembra che i cumuli di pietre possano rivelare la presenza di un letto o un armadio, è così? Non credo di saperlo]
Una goccia fredda gli bagnò il labbro. Alzò lo sguardo e fissò le nuvole visibili oltre le travi scheletriche del tetto crollato. Sbuffò. Ci mancava solo la pioggia [vedi, entri ed esci dal personaggio senza soluzione di continuità e questo disorienta… il mio consiglio è di entrare e stare dentro]. Raggiunse il centro della casa [e qui esci di nuovo, dire “il centro della casa” crea immediatamente in me l’immagine vista dall’alto, che è l’unico modo per capire dove sia il intro della casa, quando sei a livello del terreno vedi stanze, corridoi, altre stanze, disimpegni, non “il centro della casa”], dove un grosso cumulo di assi spezzate e pietre creava una piccola montagnola di resti. Cavi elettrici scoperti serpeggiavano tra i massi come vene nere nella pelle grinzosa di un vecchio èQuesto andrebbe detto immediatamente dopo la considerazione sulla pioggia per far percepire l’ulteriore pericolo. Non sei lontano da quel momento ma meglio starci proprio aderenti se vuoi che le due cose siano messe in correlazione]. Franco salì su un cumulo di legna e paglia, e scavò usando la zappa per arare che aveva trovato in strada [che è la prima volta che vediamo, non va bene, se la usa faccela vedere prima, abbiamo seguito Franco da fuori, perché non abbiamo visto la zappa?]. Un colpo sordo gli fece intendere che c’era un mobile di legno, sotto le macerie. Sorrise e si diede da fare per eliminare le pietre. Una cosa positiva, di quel metodo di costruzione, era che i sassi, cadendo, erano rimasti intatti, tanto che per rimuoverli spesso bastava farli rotolare via senza far troppa fatica.
Si fermò ad ascoltare. Le voci di altre persone venivano dai ruderi tutt’intorno. C’erano gli alpini, i vigili del fuoco e gli altri volontari provenienti da Perugia. Per il momento nessuno aveva avuto l’idea di ispezionare quella casa. Doveva fare in fretta, approfittare di essere solo poiché presto si sarebbero accorti di lui e avrebbero iniziato a invadere il suo spazio come mosche fastidiose [questo è un bel pensiero, perché inserisce nella narrazione un elemento di forte discontinuità che crea curiosità, però se questo giochino l’avessi fatto all’inizio, la curiosità l’avresti creata da subito, e sarebbe stato ancora meglio]. Aiutandosi con la zappa, tolse l’ultimo ciottolo e scoprì il mobile. Era un armadio di legno molto resistente tanto che, sebbene lungo i lati serpeggiassero alcune crepe, era ancora tutto d’un pezzo. Le ante erano immobilizzate da cumuli di macerie che Franco non aveva la voglia di ripulire: per fare quello che voleva bastava scavare un buco di lato. Diede un paio di colpi con la zappa in corrispondenza di una spaccatura e il legno cedette a liberare un ampio spazio interno. Mise dentro il braccio ed estrasse un paio di panni. Li buttò da parte e cercò ancora. Le dita toccarono un cassetto. Sorrise. Spinse il braccio all’interno, fino a penetrare il mobile con tutta la spalla. [attenzione che se lui sente il vociare dalle case adiacenti, il rumore che fa lui sfondando con la zappa un mobile di legno massiccio si sentirebbe allo stesso modo di fuori, e il battere è un rumore che attira immediatamente l’attenzione dei soccorritori, perché è il tipico rumore che fanno le persone bloccate sotto le macerie per farsi sentire]
Fu in quel momento che si accorse del piede che spuntava tra le travi spezzate. Ritrasse il braccio dal mobile e si avvicinò. Scavò e fece affidamento alle [sulle?] sue forze per togliere l’asse di legno dalla montagnola di macerie. Portò così alla luce una gamba, poi un cadavere insanguinato e infine un altro corpo esanime.
