Semifinale Polly Russell

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo agosto sveleremo il tema deciso da Francesco Nucera. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Polly Russell

Messaggio#1 » mercoledì 8 settembre 2021, 16:12

Eccoci alla seconda parte de La Sfida a cambio vita: vado a fare il soccorritore
Combattono in questa semifinale:

Per delle aringhe salate, di Leonardo Pigneri
Jupiter, di read_only

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: venerdì 10 settembre alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 10 settembre. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



read_only
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Re: Semifinale Polly Russell

Messaggio#2 » venerdì 10 settembre 2021, 22:27

Jupiter

Le grida di incitamento della folla accompagnano dagli spalti le otto ragazze che si inseguono lungo la pista di atletica. Stringo più forte il cronometro con cui monitoro il tempo di Kate. Più veloce, più veloce, più veloce. Per ora è prima, ma le sue avversarie stanno guadagnando terreno. Non di nuovo, non può farsi superare. Sono mesi che ci prepariamo per questo momento, ho dedicato a lei tutto il mio tempo. Una mora dai capelli corti con più tenacia di mia figlia recupera ben quattro posizioni e la supera. Anche l’asiatica che ha seguito la scia di Kate fino a questo momento la sorpassa.
Arriva quarta.
Altri genitori si alzano per applaudire, ma io resto seduto con le braccia conserte. Kate si volta verso di me boccheggiando. Mi guarda con i suoi grandi occhi azzurri colmi di lacrime, sa di avermi deluso. Apre la bocca per dirmi qualcosa.
Buongiorno da Jupiter, abitanti di HumanaS2-14. Oggi si registra una temperatura di venti gradi, non sono previste precipitazioni e...
No, ti prego, ancora qualche minuto. Ti prego cervello, lasciami qui. Cerco di alzarmi per correre da lei e abbracciarla, ma il corpo è troppo pesante. Voglio urlare, così posso dirle che non importa della gara, la sua felicità è tutto ciò che conta. La mia voce però è un sussurro e quella di Jupiter un grido pacato che si diffonde ovunque. Alzo un’ultima volta la testa verso la mia bambina: i suoi occhi ora sono vuoti e il suo volto inespressivo. Jupiter me l’ha portata via di nuovo.
… la vostra giornata lavorativa è delle consuete dodici ore con trenta minuti di pausa. Vi ricordiamo che…
Il messaggio del buongiorno risuona ancora nella testa quando apro gli occhi. Al posto della pista di atletica, come ogni mattina da cinque anni a questa parte, ci sono le pareti spoglie della stanza. Un timido raggio di sole entra dalla minuscola finestra e illumina il letto di suor Christine, vuoto e con le lenzuola in disordine. La voce inespressiva di Jupiter rimbomba indisturbata nella stanza trovando come unico ostacolo i due letti.
… è sempre possibile cambiare e diventare umani migliori.
Vaffanculo. Mi trascino verso il bagno. L’armadietto a specchio ha un post-it giallo attaccato proprio al centro.
Sorridi James! - Suor C.”
Stacco il foglietto. Sotto la barba brizzolata mi è comparso un sorriso, ma rivedo nelle labbra sottili quelle di Kate. Smetto di sorridere e mi getto manciate di acqua gelida in volto.
“No!” le grida isteriche di Christine fanno eco nella stanza e raggiungono il bagno. Deve essere in strada. La trovo sempre lì quando dibatte contro gli agenti per tentare invano di impedire l’ennesimo innesto di Jupiter. “Non potete portarlo via!”
Per pochi istanti la stanza si riempie di nuovo di silenzio. Forse qualcuno le sta rispondendo, ma non riesco a sentirlo. Christine riprende a urlare, la quiete è durata poco.
“Non è vera libertà, non è vera libertà! Non sei più umano, vi prego lasciatelo andare, non è cosciente ed è solo un…”
Ha iniziato a piangere. Una fitta mi prende lo stomaco nell’immaginare il suo volto contorcersi in una smorfia di dolore. La raggiungo ancora in pigiama per evitare che venga portata via. Un manganello si schianta con violenza contro il viso di Christine. Dannazione, sono arrivato tardi!
La suora indietreggia stordita per allontanarsi dall’agente che l’ha colpita. Lo riconosco: è Nicholas, pallido come l’ultima volta che l’ho visto. Alle sue spalle un uomo nero con grossi occhi scuri assiste alla scena in silenzio. I due mi salutano con un cenno del capo che ricambio con un movimento meccanico. Allungo la mano verso Christine, il suo volto arrossato e gonfio è così diverso da quello apatico degli uomini che mi guardano. La suora si aggrappa goffa e continua a mormorare qualcosa.
Gli occhi dell’agente che non conosco diventano azzurri. Immagino cosa stia vedendo: intorno alla mia faccia devono esserci i miei dati. Nome, cognome, gruppo sanguigno, forse persino quanto mi resta da vivere.
“Grazie mille, James Evans” esordisce lo sconosciuto con la tipica voce piatta di chi ha deciso di svuotarsi di ogni emozione. “Non deve essere facile relazionarsi con un individuo affetto da disturbi. Jupiter è riconoscente per il suo lavoro. Speriamo nel suo innesto”.
Neanche morto, penso, ma annuisco di nuovo.
“No!” Christine si dimena dalla mia presa e fa un passo minacciosa verso gli agenti. “Lui non lo avrete!”
“Christine basta, torniamo a casa” le sussurro mentre cerco di tenerla ferma.
I due agenti si scambiano uno sguardo per decidere il da farsi. Vogliono portarla via, punirla. Devo fare qualcosa. Non provano più emozioni, ma forse posso appellarmi ai ricordi.
“Andiamo Nicholas, suor Christine non merita di esser trattata così” parlo con tono basso, tremante. Devo schiarirmi la voce a più riprese per non far morire le parole in gola. “Ricordi quando ha rinunciato alla sua razione giornaliera per darla a te?”
Vorrei poter fare di più, ma potremmo entrambi finire nei guai se mi esponessi troppo.
Nicholas mi fissa inespressivo. I suoi occhi passano dal verde all’azzurro: l’intelligenza artificiale sta proiettando il ricordo.
“Sì, ricordo. Informo il signor James Evans che la difesa di obiettori e ribelli viene punita ai sensi del Codice Jupiter articolo quindici comma c. Il signor Evans non è mai stato punito e ha un ottimo punteggio che gli garantisce razioni per due volte al giorno e un orario di lavoro ridotto a dieci ore. Il signor Evans potrebbe perdere questi benefici”.
Mi mordo le guance per nascondere l’orrore e distolgo lo sguardo. Il modo in cui parla ricorda più un vecchio robot che un essere umano a cui è stato impiantato un chip di intelligenza artificiale, segno che Jupiter non è perfettamente integrata con lui.
“Abbiamo da fare” sentenzia rapido l'altro, e si volta per andare. Dietro di lui un alunno della classe di catechismo di Chirstine ha assistito alla scena in silenzio. Ha lo sguardo basso sulla spilla che mantiene con fermezza.
Avrà al massimo dieci anni.
È solo un bambino. Ecco cosa stava mormorando Christine nella sua litania. Ho un blocco all’altezza della gola che mi impedisce di respirare. Lui mi mostra con mano ferma la spilla dorata con la J di Jupiter impressa al centro.
“Così sarò bravo anche io”.
Mi gira la testa. Il blocco ora si è sciolto in cumuli di rabbia che circolano veloci nel corpo e riducono le mani a due pugni serrati. Lo hanno fatto di nuovo come con la mia Kate. Faccio un passo avanti e l’agente sconosciuto acciglia lo sguardo.
“Noto che il suo corpo ora è teso e il suo battito cardiaco sta accelerando. Ha problemi, signor Evans?”
Vorrei dargli un pugno sul suo giovane faccione nero, ma se lo facessi verrei etichettato come un uomo violento dall’intera comunità, quindi ingoio il rospo. Per non parlare delle ore di lavoro aggiuntive e dei pasti miseri.
“Nessun problema. Buona giornata”.
Trascino via Christine che ora sembra un corpo morto, privo di qualunque volontà. Non mi sembra neppure in grado di salire l’unica rampa di scale che ci separa dalla nostra stanza, quindi prendiamo l’ascensore.
La accompagno sul suo letto. Si siede piano, dondola su se stessa mormorando il suo nuovo mantra: è solo un bambino.
Vado in bagno per vestirmi. Guardo l’orologio affisso sulle anonime pareti in cemento grigio: se tutto va bene riesco comunque a essere in fabbrica in orario. Christine parte con il torturare il suo rosario e chiede a Dio di avere pietà per la “piccola anima di Alfonso”.
Quando esco dal bagno è lì a fissarmi immobile. Christine è una fenice: la vedi morire e sei sicuro che non si riprenderà mai più, ma trova sempre le forze per rinascere.
“Un bambino, James. Un bambino! Hanno abbassato l’età dell’innesto a dieci anni, ti rendi conto? Cosa vuoi che ne sappia un bambino di cosa vuole a dieci anni? Neanche la prova fuori dalle mura, direttamente l’innesto! Buon Dio dove siamo arrivati…”
Do di nuovo un’occhiata furtiva all’orologio: ho tempo anche per questo. Christine apre bocca più volte prima di parlare di nuovo, come se dovesse raccontare un segreto a un confidente incerto.
“Secondo te Alfonso e tutti gli altri tornerebbero indietro? Se si potesse, intendo…”
I suoi occhi marroni sono fissi nei miei. Tiene le labbra strette, è chiaro che vuole una risposta affermativa. Se fosse possibile, se fosse così io potrei riabbracciare Kate. Illudersi non serve.
“Non è possibile” replico lapidario e mi volto per non vedere il suo volto spegnersi. Credo di essere affezionato alla sua determinazione ed esserne l’assassino un po’ mi mortifica. Invece la sua voce si fa più alta, più ferma.
“Se lo fosse, qualcuno lo farebbe? Lascerebbe un cervello perfetto per tornare figlio di Dio, magari vivere in questa miseria pur di sentire di nuovo qualcosa? Tu ci credi, James?”
Per fortuna i vicini sono già usciti. Le pareti sono così sottili che avrebbero sentito senza difficoltà la sua follia.
“Vorrei poterci credere, Christine. Ora devo andare: la fabbrica mi aspetta”.


