Semifinale Christian Santirana

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Christian Santirana

Messaggio#1 » sabato 7 maggio 2022, 22:40

Seconda parte di La Sfida Horror
Combattono in questa semifinale:

La matematica del dolore, di Alessandro Cannella
Fame siderale, di Michael Scattina

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: lunedì 9 maggio alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 9 maggio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Alessandro -JohnDoe- Canella
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Re: Semifinale Christian Santirana

Messaggio#2 » lunedì 9 maggio 2022, 12:58

La matematica del dolore
Alessandro Canella


G.K.: Oggi io e alcuni colleghi del JPL abbiamo visto Neil per la prima volta dopo la quarantena e — non so come dire — ha pianto. Cazzo, Marta, l’ho visto piangere. Lui!
M.K.: Doveva essere emozionato a rivedervi dopo tutto questo tempo.
G.K.: No, no, tu non capisci. Le sue non erano lacrime di gioia. Cristo Santo, il suo era terrore. Terrore puro!
Gene e Marta Kranz
12/08/1969
intercettazione telefonica


20/07/1969
Sua madre l’aveva detto il giorno in cui lei e Antonio avevano deciso di comprare un televisore: “Nina, facci quel che ti pare con quell’aggeggio, ma una cosa - una soltanto! - prometti: non mangiarci davanti, che il cibo è sacro.”
Nel vedere i resti della cena sparsi sul tavolino del salotto, Nina si fece il segno della croce. «Perdonami, ma’. Solo stavolta, promesso.»
Dalla cucina sbucò la faccia di Antonio, sigaretta alla bocca. «Che hai detto, amore?»
«Nulla nulla, parlavo con mia madre.»
«Che? Pure da lassù scassa ancora la minchia, quella?»
«Ma sta’ zitto, stai. E sbrigati, piuttosto, che stanno per atterrare.»
«Eh, arrivo.» Spumante in una mano e calici nell’altra, Antonio raggiunse Nina sul divano, dove per poco non fece cadere la cenere della sigaretta in uno dei bicchieri. «Ma non è che gli farà male lo spumantino?»
Nina si accarezzò il ventre gonfio. «A sti diavoletti? Macché, al massimo li calmerà un poco, che oggi son scatenati. Oh, guarda! Mi sa che ci siamo. Alza il volume!»
Antonio corse al Telefunken e girò la manopola dell’audio. La voce di Tito Stagno riempì la sala. «Cinque piedi e mezzo… due metri…» Un lampo bianco e la diretta scomparve, sostituita da un disturbo statico accompagnato da una serie di fischi intermittenti.
Nina si coprì le orecchie e strizzò gli occhi, senza però riuscire a staccarli dallo schermo. «Che fastidio, Anto’. Fa qualcosa!»
Antonio colpì il televisore con un sordo manrovescio e il segnale tornò.
«Ha toccato!» gridò Stagno.
Marito e moglie scoppiarono in un grido d’emozione e si abbracciarono.
«Lo spumante!» Antonio fece un passo indietro, ma dalle ciabatte giunse un rumore umido.
Nina si toccò tra le cosce. «Anto’, mi sa che ci siamo…»



Per quanto non sia ancora possibile disporre di un’analisi morfologica dell’entità, al prosieguo delle missioni la nostra conoscenza del suo metodo di comunicazione si è fatta via via più raffinata. Quelle che all’inizio apparivano quali semplici coincidenze numeriche, appaiono oggi come l’intelaiatura di una più complessa rete culturale che vede nella matematica non solo una base linguistica, quanto un vero e proprio culto religioso.
Philip Hart
28/12/1972
rapporto Missione Diplomatica Terra-Luna Apollo 17


15/07/2022
La lancetta del metronomo scandiva la seduta con andamento lento e regolare. Piegato in avanti sulla sua poltrona, il dottor Delio Costa tracciava con la penna sottili X sul blocco note, una a ticchettio.
Tic
Tac
Tic
Tac

Una voce di donna, aspra e lamentosa, giungeva ovattata alle sue orecchie.
Tic
Tac
Tic

