Abisso

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Andrea Furlan
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Abisso

Messaggio#1 » domenica 24 aprile 2022, 16:03

Apro gli occhi, svegliato da un rumore.
Sopra di me ci sono catene scure appese al soffitto. Tintinnano, mosse da un alito di vento.
Mi guardo attorno: l’ambiente è piccolo, sporco, senza finestre, illuminato male da un’unica lampadina. Pareti di sasso, infiltrate d’umidità, concrezioni bianche e ragnatele. Sono sdraiato su un vecchio tavolaccio di legno, reso liscio dall’uso, dal tempo.
Ancora quel rumore.
Vento? Come può esserci vento in una vecchia cantina?
Luna, dove sei?
Le domande svaniscono in mezzo a frammenti di ricordi, pensieri nebbiosi.

La prima volta che l’ho vista ero a Firenzuola, al Bar di Sopra.
È entrata in punta di piedi, da sola, chiedendo qualcosa a bassa voce. Come se fosse trasparente, nessuno le ha parlato.
Ho notato subito i suoi capelli lisci, biondi, così particolari. Poi ho capito che erano quasi bianchi, quando li ho avuti fra le dita.
Si è girata e di sfuggita ho visto i suoi occhi azzurri, chiari come una lastra di ghiaccio. Poi se n’è andata in fretta, senza salutare. Lo sguardo mi è caduto in basso: il sedere era snello, sottolineato dai pantaloni neri, aderenti come una seconda pelle.
«Chi era?»
L’ho detto a tutti e nessuno. I miei amici, o meglio colleghi uniti da una solitudine comune, stavano giocando a carte. Non si sono scomodati, troppo concentrati fra un settebello e una scopa.
«Quella? È Luna. Una tipa che è meglio perderla che trovarla. Qui in paese la conoscono tutti, ma non le parla nessuno.» Marzia, la cameriera, è comparsa all’improvviso. Si è abbassata in avanti, mostrandomi la scollatura: «Grandi maschi romagnoli quando parlano davanti a un bicchiere di vino, ma hanno una paura dell’anima. Sono solo dei cacasotto.» Poi è scappata con il vassoio in mano e un sorriso sulle labbra rosse, sculettando fra i tavoli.

Mi alzo dal tavolo, la testa che gira, devo fermarmi un attimo.
Quando riesco a scendere, incerto sulle gambe, mi accorgo che indosso solo i pantaloni, niente camicia, né scarpe. Dolore al petto, a livello delle costole.
Tagli.
Tanti tagli paralleli mi solcano il torace. Il sangue è colato ai lati, ma si è rappreso.
Guardo il tavolo su cui ero sdraiato: è pieno di macchie scure che si confondono, talmente consumato da non avere nemmeno una scheggia.
Un capogiro mi costringe ad appoggiarmi per non cadere.
Dove sono?
Luna, dove sei?

