Finalissima!
Finalissima!
I racconti Attesa (Elisa Belotti) e La fabbrica di sguardi (Giovanni Attanasio) possono ancora migliorare grazie all'editing professionale messo a disposizione da Anna Pullia e Rotte Narrative.
Avrete una settimana di tempo per postare qui la nuova versione del racconto che avrà un ulteriore bonus di battute. Max 23.000 battute spazi inclusi titolo escluso.
Scadenza: giovedì 26 lunedì 30 gennaio alle 23.59
Contattatemi in privato su Facebook per avere le indicazioni del caso.
Buon lavoro!
- Giovanni Attanasio
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Re: Finalissima!
La fabbrica di sguardi
Giovanni Attanasio
Le spio tutte, da una fessurina della porta.
È da qualche settimana che le donne lavorano alla fabbrica. Questo ho potuto appurare. È da oggi, invece, che avrò il compito di istruirle. Perché mi sia stato dato questo incarico è una domanda che non devo pormi: il Dirigente ha deciso, il Partito ha avallato. Così è per me. Se così è per me, dovrò abituarmi e non protestare.
Qualche giorno addietro: mi appresto a raggiungere la sala conferenze.
«Gloria!» Saluto.
«Eterna!» Rispondono i colleghi.
È l’assemblea mattutina di noi capi di settore. Ci viene esposto, con estrema meticolosità invero, quale sarà il nostro compito e quale sarà, soprattutto, il compito delle donne. Noto, perentoriamente, che dalla porta appena dischiusa degli occhi— che giurerei non siano d’uomo!— mi scrutano.
«Non si distragga, lì in fondo!»
«S-sì. Chiedo perdono.» Chino il capo.
«Le donne, dicevo prima d’essere interrotto, sono perfette per lo scopo e la loro indole, d’indubbia natura servile, le rende eccezionalmente efficaci nello svolgere operazioni ripetitive; in tale modo noi uomini, voi istruttori nella fattispecie, potrete seguirle.» L’illustre si ferma. Riprende, impettito, con crescente fervore: «Se, e solo se, vi dimostrerete qualificati in questo primo compito, allora avanzerete sino ai settori di spicco, persino nelle aree dove si adoperano avveniristici meccanismi di precisione. Quale onore per voi! Gloria!»
«Eterna!» Urliamo in coro.
Adesso, in questo istante, entro per la prima volta nella nuova officina. Quale onore sarà. Viva il Partito! Viva la Fabbrica! Viva la Gloriosa! E, suppongo, perché no, viva le donne— non lo griderò nei corridoi, questo è certo.
«Gloria!» Saluto.
«Eterna!» Mi accolgono.
Il largo spazio adesso è adibito a produzione e stoccaggio di telai per infissi. Le donne di fronte a me sono vestite come madri e sorelle, di stoffe lanuginose e scure, sfilacciate, e di giacche e di gonnelle alla caviglia. Assemblano e rivettano. Gloria!, per loro, che possono godere della gioia di lavorare in fabbrica per il Partito.
Tali donne, mi accorgo, hanno davvero un’indole peculiare— subordinata, mi azzarderei a dire. Parlano pochissimo tra loro. Ma io, Gloria!, mi permetto di gradire il loro chiacchiericcio, almeno come intervallo al monotono e cigolante— ma piacevole, nelle giuste circostanze— rumoreggiare delle macchine. La pressione idraulica e gli sbuffi di vapore sollevano di poco, giusto di un filo, le gonne. Gloria!, mi permetto di sbirciare: indossano calzettoni slabbrati, osceni, da vecchia; la moda delle altre nazioni non ci appartiene. Giusto così, giustissimo. Le donne del Partito hanno decoro. Madre, a casa, tu hai decoro più di tutte. Lo hai trasmesso a noi figli e figlie.
C’è uno stridere curioso che pare di lamiera smerigliata e un po’ di topolini in soffitta. Nell’alzare il capo, allontanandolo dal giornale della Gloriosa, noto subito che quel suono è una risata. Devo dunque riporre la mia lettura, piegare la carta come mi è stato insegnato, impettirmi e rimproverarle.
Raggiungo la postazione della donna ridente— la terza fila di macchinari, un bancone dove si applica, via pressa, il marchio del Partito sui telai— e mi premuro di redarguirla con uno sguardo. Ma sono incapace, indegno del mio ruolo. Ruolo che, il Partito e il Dirigente non me ne vogliano, mi rendo conto di non saper ricoprire. La donna, infatti, che ha il crine giallo scuro come l’olio di ricambio del tornio a torre, perdura nel suo sogghignare.
«Mi dica, signore. Sto in qualche modo sbagliando l’operazione?» La donna mi interpella. Ha voce. Gloria!, che voce. E ha occhi: già visti altrove? «Signore, vuole forse mettermi in imbarazzo scrutandomi in silenzio?»
«No.»
«No, no. Certo.» Aggiusta il pezzo, tira la leva, imprime il marchio. Ha le unghie tutte intatte, nessun callo. Novizia. Indegna. «Cosa, dunque, signore?»
«Non rida più.»
È il momento del pranzo, momento in cui posso rivedere i vecchi compagni, quelli con cui ho diviso camere e sudore, giochi e scherzi. Giochi a cui invero per timidezza non ho spesso partecipato. Sia mai, pensavo, che il Partito lo scoprisse. Donne e uomini devono avere decoro.
«Gloria!» Mi interpellano.
«Eterna.» Rispondo, affiancandomi. Prendo posto al banco. Mangiamo.
«Compagno, sembri avvilito.»
Un altro si piazza di fianco. «Ti fanno sedere qui, con noi?»
E ridono. Di me. La risata pubblica dev’essere stata introdotta di recente, perché nel regolamento del Partito e della fabbrica che ho letto io, di certo non ne viene fatta menzione!
«Ah, oh!» Una voce di donna ammutolisce il nostro tavolo. «Signore, allora è qui che siete!» La donna ridente mi perseguita.
Mi alzo dal tavolo. «Sciocca, non vedi dove siamo?»
«È una mensa. Certo, non mi aspettavo fossero così gran—»
«Uomini e donne non si parlano, se non negli spazi prefissati. È chiaro?»
«Perché mai?»
Tutti mi osservano, gli altri colleghi che, ne sono certo, stanno decidendo se consegnarmi direttamente alle autorità per aver aperto bocca, anziché ignorare la palese provocazione a me rivolta.
«Signore?»
«Arrivederci.»
Dalle dodici e trenta alle tredici potrò socializzare in libertà. Lei però è lì. La vedo, isolata dalle altre. La posso scorgere attraverso un’apertura tra le spalle dei miei colleghi, che mi circondano. E la vedo, di nuovo, camminare nella mia direzione.
«Signore!»
«Non hai un minimo di riserbo, tu?»
«Altroché, sapesse mio padre quanto ha insistito che venissi cresciuta tutta timidina e riservata…»
«Ebbene?»
«Ebbene?» Piega di lato il capo, quei suoi occhi giganteschi più brillanti delle punte nuovissime installate al trapano verticale. Altrettanto penetranti, invero. «Signore, lei ha questa bizzarra abitudine, hm? Di interrompersi. E guardare.»
«Falso.» Gloria!, mi giudicano tutti. Eppure, se ben ricordo, tra le dodici e trenta e le tredici è possibile socializzare con chi si vuole. Non che uomini e donne interagiscano spesso— indecoroso, se non durante la serata del cinematografo— e difatti questa ridente fanciulla ignora bellamente ciò che la circonda; che colga i segnali, Gloria!, che si renda conto della sua stranezza nel rivolgermi la parola.
Suona la campana. Le tredici.
«Signore, dove—»
«Al lavoro. Immediatamente.»
La ridente creatura— che a un primo calcolo ha l’età della mia sorella derelitta, ma non più di un terzo del decoro— va col nome di Ute. Nome non di qui, poco ma sicuro, ma molto vicino. Qualcuna, forse la stimata dottoressa che si occupò del caso dell’amata sorella, si chiamava Ute.
Innegabile, e invero fastidioso, che questa donna, Ute, sempre ridente, mi turbi. L’occhio, che vorrei tenere occupato tra le righe del giornale che elogia il glorioso Partito, è attratto dalla forma a mezzaluna di quel sorriso, una forma così perfetta che né io né altri colleghi della fabbrica saremmo capaci di replicare coi macchinari. E mi perdoni il Partito se lo penso, ma devo convenire con chi dice che la Natura ha tra le mani il più preciso e fine dei calibri e un senso dell’estetica che sfugge agli architetti. Gloria! Gloria, sempre. Noi uomini, certamente, verissimo, siamo artefici e costruttori. Gloria! Che quel sorriso perisca, per quanto mi riguarda.
Ho munito il mio giornale— invero munisco ogni giornale da una certa mattina a questa parte— di un forellino, di millimetraggio irrisorio, con finalità di controllo e sorveglianza delle donne operaie. Posso, in questo modo, spiarle tenendo il foglio ben alto e fingendo disinteresse. E loro, pure le più remissive, allora si distendono e ridono, talvolta si dimenticano del loro compito— glorioso compito invero!— pur di chiacchierare di chissà che mondanità. No. Folle. Nessuna mondanità. Società di uomini e donne rigorosi. Ecco cosa siamo. I pazzi— ahimè, sorella amata, mi vieni tu alla mente— sono cosa disdegnata.
Dunque la sorveglio. Le sorveglio. Sorveglio loro tutte. Ma lei è giorno dopo giorno sempre più radiosa, il suo volto attraverso il foro m’abbaglia più dei fari che, nelle notti di tempesta, guidano i nostri passi ai dormitori.
La signorina Ute oggi è in pena. È distratta. Il buchino nel mio giornale— di millimetraggio adesso rilevante— restituisce solo in parte quel suo dolore. Mi turba. Gloria! Ma cosa vado a pensare?
«Signore!» È un grido di donna.
Lascio il giornale e cammino tra loro. «Cosa?»
«Signore, qui, la povera Ute!»