«Ho provato a chiamarlo l’altra sera.»
Delio sollevò gli occhi dal taccuino. «Intendi tuo figlio?»
La signora Rizzo arrotolò l’ennesimo fazzoletto di carta attorno alle dita. «Sa cos’ha risposto? Che non abbiamo nulla da dirci. Capisce? Come posso cercare il dialogo se dall’altra parte ricevo solo schiaffi?»
Delio si tolse gli occhiali e pulì le lenti con la punta della cravatta. «Un dialogo non è solo uno scambio verbale, Livia.»
«Ma è stato lei, dottore, a dire che avrei dovuto fare io la prima mossa! E cos’ho ottenuto? Nulla!»
«E cosa te le fa pensare?»
L’orologio da polso di Delio emise un paio di bip.
«Sarò onesto, Livia: sono molto soddisfatto dei progressi compiuti. Non cerchi più lo scontro verbale a ogni costo; eppure, continui a mostrare i segni di una rabbia soltanto tenuta a freno.» Delio si alzò in piedi, subito imitato dalla signora Rizzo. «Capisco la frustrazione, ma provi ancora troppo dolore e ciò altera la tua percezione. È lì che dobbiamo a lavorare. Diciamo settimana prossima? Solito orario?»
La Rizzo annuì, i muscoli del collo rigidi, e si lasciò accompagnare fuori dallo studio.
Chiuso il portone, Delio appoggiò la schiena al legno con un sospiro.
«Giornata dura?»
Il caschetto nero di Lea spuntava sopra il bancone della reception.
Delio sbuffò. «Ti scongiuro, Lea, cambia facoltà, altrimenti tutto ciò che otterrai saranno adulti mai cresciuti convinti che l’universo non abbia altro interesse che sabotare le loro vite.»
Lea inarcò le sopracciglia in un’espressione colpevole mentre sollevava davanti al naso il Manuale di Psichiatria di Cassano. «Troppo tardi, temo. Penultimo esame.»
«Beh, non dire che non ti avevo avvisato.» Delio girò attorno al bancone e raggiunse la segretaria. «Messaggi?»
La ragazza porse un post-it. «Due. Sua madre voleva conferma del suo rientro per festeggiare il compleanno. Poi ha chiamato un certo ispettore Parisi di Messina.»
Delio prese il foglietto. Parisi… Il nome non gli diceva nulla, anche se in passato gli era capitato di collaborare con la Caserma Calipari come consulente per dei casi di profilazione.
«Ha chiesto di richiamarlo con urgenza» aggiunse Lea.
Delio annuì. «Lo farò. Tu goditi il weekend.»
La ragazza raccolse le sue cose. «Allora a lunedì, dottore.»
Delio la salutò con un sorriso. Rimasto solo, tornò nel suo ufficio e compose il numero al cellulare.
Un solo squillo e all’altro capo rispose una voce profonda e sicura di sé. «Ispettore Parisi.»
«Sono Delio Costa. So che mi ha cercato.»
«Dottor Costa, piacere di sentirla. Ho avuto il suo nominativo dal maresciallo d’Amico. Mi chiedevo se fosse ancora disponibile ad aiutare le forze dell’ordine per un’indagine.»
«Di che si tratta?»
«Meglio se glielo mostro.» Dalla cornetta giunse l’inconfondibile suono della tastiera di un computer. «Le ho girato un’email.»
Delio aprì il portatile e controllò la posta elettronica. Un messaggio recava come mittente Dipartimento Persone Scomparse Ministero dell’Interno.
«Passati 15 minuti l’email si cancellerà in automatico dalla memoria del computer e dal server» disse Parisi.
«Non ricordavo tale segretezza l’ultima volta che ho lavorato con la Polizia di Stato.»
«Il fatto è che vorremmo non trapelasse nulla ai media in questa fase delle indagini.»
Delio cliccò sull’allegato e scorse il file con la rotella del mouse. Le prime pagine erano occupate dalla scheda ante mortem dello scomparso: Luca Troini, 6 anni, originario di Scicli. Seguiva un elenco dettagliato di connotati, indumenti ed effetti personali indossati al momento della sparizione. Raggiunta la sezione dedicata alle foto del soggetto, Delio fermò il dito. Gli scatti ritraevano un uomo sulla sessantina, emaciato, la pelle grigia ricoperta da cicatrici e tagli, alcuni dall’aspetto di numeri e simboli geometrici.
Delio si schiarì la gola. «Chi ha mandato queste foto?»
«Le abbiamo fatte noi.» Ci fu una breve pausa. «Luca è stato ritrovato settimana scorsa.»
«Se è così, allora a cosa vi servo?»
«Semplice: vorremmo capire cosa gli è successo.»
Delio si appoggiò allo schienale della sedia. «Spiacente, ispettore, temo che la mia specializzazione non sia quella di cui avete bisogno. Se vuole posso—»
«Prima mi lasci fornire tutte le informazioni.» Ancora una volta Parisi fece una pausa. «Luca non sembra voler parlare con nessuno, se non con un gruppo selezionato di persone.»
«Che intende?»
«Intendo che l’interlocutore dev’essere nato il giorno esatto della sua scomparsa: 20 luglio 1969.»
«Ma è assurdo. Lui come… E anche voi, come l’avete scoperto?»
«Informazioni riservate.»
«Insomma, sta dicendo che la ragione per cui vi servo non dipende dalle mie competenze, ma dalla data del mio compleanno?»
«Comprendo che ciò possa risultare quasi offensivo, ma mi lasci aggiungere un tassello: Luca non è l’unico caso del genere avvenuto in questi giorni.»
«Ci sono stati altri ritrovamenti in Italia?»
«Non in Italia. Nel mondo.»
Questa volta fu Delio lasciare in sospeso il discorso.
«Ascolti, se la cosa le interessa, richiami entro domani e le fornirò ulteriori dettagli. E un’ultima cosa, dottore: se l’ho cercata non è soltanto per una mera casualità, mi creda. Spero di risentirla.»
Parisi mise giù, lasciando Delio solo con i suoi pensieri.
Un uomo che parla solo con chi condivide la data della sua scomparsa… Più di un caso nel mondo…
Cosa sarebbe accaduto alla sua vita se fosse riuscito a trovare la chiave di quel mistero?
Per un attimo rivide in testa il volto della signora Rizzo.
Prese il cellulare. «Ciao Lea. Scusa, ma ho urgente bisogno che tu disdica degli appuntamenti.»



Rintracciarli è stato più semplice del previsto. Entro la settimana invieremo il rapporto completo ai colleghi delle altre nazioni. Solo una domanda, Giulio: come possiamo essere sicuri che la chiave sia soltanto la data di nascita? E se ci stesse sfuggendo qualcosa?
Lucio Goggi
12/04/1973
comunicazione interna Ministero dell’Interno Governo Italiano


