Effetto droste
Inviato: martedì 22 marzo 2022, 0:48
Effetto Droste di Gabriele Loddo
La soneria del telefono intona il riff di Zitti e buoni dei Maneskin. Frattura il silenzio che pervade il buio della stanza. Muovo il braccio verso il comodino e cerco lo schermo del cellulare. Riesco a stoppare il suono della chitarra elettrica e quello ritmato del rullante. Il braccio è intorpidito: devo smetterla di dormire con l’arto dietro alla testa. Okay, in questo modo raggiungo la migliore posizione per sprofondare nel mondo dei sogni ma, al risveglio, il dolore alla spalla mi uccide. Tra l’altro i Negroni sbagliati di ieri sera fanno vorticare la stanza nella testa.
Possibile? Ho trentasette anni e ancora non ho imparato che dopo la domenica hanno infilato i lunedì. Che devo lavorare e che bisognerebbe evitare di fare cazzate il giorno prima. Che la domenica non è festa ma il preludio alla morte. Il miglio verde che conduce alla sedia elettrica, la sirena d’allarme il cui lampeggiante preavvisa con luci rosse e rotanti che il tuo bunker è sotto assedio.
Un rigurgito acido sottolinea la mia gioia.
Sposto la pianta del piede sul pavimento e inforco le ciabatte. Non sto comodo, oppure dovrei tagliare l’intero alluce insieme alle sue unghie. Ho invertito le calzature. Anche loro si oppongono a questo maledetto lunedì. Vado al bagno.
Un brutto ceffo mi osserva dallo specchio. Ha occhi gonfi, lingua impastata e barba incolta. Com’è potuta crescere così veloce? L’ho fatta sabato. Comunque può aspettare: benedetto smart working, sempre sia lodato. Lunedì e martedì lavoro da casa, mercoledì call aziendale (rasatura, camicia stirata, cravatta con pantaloni della tuta da ginnastica o boxer mutanda), giovedì e venerdì bla bla bla. Alzo il braccio, muovo il palmo in segno d’arrivederci e saluto lo stronzo che mi schifa dallo specchio: «A mercoledì. Vedi di esserci». Ridacchio e gli do le spalle. Immagino mi abbia rivolto il dito medio.
Una vibrazione scuote la tasca della vestaglia: è il cellulare. Lo prendo.
Lo schermo lampeggia: ore sette e trenta. Sveglia, ritarda, interrompi. Devo averlo premuto male. Almeno, per questa volta, i Maneskin se ne sono stati zitti e buoni.
Apro l’anta della dispensa: «Desidero?» Guardo la scarsa offerta del ripiano.
«Il solito grazie! Quello del lunedì mattina», dalle labbra esce un leggero sbuffo. Prendo gocciole, succo alla pera, maalox e aspirina. Infilo tutto nel frullatore, seguo il giusto rapporto dei componenti, due sesti, due sesti, un sesto, un sesto, e lo avvio. Travaso il composto in un bicchiere a calice, aggiungo una cannuccia, un ombrellino da cocktail e mi rivolgo al forno: «Prosit!»
L’odore della decomposizione mi ricorda che devo azionare la lavastoviglie. Più tardi lo farò, ora devo vedere che vuole sto maledetto cellulare. Vibra ancora.
Ore otto. Sveglia, ritarda, interrompi.
Ma che ha? L’ho già disattivato due volte. Oppure…
«Sono in ritardo! Ma perché la domenica tolgo la soneria?», urlo che interrompo i sogni mentre mi alzo. La stanza gira attorno alla testa e la spalla pulsa dal dolore e il lunedì inizia.
La soneria del telefono intona il riff di Zitti e buoni dei Maneskin. Frattura il silenzio che pervade il buio della stanza. Muovo il braccio verso il comodino e cerco lo schermo del cellulare. Riesco a stoppare il suono della chitarra elettrica e quello ritmato del rullante. Il braccio è intorpidito: devo smetterla di dormire con l’arto dietro alla testa. Okay, in questo modo raggiungo la migliore posizione per sprofondare nel mondo dei sogni ma, al risveglio, il dolore alla spalla mi uccide. Tra l’altro i Negroni sbagliati di ieri sera fanno vorticare la stanza nella testa.
Possibile? Ho trentasette anni e ancora non ho imparato che dopo la domenica hanno infilato i lunedì. Che devo lavorare e che bisognerebbe evitare di fare cazzate il giorno prima. Che la domenica non è festa ma il preludio alla morte. Il miglio verde che conduce alla sedia elettrica, la sirena d’allarme il cui lampeggiante preavvisa con luci rosse e rotanti che il tuo bunker è sotto assedio.
Un rigurgito acido sottolinea la mia gioia.
Sposto la pianta del piede sul pavimento e inforco le ciabatte. Non sto comodo, oppure dovrei tagliare l’intero alluce insieme alle sue unghie. Ho invertito le calzature. Anche loro si oppongono a questo maledetto lunedì. Vado al bagno.
Un brutto ceffo mi osserva dallo specchio. Ha occhi gonfi, lingua impastata e barba incolta. Com’è potuta crescere così veloce? L’ho fatta sabato. Comunque può aspettare: benedetto smart working, sempre sia lodato. Lunedì e martedì lavoro da casa, mercoledì call aziendale (rasatura, camicia stirata, cravatta con pantaloni della tuta da ginnastica o boxer mutanda), giovedì e venerdì bla bla bla. Alzo il braccio, muovo il palmo in segno d’arrivederci e saluto lo stronzo che mi schifa dallo specchio: «A mercoledì. Vedi di esserci». Ridacchio e gli do le spalle. Immagino mi abbia rivolto il dito medio.
Una vibrazione scuote la tasca della vestaglia: è il cellulare. Lo prendo.
Lo schermo lampeggia: ore sette e trenta. Sveglia, ritarda, interrompi. Devo averlo premuto male. Almeno, per questa volta, i Maneskin se ne sono stati zitti e buoni.
Apro l’anta della dispensa: «Desidero?» Guardo la scarsa offerta del ripiano.
«Il solito grazie! Quello del lunedì mattina», dalle labbra esce un leggero sbuffo. Prendo gocciole, succo alla pera, maalox e aspirina. Infilo tutto nel frullatore, seguo il giusto rapporto dei componenti, due sesti, due sesti, un sesto, un sesto, e lo avvio. Travaso il composto in un bicchiere a calice, aggiungo una cannuccia, un ombrellino da cocktail e mi rivolgo al forno: «Prosit!»
L’odore della decomposizione mi ricorda che devo azionare la lavastoviglie. Più tardi lo farò, ora devo vedere che vuole sto maledetto cellulare. Vibra ancora.
Ore otto. Sveglia, ritarda, interrompi.
Ma che ha? L’ho già disattivato due volte. Oppure…
«Sono in ritardo! Ma perché la domenica tolgo la soneria?», urlo che interrompo i sogni mentre mi alzo. La stanza gira attorno alla testa e la spalla pulsa dal dolore e il lunedì inizia.