Il letto era sprofondato in mezzo alle pietre [non riesco a visualizzare la scena, un letto che sprofonda tra le pietre? Se è un modo poetico per dire che le pietre hanno sotterrato il letto, non mi garba molto], i due vecchi giacevano raggomitolati uno accanto all’altro, mano nella mano. Franco si avvicinò, una vampata di odore di carne in decomposizione [da quanto tempo erano lì? Non ci avevi dato nessun elemento interno alla narrazione per capire il momento della narrazione stessa] gli fece salire un conato di vomito. I due anziani erano ancora a letto, gli occhi chiusi e i visi ridotti a grumi di sangue rappreso. In alcuni punti la pelle impolverata era bucata a scoprire l’osso. Il naso dell’uomo era rientrato nel teschio e la mascella della donna si era staccata, strappata dal peso dei ciottoli. Franco fissò a lungo quella scena, il cuore gli batteva forte. Impresse nella memoria le tonalità del rosso tendenti al nero e i contorni distorti di quei visi. Da quando era arrivato, due giorni prima [ecco, ce lo dici ora ma con un tell/spieghino un po’ brutto], quelli erano i primi cadaveri che vedeva. Poveracci, erano andati a dormire ignari di ciò che li aspettava. Scosse la testa: doveva tenere i nervi saldi. Quella polvere che imbiancava tutto doveva anche foderargli il cuore con una camicia di malta, oppure non avrebbe resistito un giorno in più in mezzo a tutta quella morte [questi pensieri sono un’intromissione forte del narratore, più forte di quelle fatte fin qui, e si sente… conviene tradurre questo concetto in un pensiero indiretto libero coerente con la caratterizzazione e usarlo così. Occhio che tradurlo non vuol dire semplicemente trasformare la frase, ma renderla un pensiero coerente e in linea con la caratterizzazione, che vuole anche dire cambiare la frase]. Fissò i cadaveri e si sforzò di vedere solo due vecchi testardi, di quelli che non avevano potuto rinunciare alla loro casa fatta di sassi, in quel paese in mezzo al nulla. Sospirò e fece un passo indietro. Senza indugiare oltre, rimise il braccio nel buco dell’armadio. Cercò con le dita all’interno del cassetto e riuscì a estrarre qualche gioiello d’oro, tra cui una catenella da cui penzolava un medaglione con una foto in bianco e nero che mostrava un viso di donna con zigomi pronunciati. Franco la osservò con un certo interesse, poi la staccò e la gettò via. Cercò ancora nell’armadio, fino a trovare una borsetta di cuoio con un portafogli. C’erano solo ottantamila lire. [che negli anni ’70 non erano affatto poche, è come trovare un portafogli con dentro 400€ oggi… se ti interessa:
https://www.infodata.ilsole24ore.com/20 ... 1860-2015/] Fece spallucce e mise tutto in tasca. Vecchi poveri in canna, la sua solita scalogna. Comunque, anche quel poco gli avrebbe permesso di tirare avanti per un po’.
Mise le mani a coppa attorno alla bocca e chiamò aiuto.
Sulla superficie del vino galleggiavano delle grosse gocce untuose. Franco portò il bicchiere alla bocca, prese un sorso e strofinò la lingua sul palato. Forte, minerale, un vino che andava subito alla testa. Alzò gli occhi e contemplò lo squallido bar ricavato tra le mura di lamiera del prefabbricato. Il lungo bancone era costituito da un’unica tavola di legno sostenuta da quattro gambe di ferro. Soffiò sulla gavetta colma di brodo proveniente dalle razioni alimentari dell’esercito. Vino e minestra, consumati sotto un tetto di lamiera sferzato da una pioggia gelata. Squallore totale.
Un paio di persone entrarono scostando la tenda. Parlavano nella lingua del posto, un’accozzaglia di suoni dalle vocali dure e strascicate. Franco fissò la minestra e il filo di vapore che si levava serpeggiando dalla gavetta, mise la mano in tasca e accarezzò i gioielli e i soldi rubati.
«Ehi.» Franco si girò di scatto, un alpino era in piedi accanto a lui. «Posso sedermi in parte a te?» Sorrideva. Non aveva più di una quarantina d’anni, la bocca dalle labbra tornite, bei baffi folti, occhi azzurri. Franco sentì una fitta allo stomaco. Chiuse le dita nella tasca a proteggere le catenelle d’oro e annuì.