Mi lascio cadere sfinito sul letto. Christine non c’è e la camera è immersa nel buio pesto. Dovrei andare in bagno, ma sono troppo stanco e finirei per sbattere ovunque. La petizione per allungare le ore di luce elettrica negli edifici civili non ha dato risultati.
Una luce azzurra illumina il cielo.
Buonanotte da Jupiter, abitanti di HumanaS2-14. Gli abitanti di HumanaS1 vi ringraziano per i vostri servigi e i prodotti realizzati oggi. Vi ricordiamo che è sempre possibile diventare abitanti di HumanaS1 a partire dai dieci anni. L’innesto è su base volontaria, sicuro e indolore. Vi consentirà l’installazione dell’Intelligenza Artificiale in piena sintonia con il vostro essere, perché è sempre possibile cambiare e diventare umani migliori.
La luce scompare e di nuovo piombo nell’oscurità. Il silenzio della notte viene interrotto dai droni di controllo che prendono quota e partono per la ronda.
Dieci anni… cinque in meno di quanti ne avesse Kate quel giorno. Chiudo gli occhi e cerco di allontanare il ricordo del litigio. Il nostro ultimo ricordo. Corrugo la fronte in uno sforzo che mi sembra sovrumano, ma ormai la testa ha preso a scavare proprio lì. Kate era arrivata quarta e io le avevo vomitato contro tutta la mia frustrazione da uomo non realizzato. Le avevo dato della fallita. Io, suo padre, le ho tuonato contro parole che non riesco neanche più a ripetere a me stesso. Sono parole che come spine appuntite mi infilzano lo stomaco e mi torturano. Lo merito. Lei aveva risposto ti odio papà ed era scappata via. Non me n’ero preoccupato perché era solo una ragazzina e io sapevo che quel podio poteva essere suo. Anche in quel momento, anche di fronte alla sua collera avevo messo al primo posto quelle inutili medaglie. Poi era arrivata la notte nera come questa e…
“Per fortuna sei già qui!” esclama Christine con tono insolitamente squillante. Le sono grato per esser rientrata proprio in questo momento: le tempie si distendono e la morsa che stava prendendo lo stomaco scompare.
Chiude a doppia mandata la porta alle sue spalle. Il rumore dei suoi passi si fa più vicino. Non la vedo finché non accende una candela. Ha in mano il suo taccuino.
“Tu perché sei qui, James?”
“Non iniziare Christine, ho avuto una giornata lunga e i vicini ci sentono”.
Mi giro e chiudo gli occhi. Credo basti questo a concludere la discussione, ma il mio letto emettere un cigolio di protesta nel momento in cui lei si siede.
“James, sono seria. Non ne abbiamo mai parlato. Io per te sono la suora pazza e tu il tipo accondiscendente, ma voglio conoscerti meglio”.
Sento la penna scrivere e il rumore di carta strappata. Apro gli occhi. Christine ha messo a pochi centimetri dal mio naso un foglietto.
ESISTE.
I miei occhi passano dal foglio al suo volto serio. Mi tiro su e inizio a organizzare i pensieri. Perché me lo sta dicendo? Qual era la domanda? Respiro a fatica e cerco risposte in quell’unica parola. Esiste. Lei deve aver letto l’ansia sul mio volto, perché riprende a parlare.
“Ormai siamo rimasti in pochi in tutti i distretti a non avere Jupiter: vecchi che non sopravvivrebbero all’innesto, fedeli che sanno riconoscere Satana, bambini, ribelli no-Jupiter. I distretti dal 9 al 13 non esistono neanche più. Tu però non rientri in nessuna categoria. Non credi in Dio, che Lui abbia pietà di te, tratti con rispetto i Jupiteriani, non sei un bambino e… quanti anni hai, sessanta?”
“Cinquant… cinquantatré”.
“Cinquantatré. Che ci fai qui?”
La nebbia grigia della memoria sputa fuori con violenza il ricordo dell’ultimo giorno con Kate. Aveva con sé la spilla dorata con la J e il segno circolare viola dell’impianto sul collo ben in vista sotto la coda bionda. Non ricordo la sua voce, ma ricordo il tono vuoto e privo di emozioni.
Ora posso vincere.
Come posso spiegare a una suora che mi vergogno di rivedere mia figlia? Che non ho il coraggio di affrontare quello che io ho fatto? Le lacrime solcano le rughe del volto e si perdono nella barba. Mi porto le mani al viso per nascondermi.
“James, hai qualcuno fuori di qui?”
Annuisco in silenzio e tiro su col naso. Mi sento un bambino, vorrei sparire all’istante. Si alza e prende la sua vecchia borsa. Estrae una custodia rettangolare e me la passa. Le mani tremano mentre afferro l’oggetto e tasto con i polpastrelli il morbido velluto.
“I ribelli hanno prodotto questa. Serve ad estrarre Jupiter da un individuo senza rischi per il portatore. Sono anni che lavorano in segreto a questa soluzione, costretti sotto terra come animali. Io collaboro con loro”.
“Christine, fermati un secondo. Tutto questo non ha senso. Non è possibile uscire da qui senza l’innesto”.
Christine ride divertita.
“Tu credi che io abbia fatto la pazza in tutti questi anni perché sono realmente pazza? So che le mie grida sono inutili. Sono vere, solo Dio sa quanto, ma sono inutili. Sono cinque anni che sbraito e mi faccio arrestare. Tu mi hai reso il lavoro difficile con i tuoi continui interventi, ma sono riuscita comunque a farmi un giretto dalle loro parti. Conosco tutti gli agenti e loro conoscono me come un'innocua suora pazza. Ci sono solo due guardie a controllare l’uscita. Io posso tenerle occupate mentre tu esci”.
Se non avesse un tono serio farei fatica a crederle. Apro con cautela l’astuccio. Al suo interno, avvolto da un rivestimento morbido, c’è una penna laminata grigia che mi ricorda quelle che venivano usate per l’insulina. Vorrei prenderla, ma le mani tremano così tanto che ho paura mi cada. L’oggetto giace inerme e sembra gridarmi contro che c’è un’alternativa. Chiudo gli occhi: vedo Kate che mi abbraccia, che prova di nuovo qualcosa. Forse rabbia, forse amore. Qualsiasi cosa. Le dico che va tutto bene, che non importa quanto corra veloce, io la sosterrò sempre.
Quelle parole mai dette mi bruciano in gola. Il dolore mi riporta al presente. Kate non è qui, e ormai fa parte di Jupiter. È una macchina perfetta in grado di svolgere ricerche chiudendo gli occhi, di monitorare il proprio corpo come facevano un tempo gli smartwatch, sempre connessa a internet e agli altri.
“Anche se riuscissi a uscire...” abbasso lo sguardo, la voce si riduce in un sussurro “...non saprei dove trovarla”.
Christine tira fuori dalla borsa un cilindro sottile e nero, lungo pochi centimetri.
“Cos’è?”
“Uno smartphone. Un modello non troppo recente, lo abbiamo rubato qualche anno fa. Tu schiacci qui e si accende”. Clicca in basso su quello che sembra essere l’unico pulsante e l’oggetto proietta un ologramma rettangolare. Christine preme di nuovo il tasto e la luce svanisce.
“Abbiamo già impostato il localizzatore globale come pagina di accensione. Una volta fuori, accendilo e pronuncia a voce alta il nome della persona che cerchi. Ti indicherà dov’è e come raggiungerla. Allora, te la senti?”
I rischi sono altissimi. Mi ridurrebbero le razioni al minimo, aumenterebbe il mio orario lavorativo a dodici ore più straordinari punitivi, e chissà quali altre torture. Ciononostante...
Ora posso vincere.
“Me la sento. Dimmi tutto”.