«Fra, tutto a posto? Te l’ho detto, gli altri abitano tutti vicini: Bologna, Firenze, qualcuno in Romagna. Lo sai che sono l’unico di Milano. Ho appena controllato le previsioni e sono pessime, non so che fare: ho paura di non riuscire a tornare lunedì mattina. Dobbiamo iniziare una nuova perforazione e devo proprio esserci.» Sto parlando al telefono fisso del cantiere: un tira e molla che va avanti da quasi un’ora.
«Si certo. Hai ragione, è meglio non mettersi in macchina con questo tempo. Qui nevica già, ci saranno almeno quindici centimetri. Domani li porterò al parco col bob, sono eccitatissimi, è tutta sera che me lo chiedono.» Ho sentito gridare i bambini in sottofondo. Il tono di Francesca era quello di quando è arrabbiata ma non può sfogarsi. Stanco, teso, rassegnato. Avrei preferito che si arrabbiasse, convincendomi a rientrare.
«Dai Fra, sarai stanca morta. Adesso mi preparo e parto.» Lo dico senza grande convinzione.
«Lascia stare. Ci sentiamo presto, ciao.» La sua voce gelida è stata sovrastata dalle urla. Ha riattaccato, lasciandomi solo nel silenzio fra emozioni contrastanti: voglia di passare un week end tranquillo, da solo, senza dover affrontare il traffico come ogni venerdì sera. Ma anche preso dal senso di colpa, sapendo che il fine settimana successivo me l’avrebbe fatta pagare.
Quella notte non ho dormito bene: la baracca scricchiolava, sferzata dal vento, con mille spifferi che entravano sotto le coperte. Le parole di Francesca, le urla dei piccoli mi rimbalzavano nella testa.
Mi sono alzato presto, ho visto occhiaie profonde nello specchio del bagno e fissato i trenta centimetri di neve caduti alla notte, mentre bevevo un caffè.
Ci ho messo poco a liberare la macchina per scendere a Firenzuola, poi ho trovato la strada sgombra: i piccoli vantaggi di lavorare in un cantiere. Come sempre ho messo la musica alta, la cassetta con i gruppi grunge che preferisco: Nirvana, Soundgarden, Pearl Jam. Per un attimo non ho più pensato a loro, mentre cantavo.
Nonostante la neve, il mercato era in piena attività: le bancarelle c’erano quasi tutte, i clienti pure. Ho comprato qualcosa qui e là, ero pronto per rientrare e non muovermi più.
L’ho vista passare: piumino nero, capelli biondi lisci. Irreali sul paesaggio bianco. Andava di corsa verso la piazza. Evitando le persone, l’ho seguita, perdendola.
Stavo per rinunciare, la gente cominciava già a guardarmi strano: un estraneo che cercava qualcosa, o qualcuno. Poi l’ho vista uscire dalla macelleria, allontanarsi dandomi le spalle. È salita su una vecchia Clio bianca, si è avviata verso Firenze.
Sono corso al mio pick up, ho preso la stessa direzione. In pochi minuti ho visto la sua macchina salire i primi tornanti, scivolare. Dietro a una curva, era ferma in piedi in mezzo alla strada, il muso dell’auto affondato in un cumulo di neve.
«Serve aiuto?» L’ho detto in modo cordiale, abbassando il finestrino.

Quando sto meglio, mi avvicino alla porta di legno, quella di cui ho un vago ricordo.
È robusta, chiusa dall’esterno: per quanto tiri non si muove di un millimetro. Forse qualcuno mi ha rapito, chiuso qui sotto, torturato.
Luna, dove sei?
Vorrei chiamarla, gridare. E se fosse stato tutto un sogno?
Il vento.
Solo girandomi noto l’altra porta: legno vecchio, nessuna serratura. È aperta, la corrente d’aria la fa muovere.
Mi avvicino inquieto, sbirciando dalla fessura.
Buio.
Apro, svelando una scala che scende. Sembra intagliata nella roccia: sfioro la parete del passaggio e la riconosco. Squame lisce, grigie, taglienti, che riflettono la luce. È selenite, il minerale del gesso.
Nozioni studiate da ragazzo mi tornano in mente: il gesso forma un sistema carsico, doline, grotte, cunicoli.
Incerto, scendo sul primo gradino.

I nostri passi silenziosi nella neve.
Luna è davanti. Apre il cammino nella coltre inviolata e io la seguo, il suo sacchetto della spesa che mi taglia la mano.
Camminiamo da un bel po’ nel bosco, comincio ad avere freddo. Mi chiedo se avessi dovuto lasciarla sulla strada.
«Abito là.» La sua voce sembra più forte nel silenzio del bosco bianco.
Dietro una curva intravedo una vecchia casa di sasso, come se ne trovano tante sull’Appennino. È tenuta male, soffocata dai rovi. Le finestre sono buie, l’unico segno di vita è il fumo che esce dal comignolo.
Il bosco termina, la strada compie un’ampia curva: circonda una larga depressione a forma di imbuto che sprofonda nel terreno. Attorno, creste di roccia e macchie di alberi spogli, neri e scheletrici.
Quando arriviamo, Luna apre la porta, accende la luce: compare un soggiorno normalissimo. Divano, televisione, caminetto.
Mi prende il sacchetto senza guardarmi, fa per entrare. Poi si volta come per un ripensamento.
«Grazie per avermi accompagnata. Vieni dentro? Ti offro qualcosa di caldo.»
Ho esitato, guardando la neve che cadeva.
Il vento si è alzato all’improvviso, gettandomi spilli ghiacciati in faccia. Mi ha portato la voce di Francesca, fra le grida dei bambini: «Lascia stare. Ci sentiamo presto, ciao.»
Sono entrato dietro di lei.