La signorina Ute, beatissima nel sonno, è distesa per terra. Gocce di sudore sul suo volto, su cui i fumi di sfogo delle valvole e le lampade a incandescenza si riflettono.
«Spostatevi tutte e fatele aria!»
«Ma signor—»
«Aria, dico io!»
E tutte si spostano. Io, solo io, mi chino su di lei per tergerle il sudore dalla fronte. La creatura respira. La sollevo, pongo l’attenzione necessaria a non toccarla in aree che sarebbero pertinenza— sono obbligato a supporre— d’un eventuale marito. Così issata, lei riapre appena gli occhi.
«Ah, è lei, signore...»
«Che ti è accaduto?»
«Un mancamento, signore. Capita. Mensilmente. Puntuale.»
«Con cadenza tanto esatta? Gloria! Di che malanno si tratta?»
Lei, però, la signorina Ute vestita degli occhi di tutti noi che l’adorniamo di curiosità, si limita a un sorriso dei suoi, giusto un filo più malinconico. «Signore, facevo di lei una persona istruita, sempre lì col giornale in mano e qualche libro sottobraccio. Eppure ignora, giusto? Ignora la condizione di noi donne.»
«Gloria! Come avrei potu— non sono certo affari miei!»
«Portatemi in infermeria, signore.»
«Non posso mettervi piede, dovrò delegare.»
«Vuole lasciarmi appassire? Ne soffro molto, signore, di questo male.»
Il Partito, Gloria!, grida di metter la vita di compagni e compagne davanti alla propria. Lei ne appassisce, ne muore, questo ha detto. Questo ho sentito.
Mi giustificherò, altroché, per aver varcato la soglia dell’area femminile— magazzino da poco adibito, con risultato impeccabile, a dormitorio— e aver condotto la mia sottoposta, tale signorina Ute, in infermeria. Mi giustificherò con queste parole, poiché nessuna direttiva è stata violata, nessun torto è stato fatto, nessun crimine è stato commesso. Sono, lo ripeterò se serve, un sano cittadino e fedele del Partito; di mente sana, di corpo sano, di sani ideali.
Devo ripeterlo, devo davvero, dovrò invero ripeterlo cento volte, perché non devo convincere loro, ma me stesso. Non spiego, non so spiegarmi, quale sia stata altrimenti la ragione di quel mio gesto. L’averla presa, soccorsa, aver avuto il piacere— che parola inopportuna!— di saggiarne il corpo leggero, magro, odoroso non come quello della madre o della sorella impazzita, né del bebè che ella allatta al seno insipido e stanco, ma fresco in altro modo. Di gaiezza e giovinezza.
No. Non devo giustificarmi di questo, invero. Devo giustificarmi di essermi chinato, giusto di qualche grado, come quando regolavo il tornio, e d’aver poggiato la fronte contro la serratura della porta dell’infermeria. Il corridoio era vuoto. Allora ho guardato dentro, in quel forellino, irrilevante nel millimetraggio, ma assolutamente rilevante per il carbone asciutto nel mio petto, bisognoso d’una scintilla. Gloria!, non saprei descrivere quel fuoco, quel calore forse pure superiore alla fornace. Lei, la signorina Ute, lì sul lettino e con le gambe— del tutto scoperte, quale visione!— che fremevano del tocco dell’infermiera, che asciugava e tamponava più nel profondo. Quelle sue dita dei piedi, minuscole e contratte, parevano sapere d’essere osservate e allora ogni volta che battevo le palpebre loro restavano immobili, e quando le riaprivo tornavano ad animarsi così che potessi apprezzarne le minuzie, i piccoli spasmi che tendevano la carne e stiravano la pelle. Lei, la signorina Ute, che al ginocchio aveva qualche cicatrice, scivolava languida sul letto, giusto un filo, così che il mio sguardo pazzo e frenetico potesse cogliere il minuscolo accenno di peluria, di qualcosa che invero mai avevo potuto vedere né in mia madre né in mia sorella, poiché il padre mi avrebbe fustigato se mi avesse colto a spiare. Eppure avevo visto, ormai avevo visto! Gloria!
No. Non più gloria, per me. Non più.
La signorina Ute esce dalla porta dell’infermeria. Ci sono saluti e ringraziamenti.
«Rientriamo in fabbrica.» La mia voce tentenna, espressione della mia colpevolezza. «Signorina Ute?»
«Ha guardato?»
«Cosa avrei guardato?»
Lei, di cui sino a quel momento ho sottovalutato il genio perfido, poggia il dito contro la serratura. «Guarda sempre, signore. Non è così?»
«Falso.»
Falso. Falso. Falso. Gloria!, dico che è falso! Pietà.
Alle diciotto e quaranta, a metà della pausa per socializzare dopo la doccia e prima di cena, la signorina Ute mi ingaggia. Ha i capelli umidi, la pelle liscia. Il maglioncino che di solito indossa le sta stretto, sottolinea dettagli che l’occhio di un operaio del mio calibro deve saper cogliere.
«Signore, posso dirle una cosa?»
Io nego col capo. Ma ciò non la scoraggia.
«Signore, una cosa sola.»
«Che sia breve.»
«La sera non presenzierò alle trasmissioni del Partito. Resterò in camera mia. Sola.»
«Questo non è permesso.»
«Non le pare, nemmeno un po’, che troppo poco sia permesso? Io voglio parlarle, signore, voglio che lei mi guardi. Questa fabbrica, che doveva essere una punizione, è adesso una benedizione.»
Le sue dita si muovono, lo stesso movimento di chi deve regolare la pressa idraulica. Lei, la sua pressa, l’ha regolata invero il giorno che ha messo piede in questa fabbrica. Sotto quella pressa, è innegabile ormai, ci sono io.
Di tanto in tanto, non spesso e con scuse sempre nuove, mi permetto di assentarmi dalla proiezione del messaggio serale del Partito. Mi muovo spedito, sono un minuscolo pezzo di metallo su un lungo nastro trasportatore e corro e rotolo verso quella fessura, quel foro nella serratura. Scorro e corro e rotolo e cado in quella che invero è una fornace da cui sorgerò, nella mia liquida incandescenza, per essere dalla signora Ute martellato e piallato e modellato secondo la sua volontà.
La guardo, la osservo. La serratura di camera sua dà, senza niente a ostacolarla, direttamente sul letto. Lei, lì distesa e in vestaglia, sembra percepire la mia presenza fuori dalla porta. Ci percepiamo, oh, eccome se questo accade. Gloria! Gloria. Gloria sussurro tra i denti e lei recita, con una mano tra le cosce, la parola Eterna. Non me ne voglia, il Partito, se abbiamo ridotto il Saluto encomiabile e rigoso a tacito scambio per il nostro sollazzo privato.
Io qui, che ancora balbetto Gloria, spinto contro la porta e avvilito dalla smania, ansimo e prego di potermi presto liberare nei miei stessi pantaloni, di espellere dal corpo la foga rovente che vorrei invero versarle addosso, versarle dentro. Vorrei. Quanto vorrei.
Lei lì, che ancora balbetta Eterna. Eterna. Eterna perché eterno è il mio supplizio nel guardarla esplorarsi, toccarsi, saggiarsi, viversi, intrecciarsi e distendersi. Non so, non posso invero immaginare, se il piacere che le sento sillabare nel vuoto di quella stanza sia forte quanto quello di noi uomini, essendo io stupido e ignorante. Ma nella mia totale incapacità di comprenderla, bevo attraverso quel forellino, bevo quei suoi succhi e quel suo nettare, la sua bramosia— che invero pare così simile alla mia— che si esaurisce in pochi suoni gutturali e sbuffi felici.
Ci guardiamo. Io e lei. La fabbrica, tutta radunata in sala ad ascoltare gli sproloqui del Partito. Noi qui, uniti, separati da una porta, ad ascoltare non so bene cosa. Deve ancora definirsi. Lo definiremo. Siamo operai, io e lei, forgiatori di professione.
Ho commesso un grave errore. Ho, nella mia stupidità assoluta, pensato d’essere superiore al Partito, alla fabbrica, alla volontà di mio padre e della mia famiglia a cui, mi perdonino, toglierò adesso ogni forma di introito. Lei, la mia Ute, altrettanto incauta, è stata a sua volta punita e umiliata; le altre la calunniano, dicono cose di lei che il Partito dovrebbe aborrire, ma che invece incentiva perché fanno più male delle frustate. All’interno della fabbrica corrono voci su di noi. Questo per via del mio errore. Del mio voler girare la maniglia. Del mio voler sciogliermi e fondermi su di lei, colare come si fa colare il metallo in uno stampo: sarei rinato, sarei stato forgiato. Gloria! Ah, sarebbe stata invero gloria immensa.
Siamo stati colti, scovati assieme. Io su di lei con ancora addosso la maglia del lavoro e lei, che nella fretta s’era solo riuscita ad alzare la gonna sino alla vita. Lì, assieme, due gelidi blocchi di metallo che cercavano di saldarsi sfregandosi l’un l’altro, con una forza e velocità invero strabilianti! Colti. In flagranza di reato. Reato che è quello di aver messo in ridicolo il Partito e i suoi dettami, la fabbrica intera e il Dirigente.
Ho potuto tenere il lavoro. Potrò, in questo modo, fare sì che nessuno a casa noti la differenza. I miei soldi, sporchi del sudore e del grasso nero, giungeranno a destinazione. Lei, la mia Ute, so che è stata picchiata da alcune colleghe. So che adesso mangia sola, dopo che noi tutti abbiamo consumato, così che non cada in tentazione. Pazzi! Pazzi tutti voi, mica noi! Tentazione? Pazzi. Non c’è gloria, in questo. Non c’è. Perché io, pur punito, vengo osannato dai miei colleghi che cantano il mio nome, elogiano la mia passione nei confronti di una donnaccia— e vorrei picchiarli, quando la chiamano a quel modo. Dov’è la gloria, in questo?
Gloria, dico io al mattino.
Eterna, rispondono loro.