Buongiorno da Jupiter, abitanti di HumanaS2-14. Oggi si registra una temperatura…
La voce di Jupiter attraversa le strade vuote. Christine aspetta all’esterno dell’edificio 18-B. Lì vive Marcella, una donna di mezz’età che avrò visto al massimo un paio di volte pregare con lei. Dal 18-B all’uscita mi separano quattrocento metri, una breve strada dritta per la libertà.
Resto nascosto nel vialetto che affianca il palazzone. Non devo aspettare molto prima di sentire le voci di Marcella e Christine.
“Non farlo, Marcella. Resta qui con me ti prego. Fallo per la tua anima”.
Christine urla, Marcella le risponde in sussurri inudibili. Arrivano gli agenti e le grida di Christine si fanno più forti. Riconosco il rumore sordo del manganello che colpisce la suora. Faccio un passo verso la strada, ma mi blocco. Non devo essere scoperto. Mi mordo le labbra e stringo i pugni per impormi di restare fermo. Christine questa volta non resta in silenzio, e urla più forte.
“Non ci avrete tutti, figli di Satana! Mi senti Jupiter? Non mi avrai mai!”
Di nuovo sento il colpo del manganello accompagnato da un silenzio surreale. Christine mi ha detto che quando succede la trascinano via mentre è stordita o incosciente, poi si risveglia non so dove. Cercano di convincerla sui benefici dell’innesto e quando capiscono che non c’è verso la lasciano andare.
Ho mezz’ora: un agente resterà con lei, l’altro tornerà a controllare l’ingresso.
Conto i secondi che mi separano dalle grida di Christine. La sua voce mi rimbomba ancora nella testa. Forse è tutta una trappola. La siringa, Christine, gli agenti. Forse vogliono solo impormi l'innesto e cercano un modo per mettermi pressione. La libertà di scelta è alla base del dominio Jupiter e questo potrebbe essere un modo per costringermi a diventare uno di loro. Delle torture mascherate da punizioni finché non crollo. Dovrei tornare indietro. Tornare in fabbrica e marcire qui. Così, però, Kate non saprà mai la verità, e se per dirle quanto è importante per me devo rischiare l’innesco allora va bene.
Esco dal mio nascondiglio, pronto a trovarmi di fronte i due agenti.
Invece in strada non c’è nessuno.
Inizio a macinare i metri che mi separano dal varco nelle mura; ho il cuore che sembra dover scoppiare da un momento all’altro e la testa che continua a contare.
Il varco si fa sempre più grande, una bocca sdentata che apre le sue fauci rompendo la monotonia del muro. Sento delle voci e accelero. Il rumore dei droni sembra perseguitarmi. Sono dietro di me?
Accelero.
Arrivo al varco indisturbato. Mi lascio divorare dall’ombra delle mura mentre il cuore inizia a trovare un battito più regolare. Tasto con le dita la tasca dei jeans: tra pochi istanti potrò utilizzare lo smartphone.
I grossi pini che circondano le mura si aprono in un sentiero stretto in discesa. So che sono ancora troppo vicino al distretto, ma non ce la faccio, ho bisogno di vedere il volto di Kate anche se fosse solo una proiezione di questa diavoleria.
Tiro fuori lo smartphone e lo accendo. L’ologramma presenta una mappa del mondo con un’icona anonima nera che gira su se stessa. Le mani mi tremano e devo schiarirmi la voce più volte prima di riuscire a parlare.
“Kate Evans”.
L’icona viene sostituita da un messaggio di caricamento. Sono immobile: i piedi sono troppo pesanti da spostare. La mappa si riempie di puntini e minuscoli volti cerchiati. Lo sguardo schizza da un viso all’altro alla ricerca di mia figlia.
“Cerca sua figlia, signor Evans?”
La testa scatta come una molla. Oltre l’ologramma, l’agente nero mi fissa con il suo volto apatico. Il cuore riprende a martellare frenetico e le mani mi tremano incontrollate.
Il cambio della guardia. Christine non ha considerato il cambio della guardia.
Lui mi scruta per un istante e fa un passo verso di me.
“Credo non ci siamo mai presentati. Sono Edward Stone. Mi rincresce informarla che sua figlia è deceduta”.
Non capisco cosa abbia detto e resto immobile. No, ho capito cosa ha detto, solo non voglio crederci. Mente. Edward parla di nuovo.
“Jupiter, recupera i dati della figlia del signor James Evans”.
L’ologramma si illumina. Il volto vuoto di Kate compare contornato di informazioni. La data di nascita, il gruppo sanguigno, la professione (è un’atleta), la data del decesso per “rigetto dell’innesto”.
La data del decesso...
L’agente continua a parlare, ma la sua voce è lontana, ovattata. La testa gira e le mani sudaticce diventano pesanti, cadono lungo il corpo. Un’immensa pressione mi schiaccia e io cedo. Kate continua a fissarmi apatica. Come faccio a dirle che non importa? Che non è vero che è un fallimento? Come faccio a vederla di nuovo sorridere?
Lo stomaco si contorce e le lacrime iniziano a bagnare il volto. Dondolo su me stesso e provo ad abbracciare l’ologramma. Uno, due, tre volte.
Ho ucciso mia figlia. Con le mie aspettative, il mio tono rude, la mia ossessione per la perfezione, la sua perfezione.
“Signor Evans, lei soffre molto. C’è un modo per non soffrire più. Per scoprire che non è colpa sua”.
Mi allunga una spilla con una grossa J in rilievo.
“Perché è sempre possibile cambiare e diventare umani migliori”. Si avvicina e nota il rigonfiamento della mia tasca.
“Cos’ha lì?”.
Tiro fuori la custodia e dalla tasca mi cade un foglio. ESISTE.
La voce di Christine, che con determinazione ha urlato “non ci avrete tutti” rimbomba nella mia testa. Ho già deluso mia figlia, non posso deludere anche lei.
“Me lo consegni”.
Edward allunga la mano. Rivedo nel suo volto apatico quello di Kate.
Jupiter non ci avrà tutti.
Estraggo la penna e faccio per dargliela, ma con un gesto rapido stringo la sua mano e lo tiro verso di me con forza. I suoi occhi si spalancano e va subito alla ricerca del manganello. Infilzo la penna sul livido viola dietro la nuca.
Zic.