Mentre l’uomo si accomodava sulla panca, Franco si morse un labbro e cercò di concentrarsi sulla sua gavetta fumante. L’alpino non smetteva di fissarlo. «Sei stato tu a trovare i Palombit, vero?»
Franco deglutì. «I due anziani? Sì.»
L’alpino piegò la testa di lato e sorrise. A quel gesto un po’ effeminato, Franco capì che l’altro era come lui [in che senso? Non si capisce cosa intendi]. Gli tese la mano libera. «Sono Franco Baccone, un volontario di Perugia.»
L’alpino l’afferrò con forza e la rovesciò a palmo in su. «Mario Mion. Piacere di conoscerti. E grazie» gli lasciò la mano «per essere venuto fin qui da così lontano.»
«Spero di essere utile.»
«Lo sei. L’orco ha fatto molti danni e c’è lavoro per tutti.»
«L’orco?»
Mario si tolse il berretto piumato a rivelare una folta chioma di capelli biondi. Lo stomaco di Franco mandò una fitta.
«Noi friulani» Mario sorrise «crediamo che sotto le montagne ci sia un enorme orco incatenato nelle grotte. Ogni cento anni si risveglia e si agita, e così fa tremare la terra.» Diventò di colpo serio. «Causa lui i terremoti.» I suoi occhi azzurri si inumidirono e le sue labbra si mossero in un leggero tremolio.
Franco soffocò un gemito. Anche lui ne sapeva qualcosa, di orchi. «Non sono storie per bambini?»
Mario mosse di nuovo la testa in modo femmineo [ok, forse ora si capisce, ma forse stai affrontando la questione con un po’ poco tatto e affidandoti a qualche stereotipo di troppo. ]. «Certo, certo.» Lo guardò con un’espressione severa. «’Scolta, che mestiere fai?»
Si morse un labbro. «Il pittore.»
«Cioè, l’imbianchino? Quello che pittura i muri?»
«No.» abbassò lo sguardo sul bicchiere di vino. «Sono un artista, dipingo quadri.»
Mario aprì la bocca per dire qualcosa, ma venne interrotto da un alpino che si affacciò nella baracca. Il suo viso paonazzo per la corsa [che ne sa Franco che il tizio ha corso? non te lo sto segnalando sempre, solo i casi più palesi, ma continui a fare dentro e fuori dal pdf di Franco senza nessuna utilità] era bagnato dalla pioggia. «Mion, al é colât cumò un clap intor di Meni. Niciti!1» [!!!1!1111!!!Uno! XD ti è scappato un 1, e la battuta occhio che per uno che non mastica nemmeno un minimo di dialetto locale potrebbe risultare indoprensibile, accompagnala magari con qualche gesto che faccia capire, o dai una connotazione al tono di voce, o scegli delle parole che siano più assonanti con l’italiano, insomma, rendi comprensibile il passaggio o almeno il senso generale della scena a più lettori possibile]
Mario si alzò e corse verso suo compagno, entrambi sparirono nella pioggia. Franco rimase a guardare la tenda di plastica dell’ingresso oscillare avanti e indietro. Il cuore gli batteva forte.
Aveva dovuto pagare una piccola mazzetta per farsi dare un container con letto singolo. Le baracche riservate ai volontari di solito avevano letti a castello, come nelle caserme. Più che una baracca, gli avevano dato uno sgabuzzino con un unico materasso poggiato a terra e lo spazio per riuscire a malapena a stare in piedi. Ma andava bene così. Seduto sul letto a gambe raccolte, Franco disegnava su un blocchetto di fogli appoggiato sulle ginocchia. I colori a pastello erano riposti a casaccio tra i suoi piedi, mentre la matita rossa e quella blu erano infilate tra le dita della mano chiusa.
Gli occhi di Mario.
Lo stomaco di Franco fece ribollire il brodo mescolato col vino. La testa gli doleva, ma capitava sempre quando la pioggia gli bagnava i capelli.