Falsità. Eterna.
Assemblerò, d’ora in poi e temo per tutta la vita, serrature. Assemblo le stesse serrature attraverso cui l’ho guardata, ammirata e amata.
La vedo, affiora appena da dietro l’angolo, nel minuscolo spazio tra il macchinario e la parete. La raggiungo. La prendo per mano.
«Che fai qui? Ti malmenano, come minimo!»
«Tu mi ami?»
«Io ti amo, è chiaro! Ma la mia famiglia, Ute, loro—»
«Tu mi ami.»
«Io ti amo.»
«Bene.»
Le vorrei asciugare le lacrime, macchiarle il volto del grasso che uso per lucidare i meccanismi viscidi di queste serrature, di questi aggeggi che sembrano ideati solo per separare amanti che vorrebbero abbracciarsi.
«Dunque, Ute?»
«Sabato, alla serata della proiezione del film. Ci sarai?»
«Certo.»
«Dobbiamo agire. Salvarci. Non c’è tempo, ormai.» E se ne va.
Alla serata della proiezione sono presenti tutti. Tutti coloro che vivono e lavorano nella fabbrica. Io e Ute siamo molto distanti. Lei si alza. Mi osserva. Nessuno le dice nulla, né la ferma. Esce dalla sala.
Esco. Lei è lì, sotto la neve che cade come fuliggine dalle altissime ciminiere della fabbrica. Lei è lì.
«Me ne vado.»
«Ute, dove vai?»
«Non vado bene alla mia famiglia. Non vado bene alla fabbrica. Forse non vado bene nemmeno a te.»
«Se andrai, il Parti—»
«Sei davvero così inetto?»
Lo sono, invero. Devo esserlo.
«Amore mio, il Partito è la causa della rovina della tua famiglia e della mia! Questo Stato è morto. Sai come vivono altrove? Lo sai? Lo vuoi scoprire? Porta con te la tua famiglia, se vorranno.»
«Ho una sorella inferma.»
«L’hanno resa inferma, così come rischiano di rendere me pazza! E te, certo. Ma noi donne, ah, sapessi che miseria.»
«Io voglio guardarti davvero, Ute. Non solo spiarti.»
«Allora andiamocene. Nessuno ci fermerà. Se restiamo, moriremo come tutti loro. Andiamo. Dimostra d’amarmi.»
«Ci verranno a cercare.»
La mia Ute inizia a camminare. Nella neve e verso i cancelli. Questo spazio è troppo vasto, l’esterno è troppo grande. Non so che fare. Come si vive, qui fuori? L’aria non sa di niente. Ute.
Unisco le dita, come per formare un anello. Una lente d’ingrandimento, piccola, dal millimetraggio ormai noto, confortante. Inquadro Ute, lontana. La ammiro, al centro del piccolo foro tra le mie dita. Metto le mani in tasca. Faccio il primo passo.
Giovanni Attanasio
Le spio tutte, da una fessurina della porta.
È da qualche settimana che le donne lavorano alla fabbrica. Questo ho potuto appurare. È da oggi, invece, che avrò il compito di istruirle. Perché mi sia stato dato questo incarico è una domanda che non devo pormi: il Dirigente ha deciso, il Partito ha avallato. Così è per me. Se così è per me, dovrò abituarmi e non protestare.
Qualche giorno addietro: mi appresto a raggiungere la sala conferenze.
«Gloria!» Saluto.
«Eterna!» Rispondono i colleghi.
È l’assemblea mattutina di noi capi di settore. Ci viene esposto, con estrema meticolosità invero, quale sarà il nostro compito e quale sarà, soprattutto, il compito delle donne. Noto, perentoriamente, che dalla porta appena dischiusa degli occhi— che giurerei non siano d’uomo!— mi scrutano.
«Non si distragga, lì in fondo!»
«S-sì. Chiedo perdono.» Chino il capo.
«Le donne, dicevo prima d’essere interrotto, sono perfette per lo scopo e la loro indole, d’indubbia natura servile, le rende eccezionalmente efficaci nello svolgere operazioni ripetitive; in tale modo noi uomini, voi istruttori nella fattispecie, potrete seguirle.» L’illustre si ferma. Riprende, impettito, con crescente fervore: «Se, e solo se, vi dimostrerete qualificati in questo primo compito, allora avanzerete sino ai settori di spicco, persino nelle aree dove si adoperano avveniristici meccanismi di precisione. Quale onore per voi! Gloria!»
«Eterna!» Urliamo in coro.
Adesso, in questo istante, entro per la prima volta nella nuova officina. Quale onore sarà. Viva il Partito! Viva la Fabbrica! Viva la Gloriosa! E, suppongo, perché no, viva le donne— non lo griderò nei corridoi, questo è certo.
«Gloria!» Saluto.
«Eterna!» Mi accolgono.
Il largo spazio adesso è adibito a produzione e stoccaggio di telai per infissi. Le donne di fronte a me sono vestite come madri e sorelle, di stoffe lanuginose e scure, sfilacciate, e di giacche e di gonnelle alla caviglia. Assemblano e rivettano. Gloria!, per loro, che possono godere della gioia di lavorare in fabbrica per il Partito.
Tali donne, mi accorgo, hanno davvero un’indole peculiare— subordinata, mi azzarderei a dire. Parlano pochissimo tra loro. Ma io, Gloria!, mi permetto di gradire il loro chiacchiericcio, almeno come intervallo al monotono e cigolante— ma piacevole, nelle giuste circostanze— rumoreggiare delle macchine. La pressione idraulica e gli sbuffi di vapore sollevano di poco, giusto di un filo, le gonne. Gloria!, mi permetto di sbirciare: indossano calzettoni slabbrati, osceni, da vecchia; la moda delle altre nazioni non ci appartiene. Giusto così, giustissimo. Le donne del Partito hanno decoro. Madre, a casa, tu hai decoro più di tutte. Lo hai trasmesso a noi figli e figlie.
C’è uno stridere curioso che pare di lamiera smerigliata e un po’ di topolini in soffitta. Nell’alzare il capo, allontanandolo dal giornale della Gloriosa, noto subito che quel suono è una risata. Devo dunque riporre la mia lettura, piegare la carta come mi è stato insegnato, impettirmi e rimproverarle.
Raggiungo la postazione della donna ridente— la terza fila di macchinari, un bancone dove si applica, via pressa, il marchio del Partito sui telai— e mi premuro di redarguirla con uno sguardo. Ma sono incapace, indegno del mio ruolo. Ruolo che, il Partito e il Dirigente non me ne vogliano, mi rendo conto di non saper ricoprire. La donna, infatti, che ha il crine giallo scuro come l’olio di ricambio del tornio a torre, perdura nel suo sogghignare.
«Mi dica, signore. Sto in qualche modo sbagliando l’operazione?» La donna mi interpella. Ha voce. Gloria!, che voce. E ha occhi: già visti altrove? «Signore, vuole forse mettermi in imbarazzo scrutandomi in silenzio?»
«No.»
«No, no. Certo.» Aggiusta il pezzo, tira la leva, imprime il marchio. Ha le unghie tutte intatte, nessun callo. Novizia. Indegna. «Cosa, dunque, signore?»
«Non rida più.»
È il momento del pranzo, momento in cui posso rivedere i vecchi compagni, quelli con cui ho diviso camere e sudore, giochi e scherzi. Giochi a cui invero per timidezza non ho spesso partecipato. Sia mai, pensavo, che il Partito lo scoprisse. Donne e uomini devono avere decoro.
«Gloria!» Mi interpellano.
«Eterna.» Rispondo, affiancandomi. Prendo posto al banco. Mangiamo.
«Compagno, sembri avvilito.»
Un altro si piazza di fianco. «Ti fanno sedere qui, con noi?»
E ridono. Di me. La risata pubblica dev’essere stata introdotta di recente, perché nel regolamento del Partito e della fabbrica che ho letto io, di certo non ne viene fatta menzione!
«Ah, oh!» Una voce di donna ammutolisce il nostro tavolo. «Signore, allora è qui che siete!» La donna ridente mi perseguita.
Mi alzo dal tavolo. «Sciocca, non vedi dove siamo?»
«È una mensa. Certo, non mi aspettavo fossero così gran—»
«Uomini e donne non si parlano, se non negli spazi prefissati. È chiaro?»
«Perché mai?»
Tutti mi osservano, gli altri colleghi che, ne sono certo, stanno decidendo se consegnarmi direttamente alle autorità per aver aperto bocca, anziché ignorare la palese provocazione a me rivolta.
«Signore?»
«Arrivederci.»
Dalle dodici e trenta alle tredici potrò socializzare in libertà. Lei però è lì. La vedo, isolata dalle altre. La posso scorgere attraverso un’apertura tra le spalle dei miei colleghi, che mi circondano. E la vedo, di nuovo, camminare nella mia direzione.
«Signore!»
«Non hai un minimo di riserbo, tu?»
«Altroché, sapesse mio padre quanto ha insistito che venissi cresciuta tutta timidina e riservata…»
«Ebbene?»
«Ebbene?» Piega di lato il capo, quei suoi occhi giganteschi più brillanti delle punte nuovissime installate al trapano verticale. Altrettanto penetranti, invero. «Signore, lei ha questa bizzarra abitudine, hm? Di interrompersi. E guardare.»
«Falso.» Gloria!, mi giudicano tutti. Eppure, se ben ricordo, tra le dodici e trenta e le tredici è possibile socializzare con chi si vuole. Non che uomini e donne interagiscano spesso— indecoroso, se non durante la serata del cinematografo— e difatti questa ridente fanciulla ignora bellamente ciò che la circonda; che colga i segnali, Gloria!, che si renda conto della sua stranezza nel rivolgermi la parola.
Suona la campana. Le tredici.
«Signore, dove—»
«Al lavoro. Immediatamente.»
La ridente creatura— che a un primo calcolo ha l’età della mia sorella derelitta, ma non più di un terzo del decoro— va col nome di Ute. Nome non di qui, poco ma sicuro, ma molto vicino. Qualcuna, forse la stimata dottoressa che si occupò del caso dell’amata sorella, si chiamava Ute.