In cima alla scala, cerco di sondare il buio. In lontananza mi sembra di vedere una luce fioca.
Il gesso è freddo, mi ferisce i piedi nudi. Avanzo con cautela, confortato dalla luce che aumenta d’intensità. Un lungo corridoio, una svolta a gomito.
L’aria diventa gelida, mi blocco, impaurito.
Sono in cima a un pozzo irregolare profondo almeno venti metri, con una scala sul lato. È illuminato sul fondo da una luce intensa. Un basso parapetto di metallo forma una minima sicurezza, come una sorta di via ferrata di alta montagna.
Non posso fare altro che scendere, tenendomi le braccia attorno al petto nudo, unico riparo che ho contro il freddo umido.
Mi accorgo che altri passaggi scuri compaiono lungo la scala, in uno noto un grosso cavo elettrico scendere fino alla lampada.
Poi arrivo in fondo dove trovo uno strato di fango, freddo e viscido.
Luna, dove sei?

Sistema le cose che ha comprato in paese nella cucina, ne approfitto per curiosare in giro.
Guardo i quadri alle pareti: uno mi incuriosisce perché ritrae un’immagine famosissima, che in questa casa sembra del tutto fuori posto. Sfondo nero, un uomo in tuta spaziale sta in piedi sul suolo grigio, di fronte a una bandiera americana. Louis Armstrong, il primo uomo sulla luna.
Di fianco, una vecchia foto sbiadita: un gruppo di persone in vestiti ampi, colorati, tutti con i capelli lunghi. Sono felici, sorridono, tengono in braccio due fagotti, sembrano bambini appena nati.
«Siamo noi, io e il mio gemello: sono nata il 20 luglio 1969 nei boschi qui attorno. Nel resto d’Italia tutti ascoltavano la telecronaca di Tito Stagno, sognavano la meraviglia della conquista dello spazio. I nostri genitori sono rimasti colpiti dal fatto che siamo nati in quel giorno così particolare: hanno voluto chiamarci Luna e Sirio.»
«Incredibile. Il tuo nome è perfetto.» Sorrido, ricambiato. Quanto vorrei accarezzarle il viso. «Ci sono anche loro in quella foto?»
«Sì, sono quei due. Sono morti anni fa, ma allora vivevano qui in montagna con i loro amici. Erano dei tipi un po’ particolari, lo puoi capire dai loro abiti: avevano deciso di vivere lontani dalla civiltà, in armonia con la natura, fondando una specie di Comune. Si facevano chiamare Elfi delle grotte, siamo cresciuti con loro.»
Luna mi ha parlato tranquilla, poi mi ha passato un bicchierino, dall’odore sembrava grappa. «Tieni, per scaldarti, la faccio io.»
Ha bevuto prima lei. Poi senza pensare ho buttato giù d’un fiato.

In fondo al pozzo si aprono tre passaggi, tutti bui. Ma il cavo elettrico sparisce in quello centrale, lo seguo.
Dopo un paio di svolte divento inquieto in mezzo al buio, cercando di non pensare al fango che sento fra le dita. Sbatto con un ginocchio contro una roccia, continuo più attento, con le braccia avanti. Poi in fondo vedo un’altra luce.
«Luna, dove sei?» Lo pronuncio a bassa voce, come un sospiro di sollievo.
Avanzo con cautela, finché sento delle voci.
Sembrano diverse persone che parlano in lontananza. Il loro tono si alza e si abbassa, mi stordisce mentre cerco di afferrare cosa dicono ed evito di ferirmi avanzando nel passaggio.
Arrivo alla fine, sbircio dietro a una roccia, trattenendo il fiato.
Mi trovo sul lato di una grande sala: ci sono almeno dieci persone che parlano sedute a un lungo tavolo. Sembra che stiano mangiando, hanno piatti, bicchieri e bottiglie sul tavolo.
Poi sento qualcosa pungermi in mezzo alle scapole, una voce tesa dietro di me.
«Fermo, figlio di puttana, mani dietro alla testa!»