18/07/2022
«TRA CENTO METRI, SVOLTARE A DESTRA.»
Anche se da quasi mezz’ora non incrociava anima viva, Delio mise la freccia e scalò di marcia.
«Che hai detto, tesoro?» gracchiò sua madre dalle casse dell’auto.
«Nulla. Era il navigatore.»
«Ah, giusto. Quasi speravo che eri con una donna. Manco quello invece. Bello scherzo c’hai fatto.»
Delio svoltò su una strada sterrata che risaliva i monti Peloritani. «Quante volte devo chiedere scusa? E poi te l’ho detto: sono qui per lavoro. Se tutto va come dico io, potrebbe essere una svolta nella mia carriera.»
«Ma quale carriera, che già hai uno studio tutto tuo? E poi, “qui” dove, che manco vuoi dire dove sei?»
«Ma chi è? Quello sciagurato di mio fratello?»
Delio roteò gli occhi nel riconoscere la sorella. «Ciao Naomi.»
«Ciao una minchia! Ma non ti vergogni a fare sti dispetti ai tuoi poveri genitori? Da quando in qua si saltano i compleanni?»
«Naomi, abbiamo cinquant’anni. Non credo sia una tragedia saltarne uno.»
«Ma lo senti, ma’?»
«Rincitrullito è!» La voce di sua madre arrivava da lontano. Conoscendola, stava girando attorno alla stanza con le mani intrecciate che pregava la Madonna.
«Sentito, fratellino?»
«Smettila di chiamarmi così, che sono più giovane di nemmeno 10 minuti.»
«Povero cucciolo… Senti, eh: vedi di sbrigarti e di essere qui per il 20, altrimenti…»
Superato un tornante, Delio si ritrovò una camionetta dell’esercito con due soldati ai lati delle portiere a sbarrare il tragitto. «Ok, ok. Ora scusa, ma sono arrivato. Devo proprio lasciarvi. Dì a mamma e papà che gli voglio bene.»
«Ehi, non ho—»
Delio chiuse la telefonata e frenò l’auto a pochi metri dal posto di blocco.
Uno dei militari si avvicinò, mitra a tracolla. «Documenti.»
Delio prese il portafoglio ed estrasse la patente. «Sono qui su richiesta dell’ispe—»
«Scenda dall’auto, per favore, e consegni cellulare e qualunque altro apparecchio di comunicazione elettronica. Il collega l’accompagnerà a destinazione.»
Delio fece come ordinato. «Posso prendere la borsa?»
«Ci occuperemo noi di recapitare i suoi averi. La prego di seguire le istruzioni.»
Senza aggiungere altro, Delio consegnò quanto richiesto e salì a bordo del fuoristrada.
Il viaggio fu breve, poche centinaia di metri, fino alle prime case diroccate di Rajù. Una volta parcheggiato il mezzo, Delio fu fatto scendere. Dall’interno di una palazzina con appesa un’insegna arrugginita delle Poste comparve un uomo sulla sessantina vestito in borghese.
«Dottor Costa, piacere di conoscerla. Sono l’ispettore Parisi.»
I due si strinsero la mano.
Delio si guardò attorno. Il borgo risultava in stato d’abbandono, con ciottoli e vetri rotti lungo i margini delle strade. «Insolito come luogo di ritrovo.»
Parisi prese a salire una stradina che portava a delle casette a due piani affacciate sul torrente Fantina. «Rajù è stato abbandonato nel ‘72, lo stesso anno dell’ultima missione Apollo.»
Strano accostamento di pensiero, pensò Delio.
«Tuttavia non è così morto come potrebbe sembrare. L’area è spesso utilizzata per esercitazioni militari, oltre a operazioni che necessitano la massima discrezione. Ecco, ci siamo. Il soggetto si trova all’interno.»
I due superarono un muricciolo ed entrarono in una delle abitazioni. Nonostante fosse ancora primo pomeriggio, una serie di lampade collegate a un gruppo elettrogeno illuminava i locali. Parisi indicò alcune telecamere installate gli angoli della stanza. «Durante l’operazione si troverà sotto stretta sorveglianza. Al primo cenno di pericolo, i miei uomini sono pronti a reagire.»
Delio fissò l’ispettore. «Pericolo? Intende dire che non sarete presenti?»
Parisi scosse la testa. «Come detto al telefono, il soggetto non interagisce con chiunque.» Si avvicinò a un tavolo sopra il quale era poggiato un raccoglitore. Lo passò a Delio.
Lo psichiatra scorse le pagine, tutte dense di numeri e formule matematiche. «Di che si tratta?» Nel rialzare lo sguardo dai fogli notò che Parisi si era aperto la giacca, facendo intravedere l’arma d’ordinanza. «Che succede qui?»
Parisi si avvicinò all’ingresso. «Dottor Costa, da questo momento non si consideri più uno psichiatra. Si limiti a leggere quelle informazioni al soggetto e tempo un paio di giorni tutta questa storia sarà soltanto un ricordo. Mi spiace averla dovuta coinvolgere in questo modo, ma mi creda: sono stato costretto. Lo siamo tutti.» Senza aggiungere altro, Parisi uscì dall’abitazione.
Attraverso le finestre, Delio vide l’ispettore — o chiunque fosse davvero — ridiscendere la stradina da cui erano arrivati. Si guardò attorno: una dozzina di soldati si aggiravano tra le viuzze di Rajù. Fuggire sembrava fuori discussione.
Gli occhi caddero sul raccoglitore, ancora stretto tra le mani. A piccoli passi, Delio si affacciò a ognuna della stanze comunicanti con l’atrio, tutte vuote, anche se l’ultima dava su una scala che conduceva al piano superiore.
Nell’appoggiare il piede sul primo gradino, si domandò quanti secondi avrebbero impiegato i militari a raggiungerlo nel caso si fosse messo a urlare. Si augurò di non doverlo scoprire.
Raggiunta la cima, si ritrovò in uno stretto corridoio. Al lato opposto un uomo era in piedi di spalle, immobile.
«Luca?»
Nessuna risposta.
Delio si asciugò la fronte con la manica della giacca. «Mi chiamo Delio. Delio Costa. Sono qui per aiutarti. Ti va di parlare?»
L’uomo all’altro capo del corridoio si girò. Le lampade ne illuminarono il petto nudo. Viste dal vivo e a pochi metri di distanza, le ferite sembravano più numerose rispetto alle foto. Anzi no, lo erano, con alcuni tagli tanto recenti da grondare ancora sangue.
«Ti sei fatto tu quelle ferite?»
Luca piegò la testa di lato. «Calcolo errato, inserire dati.»
Delio mostrò il raccoglitore. «Ti riferisci a questi? Vuoi che ti legga questi numeri?»
L’altro non rispose.
Delio inspirò a pieni polmoni e aprì la copertina. Si partiva da semplici tabelline e dimostrazioni matematiche del sistema decimale, tutte nozioni insegnate alle elementari. Via via che le pagine avanzavano, le informazioni si facevano però più complesse: equazioni, logaritmi, principi di fisica e chimica…
Delio iniziò a leggere.



Invero, per quanto alto sia stato il prezzo in termini umani, in che modo chiunque di noi, politico o santo che sia, avrebbe potuto opporsi?
Mariano Rumor
08/11/1974
note private al Trattato Interspecie Luna Novum


18/07/2022
«Legge di Lavoisier: in una reazione chimica, che avviene in un circuito chiuso, la somma delle masse dei reagenti è uguale alla…» Delio chiuse il raccoglitore e alzò lo sguardo. A pochi metri di distanza, Luca lo fissava in piedi, fermo nella medesima posizione del giorno prima. «Non funziona, vero?»
Le labbra dell’uomo tremarono per qualche secondo. «Calcolo errato, inserire dati.»
Delio prese un lungo respiro e, lasciato il raccoglitore a terra, si avvicinò a Luca. «Che significano questi numeri? Perché te li sei fatti?»
I due si guardarono negli occhi, anche se per Delio era difficile stabilire quanto quel gesto fosse cosciente da parte dell’altro. «Posso?» Gl’indicò il braccio destro, ricoperto da una complessa ragnatela di cicatrici a forma di triangoli, cerchi e linee.
Luca non rispose e così Delio fece per prendergli la mano, ma non appena si sfiorarono, l’altro gli afferrò il polso e con le unghie della sinistra incise un taglio sul dorso. Delio arretrò e nel farlo cadde sul pavimento, sollevando un gran polverone. Preso dal panico, si spinse indietro con i piedi, fino al bordo delle scale.
Luca avrebbe potuto raggiungerlo con pochi passi, eppure rimase immobile.
Ripreso il controllo del corpo, Delio si rimise in piedi. Fece per riavvicinarsi a Luca, ma un grido attirò la sua attenzione. Si avvicinò a una delle stanze laterali, lanciando a ogni passo rapide occhiate a Luca.
Una volta dentro, nella penombra della sera, notò attraverso la finestra che anche le altre case di Rajù erano illuminate.
Un altro grido, senza dubbio proveniente dall’abitazione limitrofa.
In una delle stanze del secondo piano si vedevano due persone, una donna vestita in tailleur e un uomo calvo all’apparenza ricoperto dalle medesime lacerazioni di Luca. Quest’ultimo teneva bloccata la mascella della donna, mentre con la mano libera le incideva la fronte.
Nel vedere la scena, Delio corse al piano terra, fino all’ingresso della casa.
I militari erano ancora lì, pronti a far fuoco. La cosa non gl’importava. Con le mani in alto, si sedette a terra dando loro le spalle, gli occhi fissi in direzione delle scale, e lì rimase per l’intera notte pregando per la sua protezione.