Innegabile, e invero fastidioso, che questa donna, Ute, sempre ridente, mi turbi. L’occhio, che vorrei tenere occupato tra le righe del giornale che elogia il glorioso Partito, è attratto dalla forma a mezzaluna di quel sorriso, una forma così perfetta che né io né altri colleghi della fabbrica saremmo capaci di replicare coi macchinari. E mi perdoni il Partito se lo penso, ma devo convenire con chi dice che la Natura ha tra le mani il più preciso e fine dei calibri e un senso dell’estetica che sfugge agli architetti. Gloria! Gloria, sempre. Noi uomini, certamente, verissimo, siamo artefici e costruttori. Gloria! Che quel sorriso perisca, per quanto mi riguarda.
Ho munito il mio giornale— invero munisco ogni giornale da una certa mattina a questa parte— di un forellino, di millimetraggio irrisorio, con finalità di controllo e sorveglianza delle donne operaie. Posso, in questo modo, spiarle tenendo il foglio ben alto e fingendo disinteresse. E loro, pure le più remissive, allora si distendono e ridono, talvolta si dimenticano del loro compito— glorioso compito invero!— pur di chiacchierare di chissà che mondanità. No. Folle. Nessuna mondanità. Società di uomini e donne rigorosi. Ecco cosa siamo. I pazzi— ahimè, sorella amata, mi vieni tu alla mente— sono cosa disdegnata.
Dunque la sorveglio. Le sorveglio. Sorveglio loro tutte. Ma lei è giorno dopo giorno sempre più radiosa, il suo volto attraverso il foro m’abbaglia più dei fari che, nelle notti di tempesta, guidano i nostri passi ai dormitori.
La signorina Ute oggi è in pena. È distratta. Il buchino nel mio giornale— di millimetraggio adesso rilevante— restituisce solo in parte quel suo dolore. Mi turba. Gloria! Ma cosa vado a pensare?
«Signore!» È un grido di donna.
Lascio il giornale e cammino tra loro. «Cosa?»
«Signore, qui, la povera Ute!»
La signorina Ute, beatissima nel sonno, è distesa per terra. Gocce di sudore sul suo volto, su cui i fumi di sfogo delle valvole e le lampade a incandescenza si riflettono.
«Spostatevi tutte e fatele aria!»
«Ma signor—»
«Aria, dico io!»
E tutte si spostano. Io, solo io, mi chino su di lei per tergerle il sudore dalla fronte. La creatura respira. La sollevo, pongo l’attenzione necessaria a non toccarla in aree che sarebbero pertinenza— sono obbligato a supporre— d’un eventuale marito. Così issata, lei riapre appena gli occhi.
«Ah, è lei, signore...»
«Che ti è accaduto?»
«Un mancamento, signore. Capita. Mensilmente. Puntuale.»
«Con cadenza tanto esatta? Gloria! Di che malanno si tratta?»
Lei, però, la signorina Ute vestita degli occhi di tutti noi che l’adorniamo di curiosità, si limita a un sorriso dei suoi, giusto un filo più malinconico. «Signore, facevo di lei una persona istruita, sempre lì col giornale in mano e qualche libro sottobraccio. Eppure ignora, giusto? Ignora la condizione di noi donne.»
«Gloria! Come avrei potu— non sono certo affari miei!»
«Portatemi in infermeria, signore.»
«Non posso mettervi piede, dovrò delegare.»
«Vuole lasciarmi appassire? Ne soffro molto, signore, di questo male.»
Il Partito, Gloria!, grida di metter la vita di compagni e compagne davanti alla propria. Lei ne appassisce, ne muore, questo ha detto. Questo ho sentito.
Mi giustificherò, altroché, per aver varcato la soglia dell’area femminile— magazzino da poco adibito, con risultato impeccabile, a dormitorio— e aver condotto la mia sottoposta, tale signorina Ute, in infermeria. Mi giustificherò con queste parole, poiché nessuna direttiva è stata violata, nessun torto è stato fatto, nessun crimine è stato commesso. Sono, lo ripeterò se serve, un sano cittadino e fedele del Partito; di mente sana, di corpo sano, di sani ideali.
Devo ripeterlo, devo davvero, dovrò invero ripeterlo cento volte, perché non devo convincere loro, ma me stesso. Non spiego, non so spiegarmi, quale sia stata altrimenti la ragione di quel mio gesto. L’averla presa, soccorsa, aver avuto il piacere— che parola inopportuna!— di saggiarne il corpo leggero, magro, odoroso non come quello della madre o della sorella impazzita, né del bebè che ella allatta al seno insipido e stanco, ma fresco in altro modo. Di gaiezza e giovinezza.
No. Non devo giustificarmi di questo, invero. Devo giustificarmi di essermi chinato, giusto di qualche grado, come quando regolavo il tornio, e d’aver poggiato la fronte contro la serratura della porta dell’infermeria. Il corridoio era vuoto. Allora ho guardato dentro, in quel forellino, irrilevante nel millimetraggio, ma assolutamente rilevante per il carbone asciutto nel mio petto, bisognoso d’una scintilla. Gloria!, non saprei descrivere quel fuoco, quel calore forse pure superiore alla fornace. Lei, la signorina Ute, lì sul lettino e con le gambe— del tutto scoperte, quale visione!— che fremevano del tocco dell’infermiera, che asciugava e tamponava più nel profondo. Quelle sue dita dei piedi, minuscole e contratte, parevano sapere d’essere osservate e allora ogni volta che battevo le palpebre loro restavano immobili, e quando le riaprivo tornavano ad animarsi così che potessi apprezzarne le minuzie, i piccoli spasmi che tendevano la carne e stiravano la pelle. Lei, la signorina Ute, che al ginocchio aveva qualche cicatrice, scivolava languida sul letto, giusto un filo, così che il mio sguardo pazzo e frenetico potesse cogliere il minuscolo accenno di peluria, di qualcosa che invero mai avevo potuto vedere né in mia madre né in mia sorella, poiché il padre mi avrebbe fustigato se mi avesse colto a spiare. Eppure avevo visto, ormai avevo visto! Gloria!
No. Non più gloria, per me. Non più.
La signorina Ute esce dalla porta dell’infermeria. Ci sono saluti e ringraziamenti.
«Rientriamo in fabbrica.» La mia voce tentenna, espressione della mia colpevolezza. «Signorina Ute?»
«Ha guardato?»
«Cosa avrei guardato?»
Lei, di cui sino a quel momento ho sottovalutato il genio perfido, poggia il dito contro la serratura. «Guarda sempre, signore. Non è così?»
«Falso.»
Falso. Falso. Falso. Gloria!, dico che è falso! Pietà.
Alle diciotto e quaranta, a metà della pausa per socializzare dopo la doccia e prima di cena, la signorina Ute mi ingaggia. Ha i capelli umidi, la pelle liscia. Il maglioncino che di solito indossa le sta stretto, sottolinea dettagli che l’occhio di un operaio del mio calibro deve saper cogliere.
«Signore, posso dirle una cosa?»
Io nego col capo. Ma ciò non la scoraggia.
«Signore, una cosa sola.»
«Che sia breve.»
«La sera non presenzierò alle trasmissioni del Partito. Resterò in camera mia. Sola.»
«Questo non è permesso.»
«Non le pare, nemmeno un po’, che troppo poco sia permesso? Io voglio parlarle, signore, voglio che lei mi guardi. Questa fabbrica, che doveva essere una punizione, è adesso una benedizione.»
Le sue dita si muovono, lo stesso movimento di chi deve regolare la pressa idraulica. Lei, la sua pressa, l’ha regolata invero il giorno che ha messo piede in questa fabbrica. Sotto quella pressa, è innegabile ormai, ci sono io.
Di tanto in tanto, non spesso e con scuse sempre nuove, mi permetto di assentarmi dalla proiezione del messaggio serale del Partito. Mi muovo spedito, sono un minuscolo pezzo di metallo su un lungo nastro trasportatore e corro e rotolo verso quella fessura, quel foro nella serratura. Scorro e corro e rotolo e cado in quella che invero è una fornace da cui sorgerò, nella mia liquida incandescenza, per essere dalla signora Ute martellato e piallato e modellato secondo la sua volontà.
La guardo, la osservo. La serratura di camera sua dà, senza niente a ostacolarla, direttamente sul letto. Lei, lì distesa e in vestaglia, sembra percepire la mia presenza fuori dalla porta. Ci percepiamo, oh, eccome se questo accade. Gloria! Gloria. Gloria sussurro tra i denti e lei recita, con una mano tra le cosce, la parola Eterna. Non me ne voglia, il Partito, se abbiamo ridotto il Saluto encomiabile e rigoso a tacito scambio per il nostro sollazzo privato.
Io qui, che ancora balbetto Gloria, spinto contro la porta e avvilito dalla smania, ansimo e prego di potermi presto liberare nei miei stessi pantaloni, di espellere dal corpo la foga rovente che vorrei invero versarle addosso, versarle dentro. Vorrei. Quanto vorrei.
Lei lì, che ancora balbetta Eterna. Eterna. Eterna perché eterno è il mio supplizio nel guardarla esplorarsi, toccarsi, saggiarsi, viversi, intrecciarsi e distendersi. Non so, non posso invero immaginare, se il piacere che le sento sillabare nel vuoto di quella stanza sia forte quanto quello di noi uomini, essendo io stupido e ignorante. Ma nella mia totale incapacità di comprenderla, bevo attraverso quel forellino, bevo quei suoi succhi e quel suo nettare, la sua bramosia— che invero pare così simile alla mia— che si esaurisce in pochi suoni gutturali e sbuffi felici.
Ci guardiamo. Io e lei. La fabbrica, tutta radunata in sala ad ascoltare gli sproloqui del Partito. Noi qui, uniti, separati da una porta, ad ascoltare non so bene cosa. Deve ancora definirsi. Lo definiremo. Siamo operai, io e lei, forgiatori di professione.