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Leonardo Pigneri
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Re: Semifinale Polly Russell

Messaggio#3 » venerdì 10 settembre 2021, 23:53

Il ginocchio del pretoriano mi preme sulle vertebre.
«È proprio necessario?» Col mento scavo una fossetta nella cenere. «Erano solo aringhe in fondo, non pensavo fossero di qualcuno!»
Mi passa la corda attorno a polsi e caviglie. «Sta’ zitto.»
Già. Se non lo ripete ogni poco va a finire che me ne dimentico.
Sopra le tende dei baraccamenti i bagliori dell’incendio continuano a illuminare la notte. Neanche l’orsa maggiore si vede più.
Con un colpo secco il pretoriano stringe il cappio che mi unisce mani e piedi dietro la schiena.
Digrigno i denti. «È un po’ strettino, non è che–»
Una mano mi afferra la nuca. Sbatto con la faccia sul terreno e mi si riempie la bocca di terra e cenere. Tossisco.
Il pretoriano mi tira su per i capelli e para il suo muso suino davanti al mio. «Altre richieste, ladro?»
Sorrido. «No, grazie, a posto così.»
Mi lascia andare. Sputo e le labbra mi si impiastricciano di fango.
Dimmi te se si può essere così sfigati, pure i mercanti hanno le guardie ormai. A chi cazzo devo rubare, ai contadini?
Alzo appena il capo, la schiena mi tira. I passi del pretoriano tornano verso il fuoco smuovendo nuvolette di polvere. Si siede accanto al mercante che mi guarda con un mezzo sorriso.
Devo essere un bello spettacolo. Legato come un vitello e nero di sporcizia.
Il mercante si accarezza la barba scura. «Ora va meglio, no? Almeno non rischiamo che le tue mani prendano di nuovo qualcosa che non t’appartiene.»
«Pensiero gentile, mio domine, ma, da cittadino romano, avrei da obbiettare su questi metodi.»
Ride. «Questo è ancora da vedere! Niente piastra di bronzo o diploma militare. Vestito di stracci e colto a rubare. Scommetto che sei uno schiavo!» Si allarga appena la toga dal collo. «Magari il tuo padrone è rimasto ucciso nell’incendio e sei scappato. Ci ho preso?»
«Come un ciecato che piscia alla latrina, mio domine.»
L’uomo si fa serio. «Larzio.»
Il pretoriano, come animato da parola magica, si alza. Il muso da suino contratto di rabbia.
Calcio sulle costole scommetto. Privo di fantasia ma doloroso e sbrigativo.
Contraggo i muscoli del fianco.
L’omone si ferma e guarda dietro di me. Dei passi. L’altro pretoriano avanza verso il suo padrone con un rotolo di pergamena in mano.
Il rapporto del pretore, finalmente!
Rilasso i muscoli. Il mercante si alza e porge il palmo verso il soldato smilzo. «Eccoti, Tallo! E quale momento migliore!» Mi guarda con un ghigno. «Vediamo un po’ il pretore cosa dice di questo presunto cittadino...»
L’uomo prende la pergamena e la srotola. Il sorriso gli si affievolisce.
«Beh?»
Il mercante alza un sopracciglio. «Gellio Kaeso Apicius.»
Annuisco. «In persona.»
Restituisce la pergamena al pretoriano con un gesto secco. «Riportala al pretore e ringrazialo da parte mia. Poi torna qui, che mi servi.» Quello fa un cenno con la testa e se ne va.
Forse, se me la gioco bene, riesco a farla franca. Devo solo imbrigliare la lingua e fingermi pentito. O disperato, magari. O…
Il mercante si siede. «Dimmi allora, qual è la tua professione, Gellio?»
Prima di essere stato bandito dal praticarla? «Ma Il lavoro più umile ed onesto che c’è, mio domine! Il tonsore! E vi offro i miei servigi senza alcun compenso finché lo riterrete necessario!»
Il mercante ride. «Ah! Preferisco esser caprone che servire il mio collo alla tua lama.»
Anche il pretoriano si unisce alla risata. Tra caprone e maiale ci si intende d’altronde.
«Voi sicuramente mi sottovalutate, e che colpa ne avete? Anch’io, vedendomi in questo stato, mai direi di aver servito Tigellino stesso!»
«Ah sì? Il prefetto di Nerone?»
Proprio quel gran bastardo, mai un attimo fermo mentre lo radevo. «Esattamente. Un pelo duro il suo, quello di un vero uomo!»
Il mercante si passa una mano sulla bocca. «Certo che menti come una vera canaglia, Gellio. E l’orecchio? Non mi dirai di averlo perso per strada.»
Già, l’orecchio.
Un brivido. Il ricordo del boia che affila il coltello è sempre a portata di mano.
E tutto per un misero taglietto su una guancia…
Annuisco. «Una rissa, nulla di più. Ci vuole poco a far saltare un orecchio con un pezzo di vetro acuminato.»
«Sembra un taglio netto…»
E lo era, dannazione. Il compenso per aver provato a vivere onestamente.
Scrollo le spalle, ma il risultato è solo una scarica di dolore. Inizio a non sentire più le gambe.
«Larzio, slega questo figlio di Mercurio.»
Oh dei, grazie!
Il pretoriano, però, esita.
Su, bestione, non ti ha detto mica di calcolare la distanza tra cielo e terra! Muoviti!
Il suo viso si contrae. «Ma…»
«Ho detto slegalo.»
Mi dondolo sul petto a mo’ di barchetta. Sorrido. «Io non ho fretta, però sai...»
Il pretoriano si alza e viene da me. Lo saluto con le dita rattrappite tra le corde. Lui le guarda e sfila la spada.