Mi sono seduto sul divano, dopo aver bevuto più volte la grappa.
Lei mi guardava con un sorriso ambiguo, senza dire nulla. Per vincere l’imbarazzo ho cominciato a parlare del cantiere: non avevo più freddo, continuavo a bere, parlavo di perforazioni, tunnel, ponti e calcoli. Tutto il mio lavoro, senza dire nulla di Francesca e dei bambini.
Devo essermi addormentato.
Quando ho aperto gli occhi era vicinissima, gli occhi azzurri che mi fissavano. Ho sentito il suo corpo aderire al mio, la sua bocca sfiorarmi. Non ho potuto, non ho voluto resistere. Le sue labbra, la lingua, le mie mani su quella pelle dolcissima.
Dopo siamo finiti sul tappeto, al buio, davanti al caminetto. Mi mordeva, graffiava con le unghie e io l’ho presa con la stessa forza. Dolore, piacere, sapore metallico sulla sua pelle, lividi e tagli. L’ho scopata come non era mai successo con nessun’altra, esplorando ogni angolo del suo corpo.

Urlo di dolore, mentre mi spinge avanti, sento i piedi ferirsi sulle schegge di gesso, la punta penetrare nella pelle della schiena.
Tutte le persone sedute al tavolo balzano in piedi, allarmate.
L’uomo dietro di me mi afferra un braccio, mi spinge verso di loro fino a schiacciarmi la faccia di lato, contro il piano di legno. Posso vedere cosa stavano mangiando: bistecche, costate, macinato.
Tutto crudo, col sangue che forma pozze fluide nei piatti.

«Luna, dove sei?»
Mi sveglio confuso, cercandola con la mano. Sono sdraiato sul tappeto ruvido, davanti al caminetto.
La vedo muoversi in cucina: i suoi capelli lisci, biondi, quasi bianchi, profumati. Ha addosso una vestaglia grigia. So, o credo di sapere, che sotto è nuda.
«Arrivo, avevo fame.»
Quando torna, la mia mano le sfiora un polpaccio: seta pura, liscia. Lo afferro, la voglio vicino a me.
«Aspetta» dice ridendo «ecco, questo è per te.»
Ha preparato un solo piatto, mi allunga qualcosa che non riesco a vedere.
Mangio senza pensarci, ma mi fermo subito con una smorfia. Un sapore noto, metallico, sgradevole.
«Aspetta, piano. Fai così.» Solleva la mano sopra la sua testa, con la bocca aperta. Schiaccia, vedo gocce rosse comparire fra le dita, caderle sul viso.
Beve, le raccoglie con la lingua, poi mangia quello che ha in mano, soddisfatta.
Si avvicina, mi fissa. Conosco quello sguardo, ne ha ancora voglia.
La vestaglia nel movimento si apre, un piccolo seno costellato di lividi blu compare per un attimo.
La sua bocca larga, rigata di sangue. Non posso fare altro che baciarla, leccare tutto. Perdermi in lei.