Quegli occhi azzurri, dal taglio perfetto, la zazzera bionda. [fai attenzione all’instalove, non è generalmente apprezzato, e ha un feroce esercito di detrattori, usalo con saggezza]
Premette la matita talmente forte che produsse un lungo solco sul foglio ricoperto di tratti colorati. Sospirò e poggiò di lato i pastelli, si stese sul materasso e fissò il soffitto di lamiera. Chiuse gli occhi.
Il viso di Mario si avvicinava al suo, i baffi dorati gli accarezzavano la pelle. Le loro labbra si sfioravano, poi lui si ritraeva di scatto e i suoi occhi si facevano furbi, cattivi. Con le sue mani forti, estraeva una lunga corda dallo zaino da alpino, e lo legava stretto. Franco cercava di liberarsi, ma non poteva, i legacci erano troppo resistenti. Dopo tutto, erano nodi fatti da un esperto di montagna. Mario lo frustava con l’estremità libera della corda e Franco, a ogni colpo, provava una fitta di piacere che gli correva dallo stomaco fino in mezzo alle gambe. L’altro rideva di lui, gli sputava addosso e lo picchiava. Franco fissava quegli occhi di ghiaccio, implorando pietà. Ma Mario non lo ascoltava, toltosi i vestiti si masturbava e continuava a frustarlo. Franco si prostrava ai suoi piedi e lo pregava di smettere, ma in cuor suo tutto ciò invece gli piaceva, gli piaceva da morire. [un po’ out of nowhere questa scena, non solo arriva dal nulla, ma è anche molto spinta ed esagerata rispetto agli avvenimenti narrati e rispetto al tenore generale del brano letto fin qui… spero abbia un senso e una funzione nel brano e non sia semplicemente un elemento messo così per “alzare la temperatura”, altrimenti è proprio un po’ bruttina]
Il fiotto caldo gli riempì la mano. Franco riprese fiato e si mise seduto a letto [attenzione, prova a sdraiarti per terra ed alzarti senza usare una mano, non è facile come lo fai sembrare… do per scontato che non usi una mano perché hai appena detto che è piena del suo “fiotto caldo”]. L’aveva fatto ancora, aveva fantasticato in quel modo sporco, che sapeva essere sbagliato. Chiuse le braccia a proteggere il petto [sporcandosi di sperma la maglia…], provando infinita vergogna. Una lacrima scese lungo la guancia e bagnò il cuscino vicino al suo orecchio. Ricordi sepolti scavarono nella sua mente come vermi sotto la terra ghiacciata [come scavano i vermi sotto la terra ghiacciata? è una metafora di belle parole ma che non trasmette il senso di quello che è poi nella realtà la scena]. Quando era giovane e suo padre metteva via il frustino, lo apostrofava dicendo che solo le donnette frignavano e che invece un vero uomo accettava le botte con onore. Franco, però, non poteva farne a meno e, anzi, lo faceva apposta, perchè [perché] farlo arrabbiare purtroppo gli piaceva. Da impazzire. [Non so, tutto questo passaggio sembra davvero pretestuoso. Non dico che non avrà un senso a brano finito, ma è anche scritto in modo pretestuoso, riducendo il tutto a un cliché già visto in N salse e che non ha un briciolo della profondità che avrebbe potuto avere]
Qualcuno bussò alla porta di plastica. Franco aprì gli occhi e accese la lampadina. «Chi è?»
«Mario Mion, posso entrare?»
Farfalle nello stomaco. Franco si diede una veloce occhiata allo specchio, si ravviò con la mano un ciuffo grigio sulla testa e aprì [se siamo conseguenti alla scena di prima, hai perso TUTTO il potenziale drammatico della scena perché ora mi sto immaginando Tutti Pazzi per Mary e Franco col ciuffo sparato in alto visto che si è ravviato i capelli con la mano e non hai specificato quale mano, fai attenzione ai dettagli, quelli rilevanti vanno inseriti per evitare che i lettori facciano sti collegamenti che poi mandano all’aria il momento del brano per come volevi che fosse]. Mario era di fronte a lui col cappello pennuto in mano. Il viso era illuminato dalla luce del sole, che stava tramontando tingendo di rosso le nuvole cariche di pioggia. «Scusa, volevo parlarti un momento.»