Ho commesso un grave errore. Ho, nella mia stupidità assoluta, pensato d’essere superiore al Partito, alla fabbrica, alla volontà di mio padre e della mia famiglia a cui, mi perdonino, toglierò adesso ogni forma di introito. Lei, la mia Ute, altrettanto incauta, è stata a sua volta punita e umiliata; le altre la calunniano, dicono cose di lei che il Partito dovrebbe aborrire, ma che invece incentiva perché fanno più male delle frustate. All’interno della fabbrica corrono voci su di noi. Questo per via del mio errore. Del mio voler girare la maniglia. Del mio voler sciogliermi e fondermi su di lei, colare come si fa colare il metallo in uno stampo: sarei rinato, sarei stato forgiato. Gloria! Ah, sarebbe stata invero gloria immensa.
Siamo stati colti, scovati assieme. Io su di lei con ancora addosso la maglia del lavoro e lei, che nella fretta s’era solo riuscita ad alzare la gonna sino alla vita. Lì, assieme, due gelidi blocchi di metallo che cercavano di saldarsi sfregandosi l’un l’altro, con una forza e velocità invero strabilianti! Colti. In flagranza di reato. Reato che è quello di aver messo in ridicolo il Partito e i suoi dettami, la fabbrica intera e il Dirigente.
Ho potuto tenere il lavoro. Potrò, in questo modo, fare sì che nessuno a casa noti la differenza. I miei soldi, sporchi del sudore e del grasso nero, giungeranno a destinazione. Lei, la mia Ute, so che è stata picchiata da alcune colleghe. So che adesso mangia sola, dopo che noi tutti abbiamo consumato, così che non cada in tentazione. Pazzi! Pazzi tutti voi, mica noi! Tentazione? Pazzi. Non c’è gloria, in questo. Non c’è. Perché io, pur punito, vengo osannato dai miei colleghi che cantano il mio nome, elogiano la mia passione nei confronti di una donnaccia— e vorrei picchiarli, quando la chiamano a quel modo. Dov’è la gloria, in questo?
Gloria, dico io al mattino.
Eterna, rispondono loro.
Falsità. Eterna.
Assemblerò, d’ora in poi e temo per tutta la vita, serrature. Assemblo le stesse serrature attraverso cui l’ho guardata, ammirata e amata.
La vedo, affiora appena da dietro l’angolo, nel minuscolo spazio tra il macchinario e la parete. La raggiungo. La prendo per mano.
«Che fai qui? Ti malmenano, come minimo!»
«Tu mi ami?»
«Io ti amo, è chiaro! Ma la mia famiglia, Ute, loro—»
«Tu mi ami.»
«Io ti amo.»
«Bene.»
Le vorrei asciugare le lacrime, macchiarle il volto del grasso che uso per lucidare i meccanismi viscidi di queste serrature, di questi aggeggi che sembrano ideati solo per separare amanti che vorrebbero abbracciarsi.
«Dunque, Ute?»
«Sabato, alla serata della proiezione del film. Ci sarai?»
«Certo.»
«Dobbiamo agire. Salvarci. Non c’è tempo, ormai.» E se ne va.
Alla serata della proiezione sono presenti tutti. Tutti coloro che vivono e lavorano nella fabbrica. Io e Ute siamo molto distanti. Lei si alza. Mi osserva. Nessuno le dice nulla, né la ferma. Esce dalla sala.
Esco. Lei è lì, sotto la neve che cade come fuliggine dalle altissime ciminiere della fabbrica. Lei è lì.
«Me ne vado.»
«Ute, dove vai?»
«Non vado bene alla mia famiglia. Non vado bene alla fabbrica. Forse non vado bene nemmeno a te.»
«Se andrai, il Parti—»
«Sei davvero così inetto?»
Lo sono, invero. Devo esserlo.
«Amore mio, il Partito è la causa della rovina della tua famiglia e della mia! Questo Stato è morto. Sai come vivono altrove? Lo sai? Lo vuoi scoprire? Porta con te la tua famiglia, se vorranno.»
«Ho una sorella inferma.»
«L’hanno resa inferma, così come rischiano di rendere me pazza! E te, certo. Ma noi donne, ah, sapessi che miseria.»
«Io voglio guardarti davvero, Ute. Non solo spiarti.»
«Allora andiamocene. Nessuno ci fermerà. Se restiamo, moriremo come tutti loro. Andiamo. Dimostra d’amarmi.»
«Ci verranno a cercare.»
La mia Ute inizia a camminare. Nella neve e verso i cancelli. Questo spazio è troppo vasto, l’esterno è troppo grande. Non so che fare. Come si vive, qui fuori? L’aria non sa di niente. Ute.
Unisco le dita, come per formare un anello. Una lente d’ingrandimento, piccola, dal millimetraggio ormai noto, confortante. Inquadro Ute, lontana. La ammiro, al centro del piccolo foro tra le mie dita. Metto le mani in tasca. Faccio il primo passo.
"Scrivo quello che voglio e come voglio. Fatevelo piacere."
- Shanghai Kid
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Re: Finalissima!
Attesa
Guardo il cielo dallo squarcio nella pesante tenda rossa.
È tutto così distante e piccolo quando lo guardi da una finestra del quinto piano.
Tengo la fessura aperta con le mani e l’azzurro brillante di questo sabato di maggio mi fa inumidire gli occhi. Le lacrime mi bagnano i baffi.
Da quando ne ho memoria, sono sempre stato attratto dagli squarci, dai pertugi, dalle spaccature che permettono allo spazio di essere uno, oltre la barriera di cui si serve l’uomo per sentirsi al sicuro.
Perimetrare le cose. Creare confini che ci rendano meno spaventosa la vastità che non sappiamo capire.
Una nuvola solitaria e timida sporca di bianco il celeste perfetto di lassù.
Lascio che i polpastrelli si perdano al tatto con il tessuto, proprio come i miei occhi stanno facendo con il cielo.
L’aria è della temperatura migliore: quella sotto cui immagino qualcuno disteso in un prato a leggere un libro. Mi stuzzica il naso e sento il leggero pizzicore che i pollini provocano alle narici. Ispiro ed espiro profondamente, per abituarmi a non sentirlo più. Oggi è il giorno in cui imparare a lasciare che quell’aria mi penetri senza annunciarsi e si trasformi in fiato caldo da restituire al mondo.
Sono sempre rimasto intrappolato nei miei pensieri, ma ho imparato che abbandonarsi a se stessi è l’unico modo per essere onesti. Anche oggi che i ricordi del passato, le riflessioni del presente e le aspettative sul futuro si mescolano in un turbinio disordinato.
Fisso la nuvola che interrompe la monocromia del cielo e penso che siamo tutti spazio e ostacoli allo spazio. Siamo tutti parte della stessa cosa e siamo anche la sua interruzione. Siamo partecipi di noi stessi e dei nostri opposti. Siamo uno e negazione dell’uno.
Una volta ho provato a spiegarlo.
Mia mamma appoggiò i biscotti sul tavolo e mi si sedette accanto.
“Cerca di fare la persona normale!”, la vedo ancora pronunciare queste parole coprendosi la bocca, così che le sue amiche non la sentano o non le leggano il labbiale. Ma io sì. É capitato altre volte: non le piaceva molto l’idea che tutti sapessero che aveva un figlio matto.
Si vergognavano di certi miei discorsi: è una cosa che ho sempre percepito.
Eravamo a tavola. Io muovevo la purea con la forchetta. Non alzai lo sguardo dal piatto. La mia voce era sottile: “Per me la vita è stata un’angheria continua”, mio padre deglutì il suo boccone e mi fissò. “I tagli, gli squarci, i pertugi e l’idea che quelle superfici sono state una volta intonse, integre, in attesa della rottura che ricollega il tutto al tutto…”. Mia madre sospirò, si alzò e iniziò a sparecchiare. “Questo pensiero mi dà pace…”, proseguii.
“Tu, figliolo, hai una fervida immaginazione, ma non tutti possono capirti… Non dico che non devi pensare certe cose, però, ecco, forse è meglio che tu le tenga per te”, il sorriso che colorava la barba fulva di mio padre, quei denti perfetti che lasciavano uscire dalla bocca solo parole più edulcorate di quelle che pensava davvero: questa è l’eredità che mi rimane del suo perbenismo.
Lascio la tenda e mi accarezzo le cicatrici sul braccio, le seguo come un cieco leggerebbe una poesia in braille.
Una poesia, già.
“Tu pensi la vita come a una poesia, invece è una prosa spesso anche scritta male”, il professore mi consegnò il tema. Non capivo: sarebbe dovuto essere soddisfatto, invece sembrava preoccupato. “Il testo è buono, come sempre. Sei tu che mi preoccupi. Finchè penserai in questi termini, la vita sarà una delusione. Credimi”.
Volevo dei varchi nel mio braccio. Volevo che lo spazio si unisse allo spazio. Avrei continuato se non mi avessero fermato.
Ho provato a spiegare loro le mie ragioni, ma non hanno capito.
Non hanno mai capito nulla dei tagli, dei varchi, dei pertugi. Tanto meno dell’attesa che li precede.
Ricordo con precisione quando il primo varco si è aperto dentro di me. Quando mi sono rotto. O forse mi sono aggiustato. Forse si nasce rotti e ci si aggiusta così.
Prima c’è stata l’attrazione per il foro. L’attesa frenetica di vedere cosa si nasconde dentro ai buchi, di scoprire dove va lo spazio che si sposta da una stanza all’altra.
Poi, si è aperto il varco invisibile. Quello che vedo e sento solo io.
L’albero addobbato con cura riempiva l’angolo della sala.
Ho sempre adorato le vacanze di Natale, perchè l’aria diventava elettrica e io, il papà e la mamma facevamo tante cose insieme.
Erano più o meno le sei di sera, me lo ricordo perchè Annamaria era passata un’ora prima per il tè delle cinque, l’appuntamento che lei e la mamma si davano tutti i venerdì pomeriggio.
