Disincanto
Inviato: lunedì 21 novembre 2022, 21:59
Disincanto
Di Alexandra Fischer
Oreste cammina lungo il quartiere nuovo della città nella quale si è appena trasferito. Gli edifici lo fanno pensare ai Lego con i quali si divertiva da bambino. Vorrebbe avere tanta spensieratezza ora. L’ultima agenzia interinale ha respinto il suo curriculum dandogli del rottame. L’età, il mercato che vuole tutti giovani e disposti a imparare a imparare.
Frase, quest’ultima, che gli fa sentire in bocca un sapore di gomma da masticare sfatta, senza più sapore. Apre il borsello, vede le sigarette e l’accendino con il portacicche, ma si domina. I marciapiedi sono in condizioni perfette come le panchine di marmo bianco.
Passa lungo un parco giochi dai cubi e dalle altalene dai colori che vanno dall’arancio al verde, tutti fluorescenti, come lo scivolo e il bruco.
Ripensa alla sua infanzia e agli ammonimenti paterni: non si va da nessuna parte se mancano le conoscenze e i soldi.
Torna al presente: la madre, prima di morire, gli ha lasciato un indirizzo. Lei sì, ha avuto una vita lavorativa brillante. Addirittura segretaria di direzione.
E lui? Precario a vita, malgrado la laurea.
Riapre il borsello: c’è una lettera scritta dalla madre. La sua ultima eredità.: c’è sopra il nome di un direttore scolastico.
Lui non l’ha ancora aperta, preso com’è dalla disperazione. Ha già girato tutte le agenzie, il centro per l’impiego e non sa come se la caverà in quella città di mattoncini colorati. Deglutisce. Pensa all’eredità dei suoi e ai rincari pazzeschi di elettricità, gas e cibo. E si mette a sudare. Non ne avrà per molto.
Va alla fermata dell’autobus, deciso a incontrare quel direttore. Se è un amico della madre, forse è una lettera di raccomandazione. La cosa non lo entusiasma, ma la vista di una coppia di barboni appena arrivata alla fermata lo rende determinato. Cadere è facile, troppo, pensa. Dai loro abiti lisi capisce che dovevano essere stati come lui. Non vuole finire così, sarebbe come uccidere i suoi genitori.
Il bus con il nome della via arriva e lui ci sale sopra, insieme alla coppia, che sceglie il posto in fondo al mezzo.
Il quartiere cambia. Dai mattoncini colorati si passa a una serie di edifici di marmo Anni Trenta.
Oreste legge il nome sul campanello, ma, prima di suonare, apre la lettera e sussulta: dentro c’è la lettera della madre nella quale spinge il direttore a farlo assumere nella scuola e la ricevuta di un grosso bonifico. Capisce i motivi dell’economia familiare fattasi molto stretta subito dopo la morte del padre. La madre gli aveva parlato di rovina imminente e aveva venduto la casa, così si erano trasferiti nella periferia di quella stessa città. Buffo, prima gli aveva ispirato un senso di decadenza per via degli edifici ottocenteschi uguali all’ospedale dove ha assistito la madre fino all’ultimo. Ora gli appare un circo folle, nel quale lui deve fare il pagliaccio. Ma non è quello che il padre gli ha insegnato e la madre confermato subito dopo? Schiaccia il campanello. Gli apre una domestica bionda. Lui le mostra la busta, pronuncia il nome della madre.
La domestica, dapprima diffidente, lo fa entrare e chiama il direttore, un uomo alto, corpulento, in completo blu. Oreste gli mostra la lettera.
Il direttore ha l’aria annoiata: − Nel mio studio.
Oreste vede l’opulenza chiassosa di vasi cinesi gemelli, divani e poltrone di scamosciato marrone. Alle pareti, quadri d’autore astratti.
Nello studio c’è una stampa che raffigura un meccanismo fatto di ruote dentellate.
Oreste lo prende come uno scherno: lui è la rotellina mancante.
Il direttore si siede sull’immensa poltrona di cuoio nero e gli indica la sedia rivestita dello stesso materiale. – Avanti, si sieda.
Oreste lo fa senza cerimonie. È stanco di saltare da un bus all’altro, da un’agenzia all’altra. Da quando ha perso la madre le sue giornate sono tutte uguali. Guarda il direttore leggere la lettera e osservare la ricevuta di bonifico con un sorriso crescente. – Ma bene, cosa non si fa per i figli. Il posto è suo. Di solito chiedo per questi favori almeno un anno di stipendio, ma a lei no, per sua madre, bella donna, l’ho conosciuta intimamente, sa?
Oreste tace, colpito dall’affermazione del direttore.
− Non dice nulla, giovanotto?
− Accetto.
− Bene, allora la cattedra è sua. Insegnerà alle elementari.
− Ma io sono abilitato per il liceo.
Il direttore agita una mano, come a scacciare un nugolo di moscerini: − Stupidaggini. Con quello che hanno investito i suoi su di lei −. Apre un cassetto, gli dà diverse buste.
− Apra, legga pure. Sono tutte lettere di messa a disposizione precompilate. I direttori didattici sono tutti miei amici.
Oreste ubbidisce, mette le lettere nel borsello: − La ringrazio.
− E di che?
Il direttore lo accompagna fuori dallo studio: − Che rimanga fra noi.