«Ok, piano ora…»
“Slegalo” non è mica un comando in codice per dire sgozzalo, vero?
L’uomo si piega su di me. Il nodo si allenta.
Ma certo. Ecco come sprecare una buona corda.
Il sangue riprende a circolare per braccia e gambe. Come un fusto di rami sciolto dal suo spago, riverso i miei poveri arti nella cenere. E chi si muove più.
Qualcosa mi strattona la tunica. Mi sollevo in aria. Le gambe trovano il terreno e sussultano sorreggendo il mio peso. Il pretoriano mi lascia.
«Grazie buon Larzio, non ce l’avrai fatta senza di te.»
Il muso suino mi squadra. I suoi occhi si accendono sul mio fianco.
«E questa cos’è, ladro?»
Abbasso lo sguardo. Il coltello sbuca da sotto il subligar di lino.
Cazzo.
«Ve l’ho detto!» Prendo il pezzo di ferro arrugginito. «È per il mio mestiere, è un rasoio!»
«Da qua!» Il pretoriano mi strappa il coltello di mano e se lo infila alla cintura.
Ecco andarsene anche il mio penultimo possedimento.
Sospiro.
Vecchia tunica… siamo rimasti solo io e te ora.
«Bene Gellio, la situazione è questa.» Il mercante si alza e inizia a passeggiare con le mani dietro la schiena. «Tu mi devi risarcire quaranta sesterzi.»
Allargo le braccia. «Per delle aringhe!?»
«Esattamente. Hai idea di quanto costi importarle dalla Britannia?»
E io sarei il ladro? «Con tutto il rispetto, mio domine, dove la vado a trovare una somma del genere di questi tempi?» Mi porto una mano al viso. «Ho perso tutto con l’incendio!»
«Non starmi a raccontar balle, ladro, non avevi un cazzo neanche prima!»
Già. Colpito.
Il mercante mi punta il dito contro. «E ringrazia che non ci aggiungo l’aggravante del furto notturno!»
«C’era ancora luce, andiamo!»
La spada del pretoriano mi pungola il fianco.
Sbuffo. «Quindi? Che si fa?»
«Beh, se non mi paghi, posso rivenderti come schiavo.»
Schiavo. Meglio la morte a quel punto.
Guardo la lama dell’omone.
Oddio, forse non proprio.
Il mercante si avvicina ancora di più. «Ma sei fortunato, perché ho una proposta per te.»
Fortunato non ci sono mai stato, ma l’esperienza sembra già deludente. «Perfetto, sono tutto orecchi.»
«Beh, è semplice, Nerone oggi ha pronunciato un nuovo editto. Ha promesso di risarcire chiunque abbia perso la propria domus nell’incendio. E io ho bisogno di alcune carte di proprietà che ho lasciato indietro. Presto il fuoco arriverà alla mia casa quindi non c’è tempo da perdere. Ci andrai tu.»
Tutto qui? Dov’è l’inghippo? «Perché non mandarci i tuoi uomini?»
«Non li pago per questo.»
O non li paghi abbastanza, per questo. «Dov’è la tua domus?»
«Sul Celio.»
Mi sposto oltre la tenda e verso la città. Alla destra del Circo Massimo, ridotto ad un bacino di fiamme, il colle del Celio avvampa. Gli alberi son ceri di candele e del verde dei giardini non rimangono che macchie nere. «Qual è?»
Il mercante indica in mezzo alle fiamme. Un piccolo quadrato offuscato dal fumo sembra non essere ancora stato divorato dal fuoco.
«Stai scherzando, vero?»
«Larzio e Tallo ti accompagneranno fin dove potranno, così da non incappare in problemi.»
E per accertarsi che io non scappi. Saggia scelta.
Mi sgranchisco una gamba. «E va bene, quando si comincia?»
Il mercante sorride. «Io e Larzio dobbiamo fare i dovuti preparativi. Partirete subito dopo la fustigazione.»
Fustigazione? «Di chi?»
Ridono entrambi.
«Ah.»

«Sul culo! Dagliele sul culo!» Gracchia quella vocetta.
Alzo la testa dal tavolo. Tra i pochi spettatori annoiati il bambino applaude e saltella.
«Qualcuno lo mette a dormire sto ragazzino? Ha rotto i co– Argh!»
Uno schiocco. Le bacchette bagnate mi scarnificano di nuovo la pelle.
«Bastardo figlio di una meretrice...» Stringo i denti e mi volto verso il pretoriano smilzo. «Quante cazzo ne mancano?»
Quello frusta le verghe nell’aria facendole schizzare del mio sangue. «Due.»
«Fa in fretta dannazione!» Mi afferrò per bene al tavolo. Il bambino mi fa la linguaccia.
«Appena ho finito qui ti vengo a cercare bas– AH! Fetida d’una puttana!» Sbatto un pugno sul tavolo. «Lo fai apposta mentre par–!»
Altra frustata. Altre strisce fredde e formicolanti si trasformano in saette di dolore.
Mi scuoto dal tavolo e punto un dito contro Tallo. «Sei la merda di un cane! Tu, tua madre e tua sorella!»
Quello aggrotta la fronte. «Finito? O ne vuoi un'altra?»
Prendo un bel respiro. «No, finito. Grazie. Mi dovevo un attimo sfogare.»
«Su, rimettiti la tunica, dobbiamo metterci al lavoro.» Mi porge lo straccio.
Infilo un braccio nella manica stando attento a non farci strusciare la pelle. «Sai, non è che ho così tanta voglia di aiutare il tuo padrone adesso. Mi hai conciato maluccio.»
«Starai bene, ti avesse voluto fare male davvero, allora ti avrebbe fatto frustare da Larzio. E non da me.»
Devo proprio stargli simpatico allora. Il pretoriano mi allunga un braccio. Muovo un passo zoppicante e mi ci appoggio. «Grazie, facciamo piano però.»