La mamma versò il tè caldo nella tazza dell’amica, che se ne stava composta al tavolo della cucina: “Ho solo mezz'ora perché mi chiudono i negozi e devo comprare gli ultimi regali, vorrei avere tutto per domani”.
“Ci mancherebbe, scusami se non ti ho avvisata, ma sai, è un po’ il nostro rito e―”.
“Stai scherzando? Scusami tu, ma davvero voglio levarmi quest’incombenza e godermi un po’ Mario e Lucio in questi giorni”, mia madre mise i biscotti sul tavolo e si sedette accanto ad Annamaria.
Io sentivo la loro conversazione dalla sala, dove stavo completando, sul pavimento, il puzzle che i nonni mi avevano regalato per il compleanno: due cavalli al galoppo in un prato verdissimo.
Le chiacchiere erano proseguite incessantemente, fino a che il campanile della piazza vicina non aveva suonato la mezza.
“Lucio, noi usciamo!”, mi aveva gridato la mamma dopo essersi messa il cappotto, ormai già sull’uscio, “Torno tra un paio d’ore al massimo. Saluta Annamaria!”.
“Ciao Annamaria!”, gridai distratto, con gli occhi fissi sul pavimento, alla ricerca del pezzo giusto da incastrare.
Avevo dieci anni, adoravo i puzzle e adoravo stare a casa da solo.
Sapevo che il papà sarebbe rientrato a breve, ma tanto si sarebbe chiuso nel suo studio, come al solito, per finire “le sue pratiche”, le chiamava così, e visto che ero in vacanza non mi avrebbe rotto troppo con le cose da fare. Avevo ancora almeno un paio d’ore per giocare.
Il tempo trascorse sereno e il puzzle era quasi finito, era rimasto un solo buco, centrale, sul muso del cavallo bianco.
Cercai il pezzo mancante intorno, ma non lo trovavo. Sollevai il lembo più vicino del tappeto per controllare che non fosse finito lì sotto: nulla. Mi abbassai per controllare sotto il divano, ma non vedevo niente.
Fissai quel buco nel puzzle insistentemente. A ripensarci ora, credo che fu in quel momento a insinuarsi in me la sensazione che ci fosse nel vuoto un potenziale, più che un’assenza. Che rappresentasse un passaggio. All’epoca fu solo un’intuizione e presto tornai a desiderare la chiusura di quel piccolo varco irregolare.
Non mi arresi e mi decisi ad andare in camera per cercare la torcia così da poter guardare meglio sotto il divano.
Probabilmente fu in quel momento che entrarono, perché io non me ne accorsi.
Sono sempre stato un tipo disordinato e proprio non trovavo la pila elettrica.
Era nascosta nel cassetto dei calzini. L’afferrai e tornai in sala. Mi sdraiai e l’accesi.
“Eccoti!”, sussurrai felice di aver trovato l’ultimo tassello.
Infilai il braccio sotto il divano e lo recuperai.
“Ti finisco il muso, cavallino bianco” e schiacciai il pezzo in mezzo agli altri.
Il puzzle era completo. Certo, adesso dovevo trovare il modo di sollevarlo. Che idea stupida farlo sul pavimento. Quando torna la mamma le chiedo come tirarlo su, pensai alzandomi.
Sentii dei rumori provenire dallo studio.
“Ciao papi!”, nessuna risposta.
Mi diressi verso la porta, se non era troppo impegnato l’avrei salutato prima di inventarmi un altro gioco.
Dei rumori ripetitivi e ovattati uscivano indistinti dalla stanza.
Il corridoio era buio e dalla serratura dello studio usciva un filo di luce.
Mi avvicinai piano, fissai la porta scura e quel raggio ambrato.
Afferrai la maniglia e provai ad aprire la porta, piano. Nulla. Come al solito il papà si era chiuso dentro. La cosa non mi stupiva molto. Lo faceva sempre: chiudeva e si metteva la chiave in tasca con un gesto automatico. Diceva che si concentrava meglio se lasciava il mondo fuori dalla stanza.
I suoni ripetitivi e secchi continuavano sempre più velocemente.
Mi chinai e provai a guardare attraverso il foro della serratura.
Ci misi un po’ a capire quello che i miei occhi stavano vedendo.
Mio padre era in piedi, con le mani sulla scrivania e i pantaloni calati. Le sue natiche si contraevano e lui sembrava dare dei colpi a qualcosa. Mi spostai un po’ per cercare di vedere meglio.
Intorno alla sua vita c’erano delle gambe che indossavano stivali.
Iniziò a girarmi la testa. Sentii in bocca un sapore acido.
Scappai in sala e mi rannicchiai sotto l’albero di Natale.
Mi tenevo le ginocchia strette al petto e mi sforzavo di strizzare gli occhi chiusi quanto più possibile.
Non so quanto tempo rimasi in quella posizione.
La porta dello studio si aprì e li sentii attraversare il corridoio senza parlare. Erano quasi in cucina quando si aprì la porta di casa.
“Simona, amore mio!”, canticchiò mio padre. La mamma doveva essere tornata proprio in quel momento. Lo schiocco di un bacio. “Annamaria aveva dimenticato la sciarpa ed è tornata a prenderla. Stava per andare, ma sperava di salutarti!”.
“Rieccoci, Simo! Sono la solita stordita… Meno male che ho incontrato Mario!”.
“Sì, sei la solita! Ti vuoi fermare a cena?”, la mamma era sempre cordiale.
“No, no, mi aspettano Antonio e Giulia per cena, anzi, direi che è già tardi. Ci sentiamo i prossimi giorni?”, la voce di Annamaria era serena. Parlava esattamente come qualche ora prima.
“Va bene! Non dimenticarti ancora la sciarpa, però…”, immaginai la mamma passargliela.
“A presto”, la voce del papà coprì appena la porta d’ingresso che si apriva.
“A presto, salutatemi Lucio!”.
I passi del papà e della mamma si dirigevano verso la cucina.
“Dov’è il bambino? Lucio!”, la voce di mio padre mi arrivò come una sberla.
D’un tratto si accese la luce della sala. Aprii gli occhi.
“Lucio!”, la mamma mi guardava stupita, “ma cosa fai lì sotto?”.
“Gioco”, le lacrime uscirono senza che potessi trattenerle.
Mio padre si abbassò alla mia altezza. “Cosa è successo, racconta al papi…”, mi fece una carezza sulla guancia e un buffetto. “Sono sicuro che non è niente di irrisolvibile. Simona, tu vai a cucinare che ci parlo io con l’ometto”.
Mamma annuì: “Va bene, vi lascio chiacchierare, ma poi lo raccontate anche a me che altrimenti mi preoccupo… Ti preparo le lasagne che ti piacciono tanto, piccolo, va bene?”.
Mentre se ne andava, papà mi prese la testa tra le mani. Il suo sguardo fisso nel mio: era preoccupato.
“Non vuoi raccontare a papà cosa succede?”.
Non riuscivo a parlare.
“È qualcosa che hai sentito prima che tornasse la mamma?”, la pelle ruvida delle sue mani scorreva sulle mie guance.
Quello che ho visto, papà, non quello che ho sentito. Quello che ho sentito non l’ho capito. Non ho capito nemmeno fino in fondo quello che ho visto, ma mi ha fatto male. Non sapevo come dirgli quello che stavo pensando.
“Tu e Annamaria… Nello studio… Cosa, cosa stavate facendo, papà?”.
Le sue mani si fermarono e allentarono la presa sul mio volto. “Ehi, cosa stai dicendo, cucciolo di papà”, la sua voce aveva qualcosa di diverso, un tono che non avevo mai sentito. “Ho incontrato Annamaria sulle scale. Aveva dimenticato qui la sciarpa e l’ho fatta entrare per riprenderla… Non so cosa tu ti sia messo in testa, non ci siamo nemmeno entrati nel mio studio”, le sue dita tornarono a muoversi sulle mie gote. “Tu hai tanta immaginazione, Lucio, ed è davvero una cosa bella. Ma avere tanta immaginazione a volte può essere un problema, perché si fa fatica a distinguere le cose vere da quelle false. Non dire niente alla mamma, che poi si preoccupa, va bene?”.
Mi sentivo confuso. Mi ero sempre fidato del mio papà.
Cosa avevo visto davvero oltre il foro della serratura? Ne ero poi così sicuro?
Mio padre mi strinse forte a sé.
Appoggiai la mano sinistra sul pacco regalo che avevo più vicino e con l’unghia dell’indice stracciai verticalmente la carta, oltre la quale intravidi il puzzle che papà mi aveva preso per Natale.
Quello fu il mio primo taglio.
L’azzurro si arrossa gradualmente. La tenuità di questo tramonto mi commuove: mi sono sempre chiesto come fosse possibile per la vita essere così misurata. Se lo avessi dipinto io, il cielo sarebbe stato infuocato, insanguinato, della stessa tonalità di questa tenda lacerata. Non sono capace di medietà, io. Per me è impossibile non farmi permeare da tutto fino a sentire le budella tremare. Non riesco a ignorare in ogni ostacolo la possibilità del foro. Non riesco a evitare un piacere straziante nell’attesa di farne uno e di guardarci dentro, di vedere cosa c’è al di là. E non mi importa poi molto se quella visione è reale o no.
Mi importa solo di due cose: il taglio e l’attesa.
Vedere cosa succede.
Infilo una mano in tasca ed estraggo il tassello bianco di quel puzzle. Quello che ha permesso che mi rendessi conto del vuoto e della possibilità che racchiude.
Lo guardo e sorrido pensando che la sua assenza ha avuto per me più valore della sua presenza. Lui solo vale tutti i puzzle di cui è costellata la mia vita.
Qualche volta, mi chiedo se quello che sto guardando esiste davvero o se è tutto frutto della mia immaginazione.
Mi rispondo sempre che conta poco: io sono la mia immaginazione e quello che immagino non è meno vero di tutto il resto.
Io sono lo spazio e la sua interruzione.