Stabilito il contatto, in che modo è avvenuta la conversazione?
B.A.: Attraverso l’unico linguaggio comune in tutto l’universo: la matematica.
E non l’ha mai preoccupata che ciò potesse portare a incomprensioni?
B.A.: Perché mai? Sono un ingegnere meccanico. So fare di calcolo.
Buzz Aldrin
02/08/1969
interrogatorio post missione Apollo 11


19/07/2022
«Le vostre cazzo di lezioncine non funzionano!» Delio lanciò il raccoglitore contro una parete.
Di fronte a lui, Parisi teneva le braccia incrociate, impassibile.
«Ho letto ogni singolo numero, ogni formula. E sa cos’ho ottenuto? “Calcolo errato, inserire dati”.»
Parisi guardò l’orologio.
Istintivamente, Delio fece lo stesso. Mancava poco a mezzanotte, il che significava che da quasi 48 ore non chiudeva occhio.
«Sta sbagliando qualcosa. Tutti gli altri soggetti fanno progressi nella comunicazione, tranne il suo.»
Delio sgranò gli occhi. «Ma di che parla? È entrato nella casa di fianco? Sbaglio o aveva detto che sareste intervenuti al primo segno di pericolo?»
«Lei non capisce la posta in gioco.» Parisi girò la testa verso l’altra abitazione. «Abbiamo poco tempo. Torni dentro.»
Delio gli puntò il dito contro. «No, basta ordini. Vuole dei risultati? Allora mi aiuti, cazzo!»
Parisi rimase in silenzio per alcuni secondi, quindi fece segno ai militari di rimanere in posizione.
Al piano di sopra Luca aspettava nel solito punto in stato catatonico.
Delio lo indicò. «Ecco i suoi progressi nella comunicazione.»
«Sicuro di aver letto l’intero contenuto del raccoglitore?»
«Certo che l’ho fatto. E più volte! Ma forse il problema è Luca. Forse di matematica non capisce un cazzo. Forse il nostro prodigio del tatuaggio fai da te è in realtà un idio…»
Un idiota.
Delio era un idiota.
Gli tornarono alla mente le parole dette alla Rizzo: un dialogo non è solo uno scambio verbale.
Si avvicinò a Luca. «Tutta questa storia delle date, dei numeri… È così che comunicate. Avete però bisogno di un sistema di codifica, di un traduttore… Siamo noi quel traduttore! Ma allora cosa sto sbagliando?»
Delio guardò l’orologio. Un minuto a mezzanotte.
Con una lentezza infinita, la lancetta dei secondi risalì il quadrante, fino a toccare il XII.
Silenzio.
Delio scosse Luca a una spalla.
Quello barcollò all’indietro fino a che le gambe non gli cedettero. I suoi occhi si muovevano inquieti e colmi di lacrime, le labbra che tremavano. «Chi siete? Dov’è la mia mamma?»
Delio e Parisi si scambiarono un’occhiata.
Dall’esterno giunse un grido, poi un altro, finché tutta Rajù non divenne un’unica voce.
Delio si affacciò alla stessa finestra del giorno prima.
La donna in tailleur stava uscendo in strada, il vestito lacerato e sporco di sangue, seguita a breve distanza dal pelato. I militari intimarono loro di fermarsi, quando il corpo dell’uomo si strappò, un taglio irregolare che dalla testa raggiungeva l’ombelico. Dalle viscere colò fuori un numero imprecisato di tentacoli lattiginosi e zampe ricoperte d’aculei.
Delio si abbassò sotto la linea della finestra e a carponi tornò nel corridoio. All’esterno i soldati aprirono il fuoco.
«Che ha fatto?» Parisi gli puntò l’arma. «Perché con lei non ha funzionato?»
Un rumore gutturale salì dalle scale.
Delio ignorò l’arma e avanzò verso Parisi. «Il cellulare, presto.»
«Perché?»
Un secondo ruggito si aggiunse al primo.
«Oh, fanculo!» Parisi lanciò il cellulare allo psichiatra, per poi spostare la mira in direzione delle scale.
Delio compose il numero della madre.
«Delio! È successa una tragedia!»
«Mamma…»
«Tua sorella! È come impazzita. Ha aggredito tuo padre… Lui… lui è riuscito a chiuderla in bagno, ma…»
«Mamma, quando sono nato?»
«Oddio, c’è così tanto sangue, Delio!»
«Quando sono nato, mamma!»
«Cosa? Ma hai sentito?»
«Ascolta tu! Ho bisogno di sapere: quando sono nato? Il giorno esatto!»
La voce della madre tremava. «Tu… tua sorella è nata alle 23:47. Tu sei uscito poco dopo mezzanotte… Ma non volevamo due compleanni separati e il dottore ha detto che non era un problema… Tesoro, che succede?»
Delio si sedette di fianco a Luca e gli cinse le spalle con un braccio mentre l’altro non smetteva singhiozzare.
«Delio, dove sei?» Dal telefono giunse un rimbombo. «La porta! Anto’, bloccala, presto! Oddio, Noemi, no! Ti prego!»
Il cellulare scivolò dalle dita di Delio.
Luca tirò su col naso. «La mia mamma… Voglio la mia mamma…»
Delio lo strinse ancora più forte.
Al piano di sotto qualcosa iniziò a risalire i gradini grattando sul legno.
lupus in fabula

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Michael Dag
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Re: Semifinale Christian Santirana