La luce arancione delle colonne di fuoco ondula sul lastricato della strada.
La schiena mi ha torturato per tutto il tragitto, ma adesso inizia a fare meno male.
Rallento. I due pretoriani continuano a camminare per la salita del Celio.
Basta un po’ di distanza in più, un buono scatto e–
«Muoviti, ladro!» Faccia da suino agita la spada verso la via.
«Sì, arrivo!» Mi stropiccio un occhio. «Mi era entrata… della cenere, sotto la palpebra.»
Lui mi squadra con cattiveria, ha ancora il mio coltello alla cintura. «Cammina avanti, su!»
«Certo, certo…» Mi spintona e finisco contro Tallo che mi sorregge.
Anche lui ha la mano sull’elsa della spada, ma sembra più preoccupato a guardarsi intorno che badare a me.
Cammino. «Manca tanto?»
«Sta’ zitto!»
«Cos’è, la mia voce non ti piace o è il fatto di dover–
Due mani mi afferrano per la tunica e mi gettano di lato. Il tessuto mi struscia sulla pelle viva facendomi gemere di dolore. Tallo e suino mi strattonano in un vicolo.
«Ehi!»
«Shh!» Faccia da suino si porta un dito alla bocca.
Tallo si affaccia sulla via. «Saccheggiatori.»
Mi sporgo anch’io. Cinque uomini attraversano la strada di corsa, hanno tutti dei sacchi e delle fiaccole in mano. «Che facciamo?»
«Aspettiamo che se ne vanno.» Borbotta suino.
Uno di quelli sghignazza. Alcuni hanno delle spade ai fianchi. Non sembrano tipi da lasciarti passare senza strapparti di dosso anche le mutande. O le budella.
Entrano in una casa in fondo alla via. L’ultimo lascia una torcia fuori dalla porta.
Suino mi guarda. «Perché l’hanno lasciata lì?»
«Ehi, non è carino dare per scontato che io sappia gli usi di quei tagliagole!» Alzo il mento.
«Parla!»
Sorrido. «Certo che non vi dicono un cazzo a voi uomini d’arme.» Sospiro. «Vuol dire che ce ne sono altri in giro. Hanno lasciato la torcia per segnalare che stanno loro là dentro.» Passo lo sguardo sui due pretoriani. «Quindi sì, è meglio se ci sbrighiamo, ora che sono impegnati.»
Suino fa un grugnito e esce allo scoperto. «Muoviamoci allora.»
Attraversiamo la via di corsa e ci infiliamo in una stradina che risale il colle. Il fumo è più denso qui e gli occhi mi cominciano a lacrimare. Tallo inizia a tossire per primo, poi io e suino.
Che situazione di merda. E tutto per qualche schifosa aringa. Anzi no, tutto per un cazzo di taglietto sulla guancia della persona sbagliata.
Un muro di fiamme ci si para davanti. Entrambi i palazzi della via vanno a fuoco lasciando solo un corridoio di scintille e fumo nel mezzo. «E ora?»
«Siamo arrivati.»
Mi volto verso suino. «Cosa? Devo entrare lì? Sei pazzo!» Il fuoco scoppietta e romba da ogni direzione.
Suino mi punta contro la spada. «Vai.» La tunica sotto il suo sagum è zuppa di sudore. «Prendi i papiri e torni qui, e non fare scemenze.»
Mantieni la calma, Gellio. Anche se è stupido, forse ci può arrivare.
«Senti. Se io entro là dentro,» indico l’inferno che avanza lentamente verso di noi. «Prima muoio soffocato, e poi carbonizzato!»
Suino digrigna i denti. «La domus non è lontana. Se corri ce la fai.» Mi preme la spada sul petto. «Oppure no. Tocca provare per essere sicuri.»
Ecco. Lo tira fuori ora il senso dell’umorismo.
Tallo ha un accesso di tosse e si piega sulle ginocchia. «Sbri… ghiamoci…»
Allargo le braccia. «Cazzo, ci sto provando a ripagare il debito, ma così non vale!» Mi ritraggo appena dalla spada di Suino. Il mio pugnale riflette un bagliore arancione dalla sua cintura.
«Non c’è modo di passare là in mezzo! È un fottuto suicidio! Fatemi fuori ora e facciamola finita!»
Gli occhietti di suino si stringono ancora di più. «Stai rischiando grosso, ladro. O vai, o ti ammazzo davvero.»
Me la gioco almeno. Due contro uno. Disarmato. «E che differenza fa?»
Una voce si leva da sinistra. «Nessuna. Dato che da qui non ve ne andate.»
Dal vicolo, sette briganti avanzano verso di noi. Hanno spade e coltellacci in pugno.
Di male in peggio.
Suino si volta dandomi le spalle. Tallo si rialza e sguaina la spada.
Il capo dei briganti fa un cenno ai suoi. Ci iniziano a circondare.
Siamo fregati. L’onestà non ha mai pagato, ma anche la disonestà, adesso, si dimostra piuttosto ingrata. E io che le ho dato tutto…
Mi getto sul fianco di Suino e gli sfilo di dosso il pugnale. L’omone si gira. Sul suo viso uno strato di terrore. Sorrido, stringo il pugnale e faccio un passo indietro.
Ti aspettavi una pugnalata alle spalle eh? Stupido fino alla fine. Mi servi, cazzo.
Suino pianta di nuovo lo sguardo sui briganti. «Allontanatevi carogne! O ve la passerete male!»
Il capo dei briganti mostra un ghigno degno del suo rango. «Sei sicuro, bestione? Io dico che vi conviene abbassare le armi. Magari vi lasciamo andare…»
Sì, e a me ricresce l’orecchio.
Avanzano.
Tre contro sei.
Abbasso lo sguardo sulla mia lama arrugginita e il braccio rinsecchito che la stringe.
Due e mezzo contro sei. Ma due sono pretoriani addestrati, almeno.
Forse. Forse si può fare.
Due briganti si gettano su suino. Altri due su Tallo.
Il capo punta la spada contro di me. La lama è cinque volte il mio pugnale. «A questo ci penso io, ragazzi!» Sorride e mi fa cenno con l’arma di incalzarlo.
Ma cos’è oggi? Si aspettano tutti che abbia voglia di farmi ammazzare?
Arretro.
Una spada mi sfiora il viso. Larzio deflette il colpo di un brigante e lancia il suo sagum contro un secondo.
Cerco di metterli tra me e il mio avversario.
Suino estende il braccio e pianta il gladio nel mantello ancora avvolto nella testa del brigante. Quello emette un rantolo e mi cade vicino scurendo ancor di più il rosso del sagum.
Ci sa fare.
Il calore mi brucia un gomito. Mi volto. Le fiamme e il fumo invadono il resto della via.
Più di così non posso indietreggiare.
Stringo il coltello e faccio l’occhiolino al tagliagole. «Non è che vi serve un uomo in più?»
La risposta è un fendente diretto alla mia pancia. Scarto all’indietro. Una nuvola di fumo mi avvolge. Tossisco. La pelle inizia a cuocere. Mi butto in avanti.
Un baluginio d’acciaio s’accende di lato. Il brigante cala un colpo sulla mia testa. Gli vado addosso e lo butto a terra.
Ora finiscilo, Gellio, finiscio!