Franco si fece da parte per farlo entrare. L’altro fece qualche passo verso il letto e raccolse un foglio. I suoi occhi azzurri diventarono due fessure. «Cos’è ‘sta roba?» Fece oscillare il pezzo di carta tra pollice e indice.
Franco fissò il disegno che raffigurava un viso deforme, chiazzato di segni rossi e viola, con la bocca dalle labbra nere spalancata in un grido, il naso appiattito e incassato dentro la faccia. «La mia arte.»
Mario aggrottò la fronte e prese un altro foglio. Il disegno mostrava una testa ricoperta di scarabocchi rosa, gli occhi disposti in modo asimmetrico e la bocca aperta a scoprire file di denti irregolari disegnati con un tratto azzurro tremolante. «Fa... impressione!»
Franco allungò la mano e prese il blocco di fogli. «Questo è quello che provo stando qui. L’orrore del terremoto e delle vittime sotto i sassi.»
Mario inclinò la testa di lato. «Allora, è per questo che sei venuto qui, per cercare ispirazione per la tua arte. Per disegnare i cadaveri!»
Franco alzò le sopracciglia. «No, no, certo che no.»
Mario lo interruppe. «O per rubare.»
Franco ammutolì, il cuore gli saltò in testa. «Perché hai detto questo?»
«Ho visto una catenella d’oro uscirti dalla tasca, quando eravamo al ristorante [no, non ha reagito in nessun modo, nemmeno mezzo grammo di sospetto, magari non compreso da Franco o una reazione strana, niente… sei al limite della scorrettezza]. Poi, sono andato dai tuoi amici perugini e mi sono fatto raccontare un po’ di te. Diciamo che non godi di una buona reputazione.» [non gode di una buona reputazione e lo mandano in giro da solo a cercar case, non sembra molto coerente]
Franco strinse i denti. «Calunnie.»
«Ah sì? E se cercassi qui, nella tua baracca [doppio spazio] privata, siamo sicuri che non troverei niente?»
Franco prese un respiro profondo. Chiuse gli occhi, e si lanciò. I baffi ispidi gli pungevano il labbro, ma lui premette forte e gli circondò il collo con le braccia. Per un secondo Mario non reagì, ricambiando il bacio, poi si ritrasse di scatto e lo spinse da parte. «Ma guarda.»
Entrambi fissarono il pavimento. Franco si portò una mano alla nuca. «Scusa.»
«No, no. Mi sa che di me hai capito tutto. Come io avevo capito tutto di te.» Fece un respiro profondo, tese due dita e gli sollevò il mento. Franco socchiuse le labbra per ricevere un altro bacio, che però non arrivò. Mario si allontanò da lui e si sedette sul letto, il berretto da alpino abbandonato ai suoi piedi. «Ma che roba. E io che ero venuto per vedere se eri un ladro, e mi ritrovo a baciarti.»
Franco si sedette accanto a lui lo fissò negli occhi azzurri. «Andiamo via da qui, io e te. Vieni con me a Perugia.»
All’udire la sua risata, Franco strinse le spalle e inspirò a fatica.
Mario gli prese una spalla e sorrise. «Gli anni Sessanta sono finiti, adesso dobbiamo tornare alla realtà.» La mano strinse la spalla così forte che Franco gemette per il dolore. «Allora, pittore, perché sei venuto qui? Dimmi la verità.»
Lui non si ritrasse, raccolse tutto il dolore che arrivava dalla spalla. Il suo stomaco tremò per l’eccitazione, qualcosa si risvegliò in mezzo alle sue gambe. «Volevo provare a disegnare la morte, e trovare un posto che somiglia a quello che ho dentro.»
Mario smise di stringere e incrociò le braccia. «Anche poeta?»
«No, dico la verità. Non hai idea di quello che ho passato. L'arte mi aiuta ad andare avanti.»
«E cosa mi dici dei saccheggi?»
«Vivere solo di arte non è facile.» Sospirò. «Sai, ho pensato che di casa in casa, magari, se trovavo qualcosina…»[e ora confessa così? fino a un secondo fa negava brutalmente, un cambio repentino]
«Ho capito. Quanta roba hai rubato?»