Mi tiene fermo con la testa sul tavolo per un po’, il tempo giusto perché il ricordo della notte passata con Luna torni prepotente: è stata lei a portarmi nella cantina, mi ha tagliato, poi mi è salita sopra. L’ho penetrata, mentre mi leccava le ferite. Era tutto confuso, ma ora l’accaduto mi colpisce con la forza di un pugno in faccia.
«Basta, Sirio! Lo conosco, mi ha portato a casa dal paese: la mia macchina era rimasta bloccata nella neve. Lascialo stare.»
La sua voce inconfondibile, dietro di me. Provo sollievo: la sua presenza qui spiegherà tutto.
Vengo messo in piedi, un movimento brusco. Così lo posso vedere in faccia: un ragazzo giovane che le assomiglia, capelli chiari come i suoi, chiusi in una coda. Occhi neri, pozzi insondabili. Spalle larghe e fisico asciutto, abituato al lavoro, o alla lotta.
«Come cazzo ti chiami?»
«Stefano Ferri. Lasciatemi andare, vi prego. Non so perché sono qui, mi sono svegliato in una cantina lassù: l’unica via era scendere qui, la porta era chiusa.»
Sirio mi fissa, stringendomi un polso e minacciandomi con un coltello sotto al mento.
Luna intanto si è avvicinata, sembra preoccupata. Gli altri osservano in silenzio a distanza, espressioni neutre che non riesco a decifrare.
«Non hai la minima idea di dove sei finito, pezzo di merda? Devi essere forestiero, nessuno di Firenzuola verrebbe mai qui: lo chiamano il Passo dell’Osteria Bruciata, il posto dove vivono gli Elfi delle grotte. Si cagano sotto solo a sentirne parlare, i figli di puttana.»
«Ho detto di lasciarlo andare!»
«Silenzio, il casino l’hai fatto tu, portandolo qui. Come al solito devo rimediare i tuoi errori.» Lo dice con un tono arrabbiato rivolto verso di lei, ma poi torna a guardarmi. «Certo che non sai un cazzo, se fossi del paese avresti sentito la storia dei gemelli dell’Osteria, così ci chiamavano gli stronzi della scuola quando ci insultavano.»
«Non ne sapevo nulla, ho incontrato Luna al mercato, le ho dato un passaggio e-»
«Te l’ho detto, Sirio. Ci siamo conosciuti sulla strada, mi ha aiutato. La macchina non funzionava più.»
«E hai pensato di portarlo a casa mia? Te lo sei scopato? Devi solo stare zitta, puttana!»
«No ma cosa dici, non abbiamo fatto nulla.» Luna guarda in modo incerto sia il fratello che le altre persone.
«Tutte balle: se è arrivato qui sotto stamattina vuol dire che ha passato la notte con te. Da dove vieni pezzo di merda?»
«Io, non… Lavoro al cantiere, l’Alta Velocità. Ahhh!» La lama si è abbassata all’improvviso, tranciando il muscolo fra due costole, lasciandomi scioccato per il dolore.
«Lascialo stare, non c’entra niente. Non può capire.»
«Uno di quegli stronzi che scavano le nostre montagne. I nostri padri, i veri Elfi, non lo avrebbero mai permesso, avrebbero sabotato i cantieri, impedito questo scempio. È una vita che lo dico.» Ha sollevato il coltello, avvicinando la punta al mio occhio destro. Il mio stesso sangue è colato sulla lama, poi sull’impugnatura, fino a rigare la sua mano robusta. Si è fermato, leccando la goccia.
«Molto bene. Mia sorella se la fa con uno stupratore delle montagne e io dovrei lasciarlo stare. Hai un’idea di quanti animali sono scappati? Quante sorgenti avete deviato con i vostri scavi? Gli ettari di boschi che avete abbattuto per costruire i vostri cantieri?» Distoglie per un attimo l’attenzione da me, indica gli altri con la punta del coltello. «Guardali lì, i cosiddetti figli degli Elfi: siete solo capaci di mangiare la sacra carne durante i riti come se foste a cena in trattoria. Inutili.»
Non posso più rispondere, sento solo dolore, disperazione.
Fisso Luna, implorandola con lo sguardo di aiutarmi.
Lei rimane il silenzio per un po’, gli occhi nei miei: leggo indecisione, ansia. Guarda veloce le altre persone, poi la sua espressione cambia.
«E va bene, hai ragione. Dobbiamo darlo in dono all’Abisso, ormai ha visto troppo.»
Sirio si blocca indeciso, il coltello dimenticato. Gli altri sullo sfondo si guardano.
«Che diavolo stai dicendo? Lo verranno a cercare.»
«Le altre volte non è successo nulla. La Polizia ha cercato gli scomparsi senza trovarli. Nessuno verrà qui sotto se continuiamo a stare attenti, lo sai.»
Sirio la guarda con un’espressione diversa: vaga diffidenza mista a rispetto.
Uno degli uomini, più anziano degli altri, fa un passo avanti, annuisce.
«Allora è deciso: Luna, devi portarlo tu all’Abisso, da sola. È una tua responsabilità. Solo così l’ordine sarà ristabilito e non racconterà niente a nessuno. La montagna è stata violata: c’è bisogno di un sacrificio.»
Sirio sembra voler ribattere, ma poi accetta: «E va bene, così sia.»

