Astra
Inviato: lunedì 19 settembre 2022, 21:48
Davvero le nostre scelte sono autonome?
Ho sempre creduto nell’emancipazione, nell’autodeterminazione.
“Per aspera ad astra” mi ripetevano ovunque andassi.
“Ognuno è artefice del proprio destino”, mi sembrava il sussurro dei compagni di studi, l’eco degli amici al telefono e il brusio disordinato dei colleghi di lavoro.
“La scelta è tua”, lo urlassero i manifesti elettorali o me lo dicesse il panettiere al forno: mi pareva ovvio che fosse così.
Mi sentivo di tenere il mondo in pugno, con il pieno controllo della situazione.
Potevo essere qualunque cosa volessi.
Sapevo aspirare, non alle stelle, ma a molto di più.
Pensavo di aver raggiunto il traguardo del sapere.
Una mattina mi hanno sventolato davanti al naso un contratto di lavoro, con una data di inizio e un “indeterminato” al posto della data di fine.
Mi è sembrato un sogno. Non volevo svegliarmi e l’ho firmato.
Avevo trent'anni, una casa, un lavoro, un posto nel mondo: cosa volere di più?
Eppure non ero felice, sentivo un tormento, una mancanza. Qualcosa non mi tornava.
Davvero le nostre scelte sono autonome? Questo desiderio di emancipazione, da cosa scaturiva? Questa scelta di firmare questo legame indissolubile, davvero lo avevo voluto io? Avevo faticato così tanto e lavorato in questa direzione per mia iniziativa?
Oppure mi trovavo su una sedia, con in mano la bozza del compromesso di acquisto di una casa che non volevo sul serio acquistare, in una città che non mi apparteneva e per un lavoro stabile che non avrei voluto avere?
Sentivo le mie sicurezze incresparsi, come la superficie di uno stagno nei primi giorni di autunno. Davvero era quella la vita che anelavo? Nulla di ciò che sembrava tale, per me era concreto. In che direzione mi stavo muovendo? Qualcosa dentro di me si stava sgretolando.
Fino a dove le nostre scelte sono nostre, e da dove diventano figlie del condizionamento, dell’educazione, dei desideri altrui che ci sono stati proposti come unica via possibile? Quando la mia storia è iniziata, io chi ero? Davvero esistevo in una società come pedina incasellata e al perpetuo servizio di ciò che avevo siglato? Se quella era davvero la mia volontà, dove era finita la mia felicità?
Di cose che non mi tornavano ce n’erano fin troppe.
Io non avrei mai desiderato per me tutti quegli oggetti, quelle rate, quei giorni monotoni e uguali, dove tutto accadeva sotto la mia responsabilità, ma con variabili fuori dal mio controllo.
Dove era finito quell’ardore giovanile che mi aveva resto Astra?
Stavo vibrando come una cometa.
Come era stato possibile? Con chi potevo parlarne, se non con il mio “io” più profondo?
Confidarsi con un prete non se ne parlava proprio, né trovare uno specialista.
Poi ho avuto un’idea geniale per risolvere il mio problema: ne ho parlato con il mio Autore.
Gli ho chiesto, per favore, di scrivere un racconto dove rifletto meno, così magari, nel prossimo capitolo della mia vita mi sentirò di avere io voce in capitolo, o se, come sempre, deciderà tutto lui, stavolta io non me ne accorgerò.
Ho sempre creduto nell’emancipazione, nell’autodeterminazione.
“Per aspera ad astra” mi ripetevano ovunque andassi.
“Ognuno è artefice del proprio destino”, mi sembrava il sussurro dei compagni di studi, l’eco degli amici al telefono e il brusio disordinato dei colleghi di lavoro.
“La scelta è tua”, lo urlassero i manifesti elettorali o me lo dicesse il panettiere al forno: mi pareva ovvio che fosse così.
Mi sentivo di tenere il mondo in pugno, con il pieno controllo della situazione.
Potevo essere qualunque cosa volessi.
Sapevo aspirare, non alle stelle, ma a molto di più.
Pensavo di aver raggiunto il traguardo del sapere.
Una mattina mi hanno sventolato davanti al naso un contratto di lavoro, con una data di inizio e un “indeterminato” al posto della data di fine.
Mi è sembrato un sogno. Non volevo svegliarmi e l’ho firmato.
Avevo trent'anni, una casa, un lavoro, un posto nel mondo: cosa volere di più?
Eppure non ero felice, sentivo un tormento, una mancanza. Qualcosa non mi tornava.
Davvero le nostre scelte sono autonome? Questo desiderio di emancipazione, da cosa scaturiva? Questa scelta di firmare questo legame indissolubile, davvero lo avevo voluto io? Avevo faticato così tanto e lavorato in questa direzione per mia iniziativa?
Oppure mi trovavo su una sedia, con in mano la bozza del compromesso di acquisto di una casa che non volevo sul serio acquistare, in una città che non mi apparteneva e per un lavoro stabile che non avrei voluto avere?
Sentivo le mie sicurezze incresparsi, come la superficie di uno stagno nei primi giorni di autunno. Davvero era quella la vita che anelavo? Nulla di ciò che sembrava tale, per me era concreto. In che direzione mi stavo muovendo? Qualcosa dentro di me si stava sgretolando.
Fino a dove le nostre scelte sono nostre, e da dove diventano figlie del condizionamento, dell’educazione, dei desideri altrui che ci sono stati proposti come unica via possibile? Quando la mia storia è iniziata, io chi ero? Davvero esistevo in una società come pedina incasellata e al perpetuo servizio di ciò che avevo siglato? Se quella era davvero la mia volontà, dove era finita la mia felicità?
Di cose che non mi tornavano ce n’erano fin troppe.
Io non avrei mai desiderato per me tutti quegli oggetti, quelle rate, quei giorni monotoni e uguali, dove tutto accadeva sotto la mia responsabilità, ma con variabili fuori dal mio controllo.
Dove era finito quell’ardore giovanile che mi aveva resto Astra?
Stavo vibrando come una cometa.
Come era stato possibile? Con chi potevo parlarne, se non con il mio “io” più profondo?
Confidarsi con un prete non se ne parlava proprio, né trovare uno specialista.
Poi ho avuto un’idea geniale per risolvere il mio problema: ne ho parlato con il mio Autore.
Gli ho chiesto, per favore, di scrivere un racconto dove rifletto meno, così magari, nel prossimo capitolo della mia vita mi sentirò di avere io voce in capitolo, o se, come sempre, deciderà tutto lui, stavolta io non me ne accorgerò.