Messaggio#3 » lunedì 9 maggio 2022, 19:15

FAME SIDERALE
Scritto da: Michael Dag Scattina



Il brusio di chiacchiere e posate riempie la saletta della caritas.
Infilo la forchetta nella ciotola e mescolo. Riso, pomodori e tonno. Certo, sarebbe bello assaggiare qualcosa di diverso ogni tanto, ma sempre meglio che litigarsi gli avanzi dei ristoranti coi gabbiani al lungomare. Bisogna pur mangiare.
Prendo una generosa forchettata e mastico bene, lo stomaco si contrae e si ricorda di esistere.
Miran appoggia il vassoio di fronte a me e infila le gambe sotto il tavolo. Puzza di sudore e disagio, come tutti, qui dentro. «Ciao Fulvio. Tu ha visto lo Spezia, ieri?»
«Che ti dicevo? '67/68, annata bianconera.»
«Bella finale. Secondi di campionato.» Prende una forchettata di riso e se la infila tra i denti storti.
«E te, come te la passi?»
«Bene, bene. Ho trovato un piccolo lavoro.» Si guarda intorno un secondo. Nessuno ci ascolta. «Anzi se tu vuoi qualchi soldi, puoi dare una mano, dopo.»
Già mi immagino che genere di "piccolo lavoro" può propormi uno scappato a piedi dalla Yugoslavia che mangia alla caritas. «Di che si tratta?» Ma bisogna pur mangiare, in fin dei conti.
«Tu sai di nave americana arrivata in arsenale, giorni fa?»
«Sì, ho sentito.»
«Alcuni soldati escono fuori di nave per…» si indica il naso «divertimento. Se tu sai dove trovare, loro pagano subito.»
Fantastico, potrò dire di lavorare per la marina americana. «Non ho un soldo, amico. E non voglio lasciare puffi.»
Miran appoggia la forchetta, con noncuranza infila una mano nei calzoni strappati e poi armeggia col tovagliolo. Me lo passa, lasciandolo a fianco al mio piatto.
Prendo un sorso d'acqua, e continuo a mangiare. Sollevo un angolo del tovagliolo e mi ritrovo con gli occhi sgranati. Lo richiudo subito. «Ho visto bene? Pezzi da diecimila?»
Miran abbozza un sorriso. «Io ho portato loro roba, la settimana scorsa. Stasera ho fatto giro di tutti miei amici, e adesso non so più dove comprare. Ma se tu hai contatti giusti, prendi i soldi e porta altra roba. Ti aspetto in piazza Chiodo.»
«Ti fidi a lasciarmi andare via con tutti questi soldi?»
«Fulvio, noi siamo amici, certo che mi fido.» Miran mi fissa negli occhi. «E poi, sai che se provi a fregare slavo, ti trovi con coltello che buca pancia.»
Butto giù gli ultimi bocconi di riso. Mi infilo i soldi nella tasca della felpa e mi alzo dal tavolo raccogliendo le posate sul vassoio. «Ci vediamo alle siepi tra un'ora.» Dio benedica l'America.

+++

Freddo.
Cazzo, che freddo, e perché sono nudo? Cos'è questo ronzio, dove sono? Ero con Miran, prima. E c'erano quei tre americani… E poi?
Sono sdraiato, ma non capisco da che parte. È buio pesto… Mi gira la testa, mi sento leggero. Sto fluttuando come un'alga tra le onde del mare. Provo a muovermi. Le braccia sono intorpidite, le gambe rispondono formicolando da chissà dove.
C'è una superficie dura sotto di me. Ok, ragioniamo. Sono sbronzo, sicuro. Ho bevuto troppo, e magari anche pippato della merda, non mi ricordo.
Mi punto sul gomito e mi tiro su.
Riesco a muovermi a malapena, qualcosa mi stringe dappertutto. Muovo le braccia, mi contorco nel letto, ma per quanto mi sforzo la coperta non mi si leva di dosso. Spingo con le gambe verso il basso, niente. Mi rigiro, controllo ogni singolo movimento, ci metto un'eternità a mettermi sull'altro fianco.
Aspetta. Questo non è un letto. Sono mesi che non dormo in un letto vero. E questi non sono quei plaid cenciosi che uso da coperta. Con le mani esploro il poco spazio a disposizione intono a me. Muovo i piedi, si spostano di pochi centimetri. È una specie di sacco a pelo. Sono imbozzolato come uno stramaledetto insetto. Mi passo una mano sopra la testa, ma il tessuto è liscio e uniforme. Come il mio cranio, cazzo, dove sono i miei capelli?
All'altezza del viso trovo una placca circolare. Passo le dita lentamente, sembra avere dei fori. Sembrerebbe… un filtro per l'aria?
Non trovo la cerniera, da dove si esce?
Il cuore accelera, le tempie iniziano a pulsare. Mi manca l'aria, devo uscire da qua. Qualcosa lampeggia di rosso, nell'oscurità. Una lucina piccola, che filtra a malapena tra il tessuto che mi avvolge. Un lieve trillo intermittente spezza il silenzio. Una soffiata di aria calda arriva dal filtro. Ha un odore chimico e dolciastro… quasi… soporif…