Un clangore di lame si leva alle mie spalle. Mi volto. Tallo blocca il coltello di un brigante.
Un coltello che era diretto alla mia schiena.
Un altro brigante si lancia contro il gracile pretoriano e gli pianta la spada in una spalla.
Merda.
Quello al mio fianco si rialza. Ho perso la mia occasione.
Mi sposto lateralmente verso il cadavere col mantello intorno alla testa.
Suino, più avanti, ha un pugnale piantato in un ginocchio e la faccia ricoperta di sangue.
Non c’è più nulla da fare.
Butto il coltello e prendo il sagum dal cadavere. Me lo metto sopra la testa e carico il capo dei briganti. Urlo, prendo un respiro e devio verso il corridoio di fiamme.
Chiudo gli occhi.
I talloni mi sbattono sul sedere. Le mani sfrigolano. Dolori lancinanti mi attraversano braccia e gambe, ma non posso fermarmi.
Il calore inizia a pungermi la faccia. Il sagum deve aver preso fuoco. Lo butto via.
Una contrazione al petto. Il corpo cerca di farmi respirare ma tengo le labbra serrate. Il calore non accenna a diminuire.
Apro gli occhi. Una vampata di fumo bollente mi invade le pupille. Li strizzo forte e apro la bocca. Il fumo mi entra nei polmoni. Le gengive si inaridiscono, la lingua si ritrae nella gola cercando di bloccarlo. Un colpo di tosse, ma non riprendo fiato. Urto col piede contro qualcosa e rotolo in avanti.
Dove fa meno caldo. Dove è più buio.
Apro gli occhi. Due spilli me li perforano. Li richiudo. Sembrava l’interno di una casa. Li dischiudo più lentamente. Bruciano ma funzionano ancora.
Un paio di colonne danno accesso a un atrio. Sopra, un quadrato di cielo tinto d’arancione si affaccia sulla sala.
L’impluvium!
Cammino a quattro zampe sulle mattonelle. La cisterna, per fortuna, era stata coperta con un panno per non fare evaporare l’acqua.
Mi ci butto dentro sprofondando insieme al lenzuolo.
Gambe e braccia pizzicano appena. L’acqua è calda ma fa il suo dovere. Mando giù una sorsata per pulirmi la gola. Riemergo.
I polmoni sono ancora pesanti, ma va già meglio.
Fuori dalla porta le fiamme lambiscono le mura della domus.
Forza Gellio, sei sopravvissuto all’ira di Tigellino, puoi sopravvivere anche a questo.
Mi guardo intorno. Devo trovare un altro modo per andarmene. Ma prima i papiri.
Esco fuori dalla cisterna. Il Mercante aveva detto che lo studio era in fondo all’atrio.
Procedo a passo svelto ed entro nella stanza.
Si distinguono solo dei contorni. Tavolo, sedia, libri, scrigno.
Deve essere quello.
Lo apro e tasto qua e là con la mano. Gli scricchiolii delle carte confermano la mia ipotesi. Mi sfilo il sacco dalla vita e lo riempio di tutto quel che è all’interno della cassa. Sul fondo ci sono delle pietre. Me ne porto una al viso.
Gemme.
Proprio quello che mi serviva per tirare avanti. Almeno finché non riesco a mettere a frutto queste carte. Ingenuo da parte del mercante pensare che non sapessi leggere.
Infilo tutto nella sacca e mi alzo.
Ora fuori, Gellio, non ti rilassare.
Esco dalla stanza.
Ci deve essere un altro modo per filarsela da questo inferno.
Mi affaccio da una finestra. Il muro dirimpettaio è divorato dalle fiamme.
Da un'altra. Il giardino sembra la fucina di Efesto.
Un’altra ancora. Tutti gli edifici che mi circondano si sono arresi alla dannazione.
E tutto per un piccolo tremito del polso! Cazzo. Me ne sarei dovuto stare lontano da questa città di merda. Ma ero giovane e in cerca di fortuna; biasimo lei per non avermi trovato.
«Pensa, pensa...»
Il tetto!
Esco fuori e mi isso sulle tegole. L’aria è più fresca qui, ma tutt’intorno ci sono solo le luci danzanti delle fiamme.
Tranne in un punto.
La sommità del tetto della casa a fianco non è ancora stata divorata del tutto!
Mi bilancio con le mani e cammino ponendo un piede davanti all’altro per rimanere sulla costola più solida del tetto. È una passeggiata di salute in confronto a quello che ho passato finora.
Sfilo tra le spettatrici ardenti fino alla casa successiva, salto su un altro tetto, e davanti a me le fiamme si esauriscono.
In fondo ai bagliori della notte, le mura romane abbracciano i piedi dell’Esquilino ignorando l’altra metà destinata alla dannazione.
Forse quei cristiani avevano ragione sull’espiare i propri peccati…
Mi giro. Da qui i fuochi sembrano andare all’infinito, salendo e scendendo per i colli senza ostacolo alcuno. Mi siedo e prendo un respiro profondo.
Roma, Roma… nottataccia per entrambi eh?
Da sotto arriva un gorgoglio.
Devono essere i saccheggiatori ancora all’opera.
Mi schiaccio sulla pancia e striscio verso la sporgenza.
Due metri sotto di me, quattro corpi sono distesi a terra. Due soldati e due briganti. Devo essere tornato indietro senza accorgermene.
Uno dei cadaveri muove un braccio. È Tallo. È vivo. Stringo la stoffa della sacca.
Meglio andarsene, quei bastardi potrebbero tornare da un momento all’altro.
Tallo boccheggia.
Che sta facendo? Forse una preghiera agli Dei. Saggio.
Suino invece è sdraiato sul petto.
Doveva essere stato duro da buttare giù, ma alla fine ce l’avevano fatta.
Poco male. Era un violento e non si meritava una fine migliore di quella degli altri stesi a terra. Il fatto che sei dalla parte del giusto non conta granché se ti comporti da stronzo.
Ma quel Tallo… sono sicuro che mi aveva salvato la vita là in mezzo.
Merda, Gellio, alzati e vattene. Non gli devi niente! Meglio ricco che onesto, lo sai!
Lo so…
Mi mordo il labbro superiore fino a farmi male.
Cazzo.
Me le merito tutte le sfighe.
Butto la sacca di sotto. Mi appendo alle tegole e mi lascio cadere giù. In un attimo, sono al fianco di Tallo.
«Ce la fai?»
Mi guarda.
Il viso smunto sembra già quello di un morto, ma forse non è spacciato.
Lo tiro su. «Appoggiati alla mia spalla, non riesco a portarti.» Il suo braccio mi passa dietro al collo. «Dai, un passo alla volta.»
Tallo appoggia un piede. Poi l’altro.
Bene così.
Tossisce. «G- grazie…»
«Calmo, non ti sforzare. Il tuo padrone ti troverà un buon medico.»
E magari gli serve un nuovo tirapiedi. Chissà, potrebbe confondere la mia infinita stoltezza per lealtà.
Sorrido. «Sai che penso, Tallo?» La sua testa ciondola appena sul petto. «Che alla fortuna, non gli ho neanche mai fatto capire dove cazzo fossi.»