Franco desiderò con tutto sé stesso di essere picchiato. Uno schiaffo in faccia sarebbe andato benissimo. Gli occhi di Mario erano duri come quelli di suo padre, era pronto a farsi punire per essere stato cattivo. «Tanta. Sono un ladro.» Ansimò. «Puniscimi, picchiami.»
Mario alzò le sopracciglia e scoppiò a ridere. «Santa Madonna, sei messo proprio male!»
Franco trattenne il respiro, appoggiò il mento alle ginocchia e si mise a piangere. Voleva dire qualcosa, ma le parole non volevano uscire dalla gola serrata. Si vergognava, sapeva di essere sbagliato.
Mario si alzò. «Senti, ne ho viste troppe in questi giorni per avere voglia di denunciarti. Mi fai solo pena.»
«Ti prego, non lasciarmi qui da solo.»
Mario sbuffò. Alzò la mano per aprire la porta, poi la lasciò cadere lungo il fianco. «Ma guarda te, non riesco a essere obiettivo perché, lo ammetto, un poco mi piaci. Però guarda che non la passi liscia.» Poggiò le sue manone sulle sue spalle e gli diede una forte scrollata. «’Scolta, sei venuto fin qui per aiutare con i soccorsi. Allora datti da fare! Quello che hai rubato portalo al prete e di' che l'hai trovato mentre scavavi, così non ti faranno niente.» Abbassò lo sguardo. «E se vuoi disegnare quelle robe...» sospirò «bon, fai quello che vuoi.»
Franco alzò gli occhi umidi e fissò il viso angelico dell'alpino. «Vorrei tanto... se possibile, proviamo un po’ a volerci bene.»
«Io insieme a un ladro? No, mai!» Mario strinse le labbra. «Se vuoi andare d’accordo con me, dovrai darti parecchio da fare.»
[Tutta questa scena è molto poco credibile, le reazioni dei personaggi non sono motivate né esplicitamente né implicitamente. Leggendo avevo sempre l’impressione che facessero e dicessero quello che a te serviva che facessero e dicessero, non che stessero agendo come persone vere. Le linee di dialogo estrapolate dal contesto non sono male.]
Franco camminava tra le pareti crollate di casa Palombit. I soccorritori avevano raccolto i corpi martoriati e lasciato il resto com'era. Con la punta degli scarponi, che finirono per coprirsi di fanghiglia, Franco ripulì una porzione di pavimento per portare alla luce la vecchia foto che il giorno prima aveva gettato via. A parte un paio di righe bianche, era ancora in buono stato, la pioggia l'aveva stropicciata, ma la carta era ancora integra. Prese dalla tasca il medaglione e sistemò la foto al suo interno, così, come l'aveva trovata. La donna dagli zigomi alti lo guardò con gli occhi incorniciati da reticoli di rughe. Franco carezzò la foto col pollice, conscio di meritare quello sguardo glaciale. Dopo qualche passo trovò anche il pesante portafogli di cuoio da cui aveva preso le ottantamila lire, lo ripulì e ci sistemò dentro le banconote.
Camminando per il paese verso la chiesa, Franco assaporò l’aria fresca del mattino, e si rimproverò per non aver mai prestato attenzione ai contorni dipinti d'oro delle montagne tutt'attorno. Si promise di considerarle per i suoi prossimi lavori: forse era arrivato il momento di ritrarre anche qualcosa di bello. [se adesso Franco ha la propria illuminazione e si redime è davvero un po’ troppo esagerato come arco di trasformazione… non dico che non possa succedere, anche se è MOLTO difficile, ma non hai focalizzato l’attenzione su nessun passaggio utile a giustificare il cambiamento di Franco… il dialogo nello sgabuzzino/stanza non è nemmeno lontanamente abbastanza. Capiamoci, questo ha subito abusi dal padre per chissà quanto tempo, gli piaceva, faceva incazzare il padre apposta per farsi menare, si masturba facendo pensieri analoghi, quando trova un tizio che gli piace il suo primo istinto è farsi malmenare, poi il tizio gli dice, parafraso, “devi essere bravo se vuoi stare con me” e tutto quanto visto prima svanisce e lui diventa bravo? Detta così capisci che è un po’ troppo?]