+++

Per l'ennesima volta, il mio sacco viene preso e trascinato via. Ho smesso di chiedere a questi stronzi chi sono e cosa vogliono. I loro scarponi sono pesanti, e le mie costole l'hanno imparato presto.
Dopo qualche metro mi appoggiano per terra, di nuovo.
Il suolo è morbido, sembra sabbia. Il vento fischia intorno a me, forse siamo su una spiaggia.
Voglio una boccata d'aria. Solo una, cazzo, appena mi sono svegliato il mio sacco era pieno di merda e piscio. Ho la gola secca.
Mi rannicchio su me stesso ancora di più. Sto tremando e non è solo per questo stramaledetto freddo. Qui faccio una brutta fine. Non ricordo nulla dopo quella sera, non so neanche quanto tempo sia passato.
Quello zingaro infame mi ha venduto a questi psicopatici. Giuro che se esco da questa storia, lo ritrovo e lo mangio vivo.
C'è gente intorno a me. I loro passi sono lenti, impacciati, i suoni sono ovattati dal mio bozzolo.
Qualcuno rantola alla mia destra. Un altro prigioniero? Si contorce, mugola. Poi smette. Trafficanti d'organi? Finirò smembrato e rivenduto al mercato nero. Oppure usato come cavia umana per qualche esperimento. C'è gente che paga per torturare le persone e farci dei film. La mente vortica da uno scenario infernale all'altro.
Dicono che non sia possibile strangolarsi da soli, ma vale la pena provare. Se avessi anche solo l'elastico delle mutande…
Il filtro del mio sacco si apre con uno scatto metallico e qualcosa entra nell'involucro, puzza di pesce marcio bruciato. Chiudo la testa tra le spalle, provo ad afferrarlo con entrambe le mani, ma i miei muscoli sono molli come una medusa. Qualcosa di freddo e viscido mi avvolge il collo e stinge, sembra il tentacolo di un polpo. Altre appendici mi strisciano sulla faccia. Provo a girare la testa ma sono bloccato.
Si infilano nel naso.
In gola.
Soffoco.
Mi contorco quanto posso, ma le sento farsi strada dentro il mio cranio e nello stomaco. Sto per esplodere.
Non riesco neanche più a muovermi.
Che vita di merda che ho avuto. Mi sono sempre buttato via, senza mai realizzare niente. Chissà quanta della gente che conosco si chiederà che fine ho fatto. Chissà se mio padre è ancora vivo. Forse lo incontrerò tra poco.
Con uno strattone, i tentacoli vengono strappati via, mi rivolto come un guanto. Ho le budella nel cervello, il sangue non sa più da che parte deve scorrere, vomito e singhiozzo bile.
Intorno c'è un concerto atroce di gorgoglii e grida soffocate.
Poi, lentamente, si placa.
Il dolore passa, il respiro torna regolare. La puzza di merda e succhi gastrici è insopportabile, ma vuol dire che sono vivo, giusto? Mi sorprendo a ridacchiare da solo come un pazzo. Forse non è una gran fortuna.
Qualcuno afferra il mio sacco, armeggia con la parte superiore. Altro giro? Il sacco si ritrae e mi scopre il viso, una morsa di freddo mi stritola la testa. Aria! Finalmente!
C'è puzza di bruciato, tipo polvere da sparo.
Un tizio con uno scafandro bianco torreggia su di me un istante, e si allontana. Si muove lentissimo, come fosse davvero sott'acqua.
Il cielo è di un nero che non avevo mai visto.
Mi guardo intorno. Una distesa piatta di sabbia grigia si stende a perdita d'occhio. Parecchie persone sono stese a terra, avvolte in sacchi arancioni come il mio. Uomini, donne, negri, cinesi. Bambini. Molti di loro boccheggiano come pesci fuori dall'acqua. Qualche istante, e la maggior parte rimane immobile, le bocche spalancate e gli occhi fuori dalle orbite.
Cinque o sei palombari in bianco li tirano fuori dai bozzoli e li trascinano in un mucchio poco distante. Ma perché si muovono così lenti? Quelle tute devono essere davvero pesanti.
Respiro avidamente. I polmoni pizzicano, in gola ho il sapore di un milione di canali di scarico, ma mi sento rinascere.
Un'ombra strana si muove tra i prigionieri ancora chiusi nei sacchi. È tutto buio, il nero della notte ha risucchiato ogni colore, e quell'affare sembra un ammasso di polpi cuciti insieme. Rotola da un sacco all'altro e… che cazzo è quella roba!?
Un tentacolo esce dalla matassa e si infila nel sacco di un prigioniero. Il poveretto all'interno si dimena qualche secondo poi resta immobile.
La bestia recupera il tentacolo e passa al prossimo.
Mi viene da vomitare.
Uno dei palombari scopre la testa al prigioniero. È una ragazzina mulatta, sbava sangue sulla sabbia ma pare respirare.
La trascinano verso di me. Il piccolo gruppo dei sopravvissuti.
Giro la testa quanto più posso.
A una decina di metri da me, dei veicoli assurdi poggiano su sei zampe. Sembrano insetti di metallo, con antenne e parabole ovunque. Mi giro ancora e il fiato mi si strozza dei polmoni.
Nel buio più assoluto del cielo, la luna è enorme, cinque o sei volte le sue dimensioni normali. Brilla di azzurro e sotto le striature delle nuvole bianche si vede il profilo verde e marrone dell'Africa e dell'Europa. Quella non è la luna.