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Re: Semifinale Polly Russell

Messaggio#4 » domenica 26 settembre 2021, 23:15

JUPITER di Read¬_only
Ben trovato/a. Mi scuso in anticipo se non sarò esaustiva con i miei commenti, ma è stato un periodo delirante.
Il racconto è buono, ha una storia solida che riesci a sviluppare perfettamente nelle battute date. Non ci sono parti tronche, né riempitivi e direi che è già un gran buon risultato. Significa aver pensato a una storia che entri nei caratteri dati. Senza lasciare parti in sospeso o tagli raffazzonati.
L’evento epocale è un po’ tirato per i capelli, nel tuo universo Jupiter è la normalità, l’evento epocale sarebbe la sua creazione, o la sua distruzione. Sarebbe stato epocale veder partire la ribellione e un uomo “liberato” dal sistema non basta.
Il momento imbarazzante non l’ho proprio trovato.
Così a occhio e croce credo che una manganellata in faccia crei qualche danno in più di un semplice indolenzimento e rossore, il narratore avrebbe dovuto quanto meno vedere il formarsi dei lividi, gonfiore, se non addirittura sangue e denti saltati. La voce di Jupiter che ricorda il numero di ore lavorative la trovo utile solo al lettore, e nemmeno troppo, considerando che ce lo ripeti altre tre volte nel corso della storia. Anche perché poi, non è nemmeno così consueto, visto che il protagonista né lavora dieci.
Sei scivolato/a via dal punto di vista in due o te occasioni, niente di irrimediabile, sembrano più sviste, dettate dal guardare la scena da esterno e non in prima. Al volo, mi viene in mente la descrizione della lacrima che si infila nelle rughe e poi scivola nella barba. Vero che il pov può sentirla scivolare nella barba ma, al tatto, capire che sia nel solco di una ruga o nella pelle liscia è impossibile. Un altro punto è quando sta per scappare e sente comunque l’altoparlante. Da come lo avevo immaginato io, era qualcosa che echeggiava negli appartamenti, tipo Squid Game, per intenderci. O quando vede sua figlia l’ultima volta. Se vede la spilla, non può vedere il livido sulla nuca, a meno che lei non abbia fatto una piroetta dimostrativa.
Tolte queste due stupidaggini è un buon pezzo, il tormento di questo padre è palpabile e forte. L’ambientazione buona e ben resa e i personaggi, i due con cui abbiamo a che fare sono ben caratterizzati.
Non capito per quale motivo la suora si decida solo alla fine a confessare la propria appartenenza alla resistenza, visto che aveva capito già da un po’ che poteva fidarsi di lui, ma è un dettaglio.
La scena finale perde un minimo dell’effetto che avrebbe dovuto avere se mi sforzo di immaginare questo tipo che cerca di far centro in un punto imprecisato sulla nuca dell’uomo che ha assalito. Secondo me, se sposti il chip di Jupiter sul lato del collo ti eviti un sacco di problemi, compresa la piroetta di Kate.
Mi è piaciuto parecchio l’ambiente, nonostante tu abbia descritto poco, l’agglomerato, o comunque le palazzine popolari erano ben visibili. Era chiaro il degrado, la povertà e anche la paura celata dietro l’angolo. Un ottimo lavoro di ambientazione. Io me lo sono immaginato tipo quei palazzoni giganti, nei quartieri più poveri di Seoul. Ok, ultimamente guardo troppe serie coreane, ma il senso è che hai reso davvero bene la parte visiva.
Quindi a conti fatti, un gran bel brano, ovviamente perfettibile.


Per delle aringhe salate di Leonardo Pingeri
Ben trovato! Accidenti, piacevole come un film in costume con Giuliano Gemma, e per me, è un complimento.
Mi ha divertito davvero il tono scanzonato del tuo protagonista, soprattutto il fatto che non è di per sé un racconto ironico, è il tuo protagonista che ha un’ironia e soprattutto un’autoironia incredibile.
Veniamo ai bonus, l’incendio del 64 è senza dubbio un avvenimento epocale, ma anche se posso sforzarmi nel trovare l’imbarazzo nella fustigazione delle terga, non trovo proprio il tormento. Abbiamo un accenno al taglio dell’orecchio e al suo passato da barbiere, che non raggiungono però mai, il tormento vero e proprio.
Il tono scanzonato alle volte ti prende la mano e quindi troviamo un “oddio” in un protagonista non cristiano e un “oh dei” in minuscolo. Finché raggiungi il massimo con un “ok”. Mi sta bene usare mutande al posto del subligaculum, anche se poi il mantello lo chiami sagum. Mi sta bene usare imprecazioni odierne, come “cazzo” in mancanza di una più adatta, ma “ok” va oltre ogni possibile appiglio.
All’inizio il narratore parla del grande carro, pur sapendo che i romani conoscevano le costellazioni, non so se fossero alla portata di tutti, anche se il barbiere (quello di Tigellino addirittura) era un mestiere particolarmente apprezzato e ben pagato. Ma soprattutto non so se lo chiamassero grande carro. Ho un vago ricordo di qualcosa di assimilabile a Callisto, ma, se non ne sei certo (e qui puoi saperlo solo tu) userei un più vago “stelle”.
Nelle primissime righe esci dal pov, lui SENTE i passi che si allontanano, poi VEDE dove il pretoriano va a coricarsi. Da come lo avevi messo all’inizio, e soprattutto considerando che lui era incaprettato al contrario, sembrava che non potesse vederlo.
Ho qualche dubbio sul risarcimento, non sul fatto che ce ne sarebbero stati, quanto sul fatto che il mercante lo sapesse, ancor prima che l’incendio fosse domato. L’incendi durò giorni, l’imperatore Nero non era nemmeno a Roma e non era accaduto nulla di così catastrofico negli anni precedenti, come faceva il mercante a sperare in un rimborso? Mi toglierei d’impaccio, facendogli cercare dei documenti di qualsiasi altro tipo. Atti di proprietà, per esempio.
La scusante del vetro acuminato mi stona. Sì, i romani avevano vetri alle finestre e ampolle per gli oli, ma non credo che nelle taverne si usassero stoviglie in vetro. E dubito che si scatenassero risse durante i banchetti a casa di qualche importante domino. Quindi mi terrei la rissa come scusa, ma userei una qualsiasi lama.
Detto questo è un buon racconto. Ironia, azione e drammaticità sono ben dosati e leggerlo è stato piacevole.
Anche tu riesci a creare una buona storia, credibile e completa nei caratteri giusti.



Ora le dolenti note, sì perché entrami sono degli ottimi lavori e io sono qui, da un paio d’ore a cercare di capire a chi dare il mio voto. È la prima volta che mi capita, qui alla Sfida di dovere tanto arrovellarmi il cervello nella scelta di un vincitore.
Entrambi hanno trame solide, ottimi spunti, ottima caratterizzazione dei personaggi e una buona immersività.
A questo punto, è passata ancora una buona mezz’ora sono costretta a votare di pancia, perché sul piano tecnico, ho davvero poco da recriminarvi e i lavori sono entrambi meritevoli. Mi sarei “attaccata” ai bonus, ma anche lì, chi da un lato, chi dall’altro avete sbagliato e centrato in misura eguale.
La mia pancia e la mia passione per le ambientazioni di epoca romana, mi hanno portato a premiare il racconto PER DELLE ARINGHE SALATE, ma ci tengo a dire che Jupiter mi è piaciuto davvero molto.
Complimenti a entrambi.
Polly

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Leonardo Pigneri
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Re: Semifinale Polly Russell

Messaggio#5 » lunedì 27 settembre 2021, 13:19

Grazie mille Polly per il commento!

Mi trovo in pieno accordo con tutto quello che hai segnalato. Quando mi sono accorto di quell' "ok" ho dovuto resistere all'istinto di prendermi a schiaffi xD
Tutti i commenti di natura storica inoltre sono azzeccatissimi e avrei dovuto fare più ricerca su diverse cose.
Grazie anche per gli apprezzamenti e per il voto!

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