Arrivò a messa già iniziata, si unì alla folla in piedi attorno al palco e raddrizzò la sua postura.
Le otto bare erano sistemate in riga davanti al podio montato accanto alle macerie della chiesetta. Una bara era avvolta da una bandiera con un [l’apostrofo] aquila su sfondo azzurro: doveva trattarsi del feretro dell’alpino morto il giorno prima, Domenico. I soldati con il cappello decorato con la penna nera erano in piedi sul palco, accanto al parroco.
In prima fila, Mario gli lanciò diverse occhiate, cui lui rispose con un timido sorriso.
Appena il coro degli alpini iniziò a cantare, tutte le persone raccolte al funerale intonarono la stessa canzone.
Santa Maria, Signora della neve,
copri col bianco, soffice mantello
il nostro amico, nostro fratello.
La vista di Franco si offuscò. Si accorse che anche Mario era commosso, le sue guance imbiancate dalla polvere si sciolsero al passaggio delle lacrime.
Ma ti preghiamo, ma ti preghiamo
Franco si asciugò il viso e si unì a sua volta al coro.
Su nel paradiso, su nel paradiso,
Lascialo andare, per le tue montagne.
Da tutta la vita il suo cuore era a pezzi, l'ira di un orco l'aveva ridotto a un cumulo di macerie insanguinate. [Ecco, siamo arrivati al momento della redenzione, che per me non ci sta. E poi da come l’hai descritto non mi sembrava poi così terribile il padre… nel senso, Franco ammette che era lui che lo faceva incazzare apposta per farsi menare, e a naso Franco è stato bambino a cavallo negli anni ’50, tirare due frustate a un bambino con uno scudiscio o con un giunco era “normale amministrazione” in quegli anni… capisco che oggi possa essere visto come un abominio, ma se ambienti una storia in un certo periodo sono cose da considerare e inquadrare nella maniera corretta.]
Era arrivato In Friuli, e aveva trovato una neve fatta di calce che cementava la terra dove i morti erano sepolti, e sigillava il passato di una terra di confine. [altre frasi poetiche che vogliono onestamente dire poco, o almeno a me non dicono nulla a livello di contenuto]
Strinse le labbra per darsi forza e alzò la mano in segno di saluto, Mario accennò un sorriso.
Eppure, in quella terra lontana, devastata da un altro orco, forse avrebbe potuto rendersi finalmente utile a qualcosa e ricevere in cambio l'amore che aveva cercato tutta la vita, un amore pulito, delicato, di cui non avrebbe dovuto vergognarsi e che l'avrebbe reso una persona per bene. [Oddio, negli anni ’70 non è che essere gay dichiarati fosse qualcosa di accettato e che si potesse sventolare alla luce del sole senza conseguenze, soprattutto in una terra come il Friuli, dove a parte qualche eccezione la mentalità non è delle più aperte, e lo dico da persona nata in Friuli.]
Un'altra lacrima gli scese lungo la guancia. Non era tardi per cambiare. Poteva ancora farcela a essere un uomo migliore. Dipendeva solo da lui.
Solo da lui.
[Queste frasi sono un bel po’ cliché, fil classico finale alla “volemosebbene” che non è un male di per sé, ma i semi che poi germogliano nel finale devono essere posti per bene lungo il brano, cosa che qui non ho trovato. Franco fa cose in linea con il suo carattere precedente, per il cambiamento non avviene nulla con una magnitudine equiparabile ai traumi che ha subito, ma alla fine lui cambia lo stesso, lasciando la percezione che sia avvenuto “perché sì”, perché hai deciso che dovesse andare così.]
1 Mion, è appena caduto un ciottolo addosso a Domenico. Sbrigati! [ecco, questa nota non va bene, innanzitutto perché devo arrivare a fine brano per capire una cosa che è successa a metà, poi perché è un modo molto poco elegante per risolvere la questione, mi catapulta fuori dalla storia, ricordandomi che sto leggendo, mentre io quando sto inuma storia vorrei starci dentro per piacere tempo possibile.]