+++

Le cime dei platani di viale Amendola ondeggiano tranquille alla brezza della sera, il muraglione dell'arsenale disegna un profilo squadrato contro il cielo.
Passeggio con calma, le mani nelle tasche, fa troppo caldo per mettere dei guanti. Siamo a luglio, in fin dei conti, ma non l'avevo mai sofferto così tanto.
Ho fame. È da quando sono tornato che ho fame, e non riesco a mangiare nulla. È come se non avessi più lo stomaco.
Devo nutrirmi, e c'è solo un unico, orripilante metodo.
Un paio di gabbiani stanno appollaiati sulla ringhiera del canale. Un magro spuntino, ma meglio che niente. Mi avvicino, con calma. Tiro la mano fuori dalla tasca quando un coglione in motorino mi sfreccia accanto sul viale. I due uccelli svolazzano via, garrendo indispettiti. Non insultatelo, ragazzi, vi ha appena salvato il culo.
Arrivo in fondo al viale e prendo verso Pegazzano. Sento sempre un profumo buonissimo da queste parti, chissà cos'è.
Cammino per i vicoletti. Lo stomaco borbotta, il sangue ribolle. Mi sento debole e disidratato, se non mangio qualcosa subito svengo.
Un fruscio mi fa girare la testa verso una serie di bidoni della spazzatura. Mi avvicino. Una palletta di pelo sta provando a squarciare un sacchetto dell'immondizia, con zampine grandi quanto una sigaretta.
Tendo la mano. Le mia dita si allungano a dismisura, diventano nere e si ricoprono di ventose dentate. Guizzano intorno alla bestiola, in un battito di cuore la avvolgono completamente dalla testa alla coda.
Sento quel povero gattino provare a dimenarsi sotto le mie mostruose estremità. So come ci si sente, amico. Ma devo mangiare qualcosa. Estendo i tentacoli minori, mi faccio strada sotto al pelo fino alla pelle. È incredibile quanto poco ci ho messo per imparare ad usare questa nuova parte del mio corpo. Con che intuito posso, con le mie ventose, trovare le vene più esposte delle mie prede. Con che precisione affondo i miei nuovi denti nei loro corpi per risucchiarli dall'interno.
Sono un mostro.
Un maledetto mostro.
Ignoro l'istinto primordiale di sopravvivenza e allargo le dita. Il gattino schizza via come una scheggia. Non è giusto che paghi lui per la mia maledizione.
E poi, non mi avrebbe saziato. Non è lui che emette questo profumo.
Continuo a camminare tra i vicoli, arrivo ai magazzini abbandonati dell'enel.
Il vento porta l'aroma di un banchetto.
Costeggio la rete arrugginita fino al solito squarcio, ci passo attraverso e entro nel cortile invaso di spazzatura tossica e erba alta un metro.
Mi faccio largo tra la rumenta, il profumo viene dalla vecchia sala mensa degli operai. Ironico.
Arrivo al capannone fatiscente. Alcuni nuovi graffiti coprono quelli vecchi, le finestre non hanno più un singolo vetro integro e il buco nel tetto si è ingrandito dall'ultima volta che ho dormito qui. Seguo il mio naso, costeggio il muro esterno fino a una finestra che sembra spalancata sulla cucina di un ristorante di lusso. Lo stomaco si contrae, le dita formicolano in cerca di cibo.
Sbircio da un vetro rotto.
Non ci credo.
È Miran.
È accasciato su dei cartoni, in una distesa di barattoli vuoti e mozzi di sigaretta, e si sta scolando un cartone di vinaccio da due lire.
E profuma come una pizza appena sfornata.
Scavalco la finestra tirandomi dietro i pezzi di vetro ancora attaccati ai bordi. L'infame sgrana gli occhi, tira fuori un opinel da sotto le coperte luride e salta in piedi.
Le dita mi fremono, non vedo l'ora di strizzarlo come un pomodoro. «Ciao, Miran.»
«F-Fulvio…» Gli trema la voce. «Io… mi dispiace…»
Schiocco le braccia come fruste, tiro fuori tutti e dieci i tentacoli e lo avviluppo con tutta la forza che ho. Non se ne accorge nemmeno, sono troppo veloce per lui. «Tra poco, ti dispiacerà davvero.»
Bofonchia qualcosa, ma ho troppa fame per starlo ad ascoltare.
Si dimena come un ossesso. Potrei schiantarlo contro al muro e stordirlo, ma no. Non gli darò la grazia dell'incoscienza. Non dopo quello che ho passato a causa sua. Che sto ancora passando. Ho fame. Coi pollici, mi infilo sotto la camicia lercia, cerco l'ombelico. Lo perforo, mi faccio strada nelle sue budella e allargo le ventose. Le appendici si dispiegano tra i suoi organi. Risucchio quella succosa poltiglia, sono ubriaco di cibo, è l'unico pasto di tutta la mia esistenza, mi disseto col sangue che assorbo dai suoi polsi con le altre dita.
Srotolo gli indici, e cerco le narici, salgo su fino al cervello. Diavolo, non avrei mai detto che il cervello di uno zingaro fosse tanto delizioso. Forse è la droga che gli da quel tocco speciale.
Continuo a nutrirmi finche non mi ritrovo a stringere un ammasso di pelle e ossa. Lo getto via come il cartoccio vuoto del porchettaro di San Giuseppe.
Faccio rientrare i tentacoli.
Mi guardo le mani luride di sangue.
Sangue di un essere umano.
Che ho mangiato vivo.
Crollo a terra e scoppio a piangere.
Sono un mostro. Un maledetto mostro cannibale. La luce della luna spande angoscia dalle finestre in frantumi, grido, scalcio e striscio fino all'angolo buio.
Un coccio di vetro lungo una spanna spunta dalla polvere dei calcinacci. Sì. È l'unica soluzione. Ammesso che abbia ancora qualcosa di umano e possa morire così. Lo prendo. Tiro un lungo respiro, l'ultimo, e me lo punto alla gola.
«Fermo.»
Mi volto di scatto.
Un tizio in mimetica è in penombra sulla porta. Ha un fucile a tracolla, ma tiene le mani alzate e cammina calmo verso di me. «Voglio solo parlare.»
Accento americano. Sono pieno, ma il posto per il dessert potrei trovarlo. «Chi sei? Che cazzo mi avete fatto?»
«Ti spiegheremo tutto. Metti giù il vetro, per favore.»
Scordatelo, mi avete già fregato una volta.
Il soldato si avvicina a qualche metro da me. Altri tre entrano nella stanza. Con loro c'è la ragazzina mulatta che ho visto quella notte.
«Che diavolo succede?»
Un tizio pelato sui cinquanta si siede a terra davanti a me. «Sono il capitano Windershorn.» Parla in tono calmo e pacato, il suo italiano non è male. «Ti conosco come soggetto 1582. Posso sapere il tuo nome vero?»
«Fulvio. Cozzani.»
«Piacere di conoscerti. Ti informo che sei tra i pochi sopravvissuti del progetto SpaceHungry.»
«Quindi?»
«Quella notte… sulla luna… ricordi cos'è successo?»
Ho paura a dirlo. È la prima volta che anche solo penso a quella parola. «Gli alieni.»
«Esatto. Il tuo corpo è stato migliorato con delle protesi a livello neurale. Vogliamo_»
«Non me ne frega un cazzo dei vostri esperimenti! Mi avete usato come un topo!» Indico il cielo. «Quanta gente avete ammazzato, lassù?»
«Ti prego, calmati. Lascia_»
Salto in piedi, mollo il vetro, estraggo i tentacoli. Mi è tornata fame. Molta, molta fame.
I tre soldati scattano indietro e mi puntano i fucili. «Non ti muovere!»
Ondeggio le dita. Se sono abbastanza veloce riesco a fotterli tutti e tre. E poi, cos'ho da perdere? «Mi avete reso un mostro!»
«No! Ti abbiamo reso un superuomo. Stammi a sentire, ti prego.»
Stendo l'indice verso il suo torace. «Ti mangio il cuore.»
«Fulvio, fermati.» La ragazzina si mette tra me e il capitano. «Anch'io all'inizio non capivo. Avevo paura.» Mi mostra le dita, uguali alle mie.
«Lo trovi divertente?» È impazzita, ovvio. Non ha retto allo spavento.
«No.» Le scappa un singhiozzo. «Ma… non è così male come sembra.»
«Ascoltala.» Il capitano ha le mani alzate. «Facci spiegare.»
Saltello con gli occhi tra tutti i presenti. «Va bene.» Ritraggo i tentacoli. Prendiamo tempo.
«L'America ha avamposti sul suolo lunare già da un anno. Siamo arrivati lì in segreto, nel maggio del '67. E sulla luna, esistono altre creature viventi.»
«Ho visto.»
«Queste creature non sono senzienti come lo intendiamo noi, ma hanno un metabolismo alimentare che si adatta molto in fretta. Se trovano una fonte di cibo, percepiscono la presenza di materiale simile a decine di chilometri di distanza. Ora dimmi: cosa ti ha condotto qui?»
Il miglior profumo che abbia mai sentito. «Intuito.»
«Appunto. Quando ti abbiamo portato sulla terra, prima di risvegliarti ti abbiamo nutrito con sangue di prigionieri sovietici. E quel tizio» indica ciò che resta di Miran «è figlio di un soldato russo, che stuprò una contadina slava durante la guerra. Ora dimmi: dov'è il sovietico più vicino?»
Annuso l'aria. Faccio vibrare le ventose. Diavolo, lo sento davvero. «Verso est. Ma è… debole.»
«Sarà qualche discendente di vecchie generazioni. Capisci ora?»
«Sono un radar. Un Radar umano per comunisti.» E pensare che da giovane avevo la tessera del PCI.
«Esatto. Nessuna spia può nascondersi al tuo fiuto. Nessun sicario. In un campo di battaglia, nessun nemico nel raggio di decine di miglia può tendere un'imboscata senza che tu lo venga a sapere con ore di anticipo.»
Perfetto. Ora posso dirlo davvero, di lavorare per la CIA. «Che intenzioni avete?»
«È prevista una nuova missione. Nel luglio dell'anno prossimo, sbarcheremo sulla luna agli occhi del mondo. In quest'anno, tu scoverai terroristi sovietici e ti nutrirai di loro. Modificherai il tuo metabolismo. Quando torneremo sulla luna, useremo un piccolo campione del tuo sangue per 'insegnare' agli alieni a attaccare solo i nostri nemici.»
«Cosa? Volete portare quei cosi sulla terra?»
«È l'unico modo per evitare una guerra nucleare con Mosca.» Mi tende la mano. «Vuoi passare dall'essere un barbone drogato a diventare l'agente segreto migliore del mondo? La paga è ottima. Credimi.»
Ma certo, che ti credo.