Mi hanno legato le mani dietro alla schiena, bendato gli occhi con un pezzo di tessuto.
Camminiamo a lungo, in silenzio: immerso nell’oscurità, percepisco solo il dolore ai piedi, al petto. La mano asciutta di Luna che mi guida.
All’improvviso sento una corrente d’aria fredda. Vengo liberato, mi toglie la benda, ma il buio rimane.
Luna accende una torcia elettrica. Grido di paura: siamo sul bordo di un pozzo nero, da cui sale un forte vento.
Mi aspetto che mi spinga giù, invece rimane immobile: sembra combattuta, lacrime che le rigano le guance. L’istinto mi guida: l’unica cosa che posso fare è attaccarmi a lei, stringerla come un relitto nella tempesta. Resiste, prima cerca di spingermi verso il pozzo, ma poi risponde al mio abbraccio, solleva la testa.
Ci baciamo, l’accarezzo frenetico mentre la schiaccio contro la parete di roccia. La spoglio, incurante della paura, del dolore. Facciamo l’amore in piedi, diventando una cosa sola col buio.

Guido verso Firenzuola, sommerso da emozioni contrastanti. Mi ha curato, restituito i vestiti: ha detto che mi aspetterà, ma che devo fare presto.
Passo di fianco alla sua macchina, ancora bloccata nella stessa curva.
Mi sembra che fosse un’altra vita, non il giorno prima. Ero ancora un giovane ingegnere che voleva solo godersi un fine settimana solitario.
Entro in paese a bassa velocità. A sinistra c’è la stazione dei Carabinieri.
Ma vado dritto, prendo la strada per il cantiere, guidando piano.
Parcheggio, entro in mensa. Non voglio vedere i messaggi del telefono, certo che Francesca mi avrà cercato cento volte.
Come mi aspettavo trovo Paolo che ascolta le partite alla radio, una birra sul tavolo. È senza famiglia, di solito lavora da solo in un tunnel secondario: l’unico che non verrà cercato per lungo tempo.
Luna è stata ferma, ferrea: prima l’Abisso deve avere il suo dono, poi potremo scappare insieme.
«Paolo, senti, non vorrei disturbarti, ma avrei bisogno di te: una persona del paese è rimasta bloccata nella neve con la macchina. Potresti venire ad aiutarmi?»
«Certo Stefano, con piacere. Fammi prendere la giacca, arrivo subito.»
Luna, vengo da te.



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Andrea Furlan
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Re: Abisso

Messaggio#2 » domenica 24 aprile 2022, 16:07

Ciao a tutti,

ecco il mio racconto.

Ambisco a tutti i bonus:
Bonus 1 - Inserite un dialogo con almeno tre personaggi: il dialogo fra Stefano (il protagonista), Luna e Sirio verso la fine.
Bonus 2 - Un personaggio deve avere una frase ricorrente: "Luna, dove sei?" pronunciato e pensato da Stefano in diverse parti del racconto.
Bonus 3 - Ambienta il racconto in una città medio/piccola italiana: la vicenda si svolge a Firenzuola e dintorni, paese di circa 4000 anime in provincia di Firenze, al confine fra Emilia, Romagna e Toscana.

Buona lettura!

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Michael Dag
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Re: Abisso

Messaggio#3 » mercoledì 27 aprile 2022, 14:26

Ciao andrea!
Indiscutibilmente, l'horror c'è!
L'Incipit è agghiacciante e mi ha lanciato subito dentro la storia.
L'ambientazione è credibile e realistica, hai reso bene la quotidianità del paese.

Il protagonista, l'ho trovato un po' anonimo. Non che sia scritto male, ma ha una background senza infamia e senza lode, un povero cristo che si trova incastrato in una faccenda più grossa di lui. Forse avrei preferito che a raccontare questa storia fosse stato un emarginato, oppure un ragazzetto ingenuo, o un reduce di qualche sorta che ritrova la voglia di vivere. Allora si che l'innamoramento e la follia fino a uccidere un collega sarebbe stata davvero sentita. Ma anche da un padre di famiglia, mica me lo aspettavo, devo essere onesto.
Molto buono invece come hai descritto le emozioni e il fraseggio interiore.