RIFLESSIONE FINALEQui mi pare ci sia davvero molto da lavorare. Innanzitutto sullo stile, che non ha uniformità: passi da dentro a fuori il punto di vista senza una logica chiara e scrivi tutto in tell. Io non sono un fanatico dello show, un pochino di tell di quando in quando ci può anche stare volendo, se ben dosato e usato dove ha un senso e ti permette di ottenere un effetto preciso. Però tutto tutto tell dopo un po’ (un po’ poco, in realtà) diventa pesante da leggere.
Anche per quel che riguarda la costruzione ci sono cose da dire: hai sbagliato equilibrio della storia. Quando devi scrivere con dei limiti di spazio devi sempre partire da un’idea che possa essere resa bene in quei limiti di spazio, non partire con un’idea a caso che richiederebbe 3 volte tanto lo spazio e poi forzarla nei limiti con l’accetta e il maglio. Senza contare che le scene non sono nemmeno ottimizzate in questo senso. Per esempio, Franco sarebbe dovuto partire già dentro la casa, con il suo pensiero (magari in indiretto libero) ci inquadrava la situazione e ci caratterizzava lui.
C’è un principio che puoi mutuare dalla sceneggiatura che vale oro anche per chi scrive narrativa: late in, early out. Progetta le scene secondo questo principio, risparmierai molto spazio ed eviterai l’effetto “brodo allungato”. Late in, early out vuol dire che devi entrare nelle scene il piacere tardi possibile per ottenere lo scopo che quella scena deve svolgere e devi uscire il prima possibile quando la scena ha svolto il suo compito nella struttura della tua narrazione. Idealmente, per la tua scena bastava mostrare i due vecchi sanguinolenti nel letto e Franco con il ciondolo in mano che faceva le sue riflessioni sulla situazione, si dava un’occhiata attorno, strappava la foto e si intascava il tutto. Fine. Avresti risparmiato moltissimo spazio che avresti potuto usare per un flashback o per alte scene utili a inquadrare meglio alcuni aspetti che sono mancati nella storia. O per dare uno sviluppo più congruo al conflitto interno e al cambiamento del protagonista.
Poi questi sono i miei consigli, ti ripeto che non sei obbligato/a a seguirli.
Ultimo consiglio: studia meglio i personaggi, abituati a mettere sui piatti della bilancia le loro ambizioni, i loro difetti, le loro esigenze e via dicendo, per farle poi interagire con quelle degli altri. Non limitarti a partire con un’idea di sviluppo per poi infilarci a forza dei personaggi che non sono quelli giusti per quell’arco narrativo.
Prova, in futuro, a partire dai personaggi quando strutturi le cose. Magari hai un’idea, va benissimo, ma la prima cosa da fare è “quali personaggi sarebbero perfetti per mettere in scena quest’idea?” e costruisci tutto a macchia d’olio, espandendo piano piano e incastrando tutti i pezzi gli uni con gli altri arrivando anche all’ambientazione, alla trama, ai conflitti e via dicendo. Ma una delle primissime cose da considerare è sempre il “quali personaggi mi permettono di raccontare questa storia nella maniera più efficace?”.
Se ti perdi questo passaggio, salta per aria anche tutto il resto poi.
Per concludere, perché una storia così non l’hai narrata in prima persona? ti avrebbe aiutato/a a stare dentro il personaggio e a gestire la narrazione in modo un po’ più rigoroso ed efficace. Anche qui, non è obbligatorio, però pensaci per il futuro. Anche la scelta della persona con cui narri è rilevante ai fini della resa della storia. Qui avevi un singolo personaggio portatore di pdf dentro cui volevi scavare per portarlo da una situazione tragica a un cambiamento. Quando devi scavare bene dentro un personaggio, la prima persona è il modo più efficace e immediato, proprio perché meno mediato dal narratore.
Ci sarebbe molto altro da dire, ma sarebbe meno utile di quanto detto finora. Se sistemi le cose che ti ho segnalato già farai degli enormi passi avanti che sapranno trasformare il modo in cui scrivi (ammesso e non concesso che sia quello che desideri).
Spero di averti dati degli spunti di riflessione utili e che vorrai metterli a frutto.