+++

Bella la nuova casa. Spaziosa, luminosa, ottima posizione.
Ilva si guarda intorno, una lacrima le solca il viso innocente. Di sicuro, non immaginava neanche che potesse esistere tanto lusso.
«Allora, ragazzina. Se non ho capito male, più cose mangiamo di un certo tipo, più sviluppiamo l'olfatto per quel tipo di sangue, giusto?»
«Sì, è così. Adesso dovremo… cercare i russi, giusto?» Tira su col naso. «E dovremo… ucciderli…»
«Ma se io mangiassi altre cose, tipo che so, i francesi. Gli alieni imparerebbero a mangiare i francesi, giusto?»
«Credo di sì.»
Srotolo i tentacoli. Non è una vita adatta a una ragazzina. La avvolgo con dolcezza, e le spezzo il collo. Le pianto le dita in gola e negli occhi e assorbo il suo sangue contaminato. Fa schifo. Davvero schifo. Ma bisogna pur mangiare, no?
Appoggio il cadavere essiccato sul divano.
Stendo le ventose fuori dalla finestra. La prossima progenie aliena è a sud, verso Roma.
Sarà un anno di dieta ferrea. Credo che l'estate prossima, alieni e americani avranno una bella, gustosissima sorpresa.

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Re: Semifinale Christian Santirana

Messaggio#4 » mercoledì 18 maggio 2022, 9:48

Christian Sartirana

Giudizi:

Fame siderale

Trovo che Fame Siderale sia un ottimo horroraccio sci-fi dal sapore anni ‘80/’90, con creature disgustose e una piacevole ironia di fondo. Mi ha acchiappato sin dalle prime righe e sebbene non possa definirmi un amante della narrazione in prima persona presente (forse un allievo del Duca?), soprattutto in un horror, questa storia non lascia un attimo di respiro. Gli eventi precipitano subito dopo il brevissimo capitolo introduttivo, offrendo al lettore sequenze a dir poco soffocanti e non ci abbandona per tutto il resto della vicenda, che si sviluppa in un arco ben equilibrato. Valido il protagonista, ben sfaccettato nel suo conflitto interiore, soprattutto quando realizza la sua nuova natura. La trama è semplice, presa in prestito da una dozzina di film USA, ma è avvincente e intrattiene. C’è tutto quello che serve e nulla di più. Forse l’ambientazione italiana è leggermente carente, ma sono dettagli. Ammirevole la capacità di spingere il lettore a credere che il peggio stia per rivelarsi, per poi invece sorprenderlo con nuovi balzi di eventi, sempre più terrificanti. Il tutto, come ho già detto all’inizio, condito con un’ironia ben dosata che trova la sua massima espressione nel finale.
Detto questo, un paio di note negative: pensare un disgraziato che va a mangiare alla Caritas, parlando di calcio e che pensa frasi tipo: “imbozzolato come uno stramaledetto insetto” oppure “qualcuno rantola alla mia destra” un po’ mi stride. A un certo punto questo personaggio allude pure agli snuff movies che non è una cosa che sanno proprio tutti. Qua e là (come certe battute un po’ Usa) ci sono tanti elementi poco credibili e più alla Dylan Dog, per intenderci. Il linguaggio andrebbe cucito al personaggio con più attenzione e farne avvertire più l’italianità, magari fornendo qualche dettaglio in più sul suo passato. Tolti questi dettagli facilmente migliorabili è un godibilissimo racconto.

La matematica del dolore

Di questo racconto ho apprezzato soprattutto i dialoghi che a tratti sono a dir poco esilaranti e che sprizzano una genuina italianità, ancora troppo carente nel settore della narrativa fantastica nazionale. La prosa è matura, non incespica, né eccede in lungaggini (di scrittura), ma si limita a offrire immagini nitide e utili. Al di là di questi elementi promettenti, però, la storia non mi ha colpito più di tanto e credo che nel complesso pecchi di una certa nebulosità e lentezza. Se non fosse per la necessità della data di compleanno, il racconto potrebbe benissimo cominciare dal capitolo numero 3. Uno strizzacervelli viene convocato in un paesino fantasma abbandonato dal 1972, che già ci da il primo collegamento con la missione Apollo e ci impone subito un’atmosfera da horror. Paesino abbandonato, militari dall’aria grave che fanno i misteriosi, protagonista che si chiede: “Perché cazzo sono venuto?”. Qui, in un dialogo ben giostrato con Parisi e appoggiato con intelligenza all’atmosfera del luogo potevamo mettere, in poche battute, tutti i dettagli inoculati dal capitolo 2, aumentando la tensione e la gravità della situazione; aggiungendo anche, volendo, nuovi elementi chiarificativi della vicenda. Alla luce di tutto questo il capitolo 1 e 2 sono scritti bene (perché questo autore lo sa fare) ma la trovo una lungaggine strutturale, quindi inutili.
Sebbene questo racconto sia più inquietante di Fame Siderale, che più che altro è disgustoso, sul fronte horror non esplode mai davvero. Abbiamo la trasformazione di un uomo, sì, ma la vera scena inquietante, per me, è quando lo strizzarcervelli vede la tipa in tailleur venire segnata dal suo “paziente” nella casa di fronte. Lì, per la prima volta, sentiamo i denti dell’ingranaggio in cui siamo caduti morderci la carne, ma ce ne serve di più per farci rizzare i capelli. Personalmente avrei allungato un po’ il sugo su questi elementi, aggiungendo più” donne in tailleur” e creando dei piccoli progressi chiarificativi (e sempre più inquietanti) circa la comunicazione con il “paziente”. Al momento del climax giù di intervento militare, disvelamento dell’orrore totale e finale negativo.
In definitiva un autore che scrive molto bene, che forse non è alla sua prova migliore, oppure gli manca ancora qualche piccolo tassello sulla struttura di un racconto, ma questa storia pur avendo parecchi punti interessanti, zoppica e non morde fino in fondo. Naturalmente è aggiustabile.

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