La follia di sirio ti è riuscita bene, mi ha ricordato Vyseris del trono di spade ,anche per il rapporto con la sorella.

L'ambiente claustrofobico mi ha messo una certa ansia e la scena della cena di carne cruda mi è piaciuta. Ho notato anche la semina iniziale quando lui vede luna uscire dal macellaio.

I bonus, direi che ci sono tutti.

La cosa che più mi lascia perplesso però, è l'aderenza al tema. Mi pare molto, molto forzata.
Insomma, se la ragazza si chiamasse Sara/Giulia/Laura e fosse nata a febbraio/giugno/dicembre… farebbe differenza?

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Andrea Furlan
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Re: Abisso

Messaggio#4 » sabato 30 aprile 2022, 1:26

Grazie Michael del commento positivo: per me è già una vittoria il fatto che tu abbia percepito inquietudine e ti sia ritrovato preso dalla storia: questo è davvero il primo tentativo che faccio su questo genere.
Ho riflettuto sul fatto che hai trovato il personaggio anonimo e penso che tu abbia ragione. Per farlo entrare in questa storia avevo bisogno di un outsider rispetto a qualcosa che succede nel paese e che un po' tutti sanno, ma anche qualcuno che lo frequenta e ci vive a fianco. Forse avrei potuto caratterizzare meglio questo aspetto rendendolo piu tridimensionale, ci rifletterò.
Invece sull'appunto riguardo al tema non sono pienamente d'accordo: volevo creare una ragazza intrigante, che risveglia un'ossessione nel protagonista. L'idea del nome, dell'essere legata a un evento così particolare come lo sbarco sulla luna, l'appartenenza a una comunità misteriosa ai margjni della società e l'aspetto fisico dovevano andare in questa direzione, legando il suo personaggio al tema.

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Shanghai Kid
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Re: Abisso

Messaggio#5 » venerdì 6 maggio 2022, 15:16

Andrea, come sai dai commenti su Minuti Contati che mi è successo più volte di farti, io apprezzo molto la tua penna, anche se devo dire che in questa prova “l’ho un po’ sentita meno”, ma forse è il genere: sono abituata a leggere roba tua realistica.
La trama del racconto è buona e alcuni passaggi sono proprio tratteggiati bene, nulla da dire, sei bravissimo in questo. Tuttavia trovo i personaggi, forse Luna meno degli altri, un po’ “abbozzati”. Avrei cercato di dare più spessore sia al protagonista che a Sirio e avrei preferito approfondire un po’ il suo rapporto con la sorella, che resta ambiguo, ma poteva essere, a mio avviso, sfruttato meglio. Avrei anche voluto sapere qualcosa che “sporcasse” un po’ il protagonista, non so come spiegarlo diversamente. Qualcosa che lo umanizzasse in un modo diverso da quanto hai fatto. Non so spiegarmi, ma mi è parso in qualche modo bidimensionale (magari poi era voluto e non ho capito nulla io).
Anche io, come Michael, trovo che l’aderenza al tema sia un po’ tiratina.
In sintesi: il racconto è scritto bene e la trama è buona, ma non mi ha convinto pienamente.
Forse avresti avuto bisogno ancora di spazio in più, proprio per approfondire quanto ti ho segnalato.
La prova è quindi buona, ma, a mio avviso, non una delle tue migliori.
A rileggerti!
Elisa

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roberto.masini
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Re: Abisso

Messaggio#6 » venerdì 6 maggio 2022, 19:07

Ciao, Andrea.
Quello che secondo me difetta in questo racconto ben scritto è l'aderenza al tema. Ho trovato che i personaggi siano ben tratteggiati; anche l'ambientazione viene pennellata con efficaci aggettivi ma c'è più thriller e follia che horror vero e proprio.
La conclusione poi non mi ha convinto perché, anche se è oggettivamente sorprendente, mi è sembrata forzata.
Non mi convince neppure la frase ricorrente, che deve essere appunto una frase pronunciata molte volte che caratterizza il personaggio e non una domanda che il protagonista legittimamente si pone.
A rileggerci!

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