− Certo.
Di Alexandra Fischer
Oreste cammina lungo il quartiere nuovo della città nella quale si è appena trasferito. Gli edifici lo fanno pensare ai Lego con i quali si divertiva da bambino. Vorrebbe avere tanta spensieratezza ora. L’ultima agenzia interinale ha respinto il suo curriculum dandogli del rottame. L’età, il mercato che vuole tutti giovani e disposti a imparare a imparare.
Frase, quest’ultima, che gli fa sentire in bocca un sapore di gomma da masticare sfatta, senza più sapore. Apre il borsello, vede le sigarette e l’accendino con il portacicche, ma si domina. I marciapiedi sono in condizioni perfette come le panchine di marmo bianco.
Passa lungo un parco giochi dai cubi e dalle altalene dai colori che vanno dall’arancio al verde, tutti fluorescenti, come lo scivolo e il bruco.
Ripensa alla sua infanzia e agli ammonimenti paterni: non si va da nessuna parte se mancano le conoscenze e i soldi.
Torna al presente: la madre, prima di morire, gli ha lasciato un indirizzo. Lei sì, ha avuto una vita lavorativa brillante. Addirittura segretaria di direzione.
E lui? Precario a vita, malgrado la laurea.
Riapre il borsello: c’è una lettera scritta dalla madre. La sua ultima eredità.: c’è sopra il nome di un direttore scolastico.
Lui non l’ha ancora aperta, preso com’è dalla disperazione. Ha già girato tutte le agenzie, il centro per l’impiego e non sa come se la caverà in quella città di mattoncini colorati. Deglutisce. Pensa all’eredità dei suoi e ai rincari pazzeschi di elettricità, gas e cibo. E si mette a sudare. Non ne avrà per molto.
Va alla fermata dell’autobus, deciso a incontrare quel direttore. Se è un amico della madre, forse è una lettera di raccomandazione. La cosa non lo entusiasma, ma la vista di una coppia di barboni appena arrivata alla fermata lo rende determinato. Cadere è facile, troppo, pensa. Dai loro abiti lisi capisce che dovevano essere stati come lui. Non vuole finire così, sarebbe come uccidere i suoi genitori.
Il bus con il nome della via arriva e lui ci sale sopra, insieme alla coppia, che sceglie il posto in fondo al mezzo.
Il quartiere cambia. Dai mattoncini colorati si passa a una serie di edifici di marmo Anni Trenta.
Oreste legge il nome sul campanello, ma, prima di suonare, apre la lettera e sussulta: dentro c’è la lettera della madre nella quale spinge il direttore a farlo assumere nella scuola e la ricevuta di un grosso bonifico. Capisce i motivi dell’economia familiare fattasi molto stretta subito dopo la morte del padre. La madre gli aveva parlato di rovina imminente e aveva venduto la casa, così si erano trasferiti nella periferia di quella stessa città. Buffo, prima gli aveva ispirato un senso di decadenza per via degli edifici ottocenteschi uguali all’ospedale dove ha assistito la madre fino all’ultimo. Ora gli appare un circo folle, nel quale lui deve fare il pagliaccio. Ma non è quello che il padre gli ha insegnato e la madre confermato subito dopo? Schiaccia il campanello. Gli apre una domestica bionda. Lui le mostra la busta, pronuncia il nome della madre.
La domestica, dapprima diffidente, lo fa entrare e chiama il direttore, un uomo alto, corpulento, in completo blu. Oreste gli mostra la lettera.
Il direttore ha l’aria annoiata: − Nel mio studio.
Oreste vede l’opulenza chiassosa di vasi cinesi gemelli, divani e poltrone di scamosciato marrone. Alle pareti, quadri d’autore astratti.
Nello studio c’è una stampa che raffigura un meccanismo fatto di ruote dentellate.
Oreste lo prende come uno scherno: lui è la rotellina mancante.
Il direttore si siede sull’immensa poltrona di cuoio nero e gli indica la sedia rivestita dello stesso materiale. – Avanti, si sieda.
Oreste lo fa senza cerimonie. È stanco di saltare da un bus all’altro, da un’agenzia all’altra. Da quando ha perso la madre le sue giornate sono tutte uguali. Guarda il direttore leggere la lettera e osservare la ricevuta di bonifico con un sorriso crescente. – Ma bene, cosa non si fa per i figli. Il posto è suo. Di solito chiedo per questi favori almeno un anno di stipendio, ma a lei no, per sua madre, bella donna, l’ho conosciuta intimamente, sa?
Oreste tace, colpito dall’affermazione del direttore.
− Non dice nulla, giovanotto?
− Accetto.
− Bene, allora la cattedra è sua. Insegnerà alle elementari.
− Ma io sono abilitato per il liceo.
Il direttore agita una mano, come a scacciare un nugolo di moscerini: − Stupidaggini. Con quello che hanno investito i suoi su di lei −. Apre un cassetto, gli dà diverse buste.
− Apra, legga pure. Sono tutte lettere di messa a disposizione precompilate. I direttori didattici sono tutti miei amici.
Oreste ubbidisce, mette le lettere nel borsello: − La ringrazio.
− E di che?
Il direttore lo accompagna fuori dallo studio: − Che rimanga fra noi.
− Certo.