Io sono il taglio e l’attesa.
Rimetto il pezzo di puzzle in tasca.
Qualche ora fa ho spalancato la finestra e ho inchiodato allo zoccoletto gli angoli inferiori della tenda. Ho preso il taglierino e l’ho tagliata in centro.
Un taglio verticale, alto quasi quanto me.
Mi alzo in piedi e lo spalanco: la tenda si squarcia e l’aria sottile mi accarezza.
Chiudo gli occhi. Una volta ho letto che la gente si butta perché è come se in casa sua vedesse delle fiamme, invisibili agli altri, e considerasse il vuoto la scelta migliore.
Nel mio caso non è così.
Io voglio che lo spazio si riunisca allo spazio.
Voglio che si cancelli il confine tra il reale e l’immaginato.
Voglio vedere cosa c’è dopo l’attesa.
Prendo coraggio.
Mi lancio.
Guardo il cielo dallo squarcio nella pesante tenda rossa.
È tutto così distante e piccolo quando lo guardi da una finestra del quinto piano.
Tengo la fessura aperta con le mani e l’azzurro brillante di questo sabato di maggio mi fa inumidire gli occhi. Le lacrime mi bagnano i baffi.
Da quando ne ho memoria, sono sempre stato attratto dagli squarci, dai pertugi, dalle spaccature che permettono allo spazio di essere uno, oltre la barriera di cui si serve l’uomo per sentirsi al sicuro.
Perimetrare le cose. Creare confini che ci rendano meno spaventosa la vastità che non sappiamo capire.
Una nuvola solitaria e timida sporca di bianco il celeste perfetto di lassù.
Lascio che i polpastrelli si perdano al tatto con il tessuto, proprio come i miei occhi stanno facendo con il cielo.
L’aria è della temperatura migliore: quella sotto cui immagino qualcuno disteso in un prato a leggere un libro. Mi stuzzica il naso e sento il leggero pizzicore che i pollini provocano alle narici. Ispiro ed espiro profondamente, per abituarmi a non sentirlo più. Oggi è il giorno in cui imparare a lasciare che quell’aria mi penetri senza annunciarsi e si trasformi in fiato caldo da restituire al mondo.
Sono sempre rimasto intrappolato nei miei pensieri, ma ho imparato che abbandonarsi a se stessi è l’unico modo per essere onesti. Anche oggi che i ricordi del passato, le riflessioni del presente e le aspettative sul futuro si mescolano in un turbinio disordinato.
Fisso la nuvola che interrompe la monocromia del cielo e penso che siamo tutti spazio e ostacoli allo spazio. Siamo tutti parte della stessa cosa e siamo anche la sua interruzione. Siamo partecipi di noi stessi e dei nostri opposti. Siamo uno e negazione dell’uno.
Una volta ho provato a spiegarlo.
Mia mamma appoggiò i biscotti sul tavolo e mi si sedette accanto.
“Cerca di fare la persona normale!”, la vedo ancora pronunciare queste parole coprendosi la bocca, così che le sue amiche non la sentano o non le leggano il labbiale. Ma io sì. É capitato altre volte: non le piaceva molto l’idea che tutti sapessero che aveva un figlio matto.
Si vergognavano di certi miei discorsi: è una cosa che ho sempre percepito.
Eravamo a tavola. Io muovevo la purea con la forchetta. Non alzai lo sguardo dal piatto. La mia voce era sottile: “Per me la vita è stata un’angheria continua”, mio padre deglutì il suo boccone e mi fissò. “I tagli, gli squarci, i pertugi e l’idea che quelle superfici sono state una volta intonse, integre, in attesa della rottura che ricollega il tutto al tutto…”. Mia madre sospirò, si alzò e iniziò a sparecchiare. “Questo pensiero mi dà pace…”, proseguii.
“Tu, figliolo, hai una fervida immaginazione, ma non tutti possono capirti… Non dico che non devi pensare certe cose, però, ecco, forse è meglio che tu le tenga per te”, il sorriso che colorava la barba fulva di mio padre, quei denti perfetti che lasciavano uscire dalla bocca solo parole più edulcorate di quelle che pensava davvero: questa è l’eredità che mi rimane del suo perbenismo.
Lascio la tenda e mi accarezzo le cicatrici sul braccio, le seguo come un cieco leggerebbe una poesia in braille.
Una poesia, già.
“Tu pensi la vita come a una poesia, invece è una prosa spesso anche scritta male”, il professore mi consegnò il tema. Non capivo: sarebbe dovuto essere soddisfatto, invece sembrava preoccupato. “Il testo è buono, come sempre. Sei tu che mi preoccupi. Finchè penserai in questi termini, la vita sarà una delusione. Credimi”.
Volevo dei varchi nel mio braccio. Volevo che lo spazio si unisse allo spazio. Avrei continuato se non mi avessero fermato.
Ho provato a spiegare loro le mie ragioni, ma non hanno capito.
Non hanno mai capito nulla dei tagli, dei varchi, dei pertugi. Tanto meno dell’attesa che li precede.
Ricordo con precisione quando il primo varco si è aperto dentro di me. Quando mi sono rotto. O forse mi sono aggiustato. Forse si nasce rotti e ci si aggiusta così.
Prima c’è stata l’attrazione per il foro. L’attesa frenetica di vedere cosa si nasconde dentro ai buchi, di scoprire dove va lo spazio che si sposta da una stanza all’altra.
Poi, si è aperto il varco invisibile. Quello che vedo e sento solo io.
L’albero addobbato con cura riempiva l’angolo della sala.
Ho sempre adorato le vacanze di Natale, perchè l’aria diventava elettrica e io, il papà e la mamma facevamo tante cose insieme.
Erano più o meno le sei di sera, me lo ricordo perchè Annamaria era passata un’ora prima per il tè delle cinque, l’appuntamento che lei e la mamma si davano tutti i venerdì pomeriggio.
La mamma versò il tè caldo nella tazza dell’amica, che se ne stava composta al tavolo della cucina: “Ho solo mezz'ora perché mi chiudono i negozi e devo comprare gli ultimi regali, vorrei avere tutto per domani”.
“Ci mancherebbe, scusami se non ti ho avvisata, ma sai, è un po’ il nostro rito e―”.
“Stai scherzando? Scusami tu, ma davvero voglio levarmi quest’incombenza e godermi un po’ Mario e Lucio in questi giorni”, mia madre mise i biscotti sul tavolo e si sedette accanto ad Annamaria.
Io sentivo la loro conversazione dalla sala, dove stavo completando, sul pavimento, il puzzle che i nonni mi avevano regalato per il compleanno: due cavalli al galoppo in un prato verdissimo.
Le chiacchiere erano proseguite incessantemente, fino a che il campanile della piazza vicina non aveva suonato la mezza.
“Lucio, noi usciamo!”, mi aveva gridato la mamma dopo essersi messa il cappotto, ormai già sull’uscio, “Torno tra un paio d’ore al massimo. Saluta Annamaria!”.
“Ciao Annamaria!”, gridai distratto, con gli occhi fissi sul pavimento, alla ricerca del pezzo giusto da incastrare.
Avevo dieci anni, adoravo i puzzle e adoravo stare a casa da solo.
Sapevo che il papà sarebbe rientrato a breve, ma tanto si sarebbe chiuso nel suo studio, come al solito, per finire “le sue pratiche”, le chiamava così, e visto che ero in vacanza non mi avrebbe rotto troppo con le cose da fare. Avevo ancora almeno un paio d’ore per giocare.
Il tempo trascorse sereno e il puzzle era quasi finito, era rimasto un solo buco, centrale, sul muso del cavallo bianco.
Cercai il pezzo mancante intorno, ma non lo trovavo. Sollevai il lembo più vicino del tappeto per controllare che non fosse finito lì sotto: nulla. Mi abbassai per controllare sotto il divano, ma non vedevo niente.
Fissai quel buco nel puzzle insistentemente. A ripensarci ora, credo che fu in quel momento a insinuarsi in me la sensazione che ci fosse nel vuoto un potenziale, più che un’assenza. Che rappresentasse un passaggio. All’epoca fu solo un’intuizione e presto tornai a desiderare la chiusura di quel piccolo varco irregolare.
Non mi arresi e mi decisi ad andare in camera per cercare la torcia così da poter guardare meglio sotto il divano.
Probabilmente fu in quel momento che entrarono, perché io non me ne accorsi.
Sono sempre stato un tipo disordinato e proprio non trovavo la pila elettrica.
Era nascosta nel cassetto dei calzini. L’afferrai e tornai in sala. Mi sdraiai e l’accesi.
“Eccoti!”, sussurrai felice di aver trovato l’ultimo tassello.
Infilai il braccio sotto il divano e lo recuperai.
“Ti finisco il muso, cavallino bianco” e schiacciai il pezzo in mezzo agli altri.
Il puzzle era completo. Certo, adesso dovevo trovare il modo di sollevarlo. Che idea stupida farlo sul pavimento. Quando torna la mamma le chiedo come tirarlo su, pensai alzandomi.
Sentii dei rumori provenire dallo studio.
“Ciao papi!”, nessuna risposta.
Mi diressi verso la porta, se non era troppo impegnato l’avrei salutato prima di inventarmi un altro gioco.
Dei rumori ripetitivi e ovattati uscivano indistinti dalla stanza.
Il corridoio era buio e dalla serratura dello studio usciva un filo di luce.
Mi avvicinai piano, fissai la porta scura e quel raggio ambrato.
Afferrai la maniglia e provai ad aprire la porta, piano. Nulla. Come al solito il papà si era chiuso dentro. La cosa non mi stupiva molto. Lo faceva sempre: chiudeva e si metteva la chiave in tasca con un gesto automatico. Diceva che si concentrava meglio se lasciava il mondo fuori dalla stanza.
I suoni ripetitivi e secchi continuavano sempre più velocemente.
Mi chinai e provai a guardare attraverso il foro della serratura.
Ci misi un po’ a capire quello che i miei occhi stavano vedendo.
Mio padre era in piedi, con le mani sulla scrivania e i pantaloni calati. Le sue natiche si contraevano e lui sembrava dare dei colpi a qualcosa. Mi spostai un po’ per cercare di vedere meglio.
Intorno alla sua vita c’erano delle gambe che indossavano stivali.
Iniziò a girarmi la testa. Sentii in bocca un sapore acido.
Scappai in sala e mi rannicchiai sotto l’albero di Natale.
Mi tenevo le ginocchia strette al petto e mi sforzavo di strizzare gli occhi chiusi quanto più possibile.
Non so quanto tempo rimasi in quella posizione.
La porta dello studio si aprì e li sentii attraversare il corridoio senza parlare. Erano quasi in cucina quando si aprì la porta di casa.
“Simona, amore mio!”, canticchiò mio padre. La mamma doveva essere tornata proprio in quel momento. Lo schiocco di un bacio. “Annamaria aveva dimenticato la sciarpa ed è tornata a prenderla. Stava per andare, ma sperava di salutarti!”.
“Rieccoci, Simo! Sono la solita stordita… Meno male che ho incontrato Mario!”.
“Sì, sei la solita! Ti vuoi fermare a cena?”, la mamma era sempre cordiale.
“No, no, mi aspettano Antonio e Giulia per cena, anzi, direi che è già tardi. Ci sentiamo i prossimi giorni?”, la voce di Annamaria era serena. Parlava esattamente come qualche ora prima.
“Va bene! Non dimenticarti ancora la sciarpa, però…”, immaginai la mamma passargliela.
“A presto”, la voce del papà coprì appena la porta d’ingresso che si apriva.
“A presto, salutatemi Lucio!”.
I passi del papà e della mamma si dirigevano verso la cucina.
“Dov’è il bambino? Lucio!”, la voce di mio padre mi arrivò come una sberla.
D’un tratto si accese la luce della sala. Aprii gli occhi.
“Lucio!”, la mamma mi guardava stupita, “ma cosa fai lì sotto?”.
“Gioco”, le lacrime uscirono senza che potessi trattenerle.
Mio padre si abbassò alla mia altezza. “Cosa è successo, racconta al papi…”, mi fece una carezza sulla guancia e un buffetto. “Sono sicuro che non è niente di irrisolvibile. Simona, tu vai a cucinare che ci parlo io con l’ometto”.
Mamma annuì: “Va bene, vi lascio chiacchierare, ma poi lo raccontate anche a me che altrimenti mi preoccupo… Ti preparo le lasagne che ti piacciono tanto, piccolo, va bene?”.
Mentre se ne andava, papà mi prese la testa tra le mani. Il suo sguardo fisso nel mio: era preoccupato.
“Non vuoi raccontare a papà cosa succede?”.
Non riuscivo a parlare.
“È qualcosa che hai sentito prima che tornasse la mamma?”, la pelle ruvida delle sue mani scorreva sulle mie guance.
Quello che ho visto, papà, non quello che ho sentito. Quello che ho sentito non l’ho capito. Non ho capito nemmeno fino in fondo quello che ho visto, ma mi ha fatto male. Non sapevo come dirgli quello che stavo pensando.
“Tu e Annamaria… Nello studio… Cosa, cosa stavate facendo, papà?”.
Le sue mani si fermarono e allentarono la presa sul mio volto. “Ehi, cosa stai dicendo, cucciolo di papà”, la sua voce aveva qualcosa di diverso, un tono che non avevo mai sentito. “Ho incontrato Annamaria sulle scale. Aveva dimenticato qui la sciarpa e l’ho fatta entrare per riprenderla… Non so cosa tu ti sia messo in testa, non ci siamo nemmeno entrati nel mio studio”, le sue dita tornarono a muoversi sulle mie gote. “Tu hai tanta immaginazione, Lucio, ed è davvero una cosa bella. Ma avere tanta immaginazione a volte può essere un problema, perché si fa fatica a distinguere le cose vere da quelle false. Non dire niente alla mamma, che poi si preoccupa, va bene?”.
Mi sentivo confuso. Mi ero sempre fidato del mio papà.
Cosa avevo visto davvero oltre il foro della serratura? Ne ero poi così sicuro?
Mio padre mi strinse forte a sé.
Appoggiai la mano sinistra sul pacco regalo che avevo più vicino e con l’unghia dell’indice stracciai verticalmente la carta, oltre la quale intravidi il puzzle che papà mi aveva preso per Natale.
Quello fu il mio primo taglio.
L’azzurro si arrossa gradualmente. La tenuità di questo tramonto mi commuove: mi sono sempre chiesto come fosse possibile per la vita essere così misurata. Se lo avessi dipinto io, il cielo sarebbe stato infuocato, insanguinato, della stessa tonalità di questa tenda lacerata. Non sono capace di medietà, io. Per me è impossibile non farmi permeare da tutto fino a sentire le budella tremare. Non riesco a ignorare in ogni ostacolo la possibilità del foro. Non riesco a evitare un piacere straziante nell’attesa di farne uno e di guardarci dentro, di vedere cosa c’è al di là. E non mi importa poi molto se quella visione è reale o no.
Mi importa solo di due cose: il taglio e l’attesa.
Vedere cosa succede.
Infilo una mano in tasca ed estraggo il tassello bianco di quel puzzle. Quello che ha permesso che mi rendessi conto del vuoto e della possibilità che racchiude.
Lo guardo e sorrido pensando che la sua assenza ha avuto per me più valore della sua presenza. Lui solo vale tutti i puzzle di cui è costellata la mia vita.
Qualche volta, mi chiedo se quello che sto guardando esiste davvero o se è tutto frutto della mia immaginazione.
Mi rispondo sempre che conta poco: io sono la mia immaginazione e quello che immagino non è meno vero di tutto il resto.
Io sono lo spazio e la sua interruzione.
Io sono il taglio e l’attesa.
Rimetto il pezzo di puzzle in tasca.
Qualche ora fa ho spalancato la finestra e ho inchiodato allo zoccoletto gli angoli inferiori della tenda. Ho preso il taglierino e l’ho tagliata in centro.
Un taglio verticale, alto quasi quanto me.
Mi alzo in piedi e lo spalanco: la tenda si squarcia e l’aria sottile mi accarezza.
Chiudo gli occhi. Una volta ho letto che la gente si butta perché è come se in casa sua vedesse delle fiamme, invisibili agli altri, e considerasse il vuoto la scelta migliore.
Nel mio caso non è così.
Io voglio che lo spazio si riunisca allo spazio.
Voglio che si cancelli il confine tra il reale e l’immaginato.
Voglio vedere cosa c’è dopo l’attesa.
Prendo coraggio.
Mi lancio.
Re: Finalissima!
LA FABBRICA DI SGUARDI
L'atmosfera che si respira in questo racconto mi ricorda il senso di disagio freddo che pervade "1984" di Orwell, con le stesse stanze ampie, essenziali, i rapporti meccanici e l'oppressione costante di un'autorità invisibile così presente da essere penetrata sottopelle.
I ruoli definiti degli uomini e delle donne, imbracati in stereotipi fissi in base al genere, insieme al saluto di partito ripetuto in modo ossessivo e alla prurigine sessuale mi hanno rimandato a "The Handmaid's Tale" di Margaret Atwood, contribuendo a gettare ombre ancora più sinistre su tutto lo scenario.
In un contesto come questo, la breccia attraverso cui il protagonista guarda la realtà è un'immagine potente. Un buco nel giornale, uno spioncino, la fessura lasciata da una porta appena scostata, una serratura: l'apertura nel mondo claustrofobico che lo circonda cambia di volta in volta il significato di quello che c'è oltre. Spiare. Controllare. Ammaliare.
La stessa protagonista femminile, Ute, è uno squarcio inaspettato nel tessuto del mondo. Senza mai un proprio punto di vista, è costretta solo dallo sguardo dell'uomo che la osserva: veste come le altre, ma ha le unghie curate; è rispettosa, ma ha un sogghigno sulle labbra; si dimostra timida, ma non teme di parlare in modo diretto. Come nei racconti sul diavolo, in cui il maligno appare nelle vesti di Uomo Comune, quasi indistinguibile da chiunque altro, ma sempre con un dettaglio fuori posto.
Come il diavolo, lei è straniera, è capace di tentare e di sparigliare le carte in tavola.
Capace di spezzare le catene della schiavitù e di essere motore di libertà.
Forse il racconto non brilla per originalità delle tematiche e degli scenari, ma di certo il messaggio arriva forte e chiaro, regala sensazioni nette e coglie a meraviglia il tema proposto.
ATTESA
Quello che più mi ha colpito di questo racconto è il coraggio con cui affronta una tematica complessa e sentita ancora come tabù, come l'autolesionismo e il suicidio, in un modo efficace e realistico, senza tentativi di addolcire né di romanticizzare. Nè di giudicare.
L'inefficacia del logos è evidente dal punto di vista di un io narrante che non riesce a esprimersi adeguatamente a parole e non riceve dal contesto sociale - familiare, nel caso specifico - un adeguato ascolto né tantomento un'adeguata attenzione.
Viene considerato marginale, quasi un orpello, quindi si fa poca attenzione nel considerarlo un possibile testimone parlante di un qualcosa che dovrebbe rimanere segreto e allo stesso tempo viene considerato inattendibile. O viene soverchiato, nel momento in cui può lasciare trapelare qualcosa, ammutolito, reso senza voce.
In questo universo statico, dove la parola non ha valore, l'unica modalità di espressione diventa fisica, in particolar modo tattile. Le superfici diventano barriere, le porte mura invalicabili. Fare penetrare o uscire qualcosa è questione di assedio tanto quanto di fare breccia.
Se aprirsi dalla propria interiorità verso l'esterno diventa un atto violento, anche all'interno del proprio animo accadono lacerazioni, come nelle opere di taglio di Fontana.
Ho trovato questa narrazione complessa e valida, per quanto riguarda la mia esperienza, nel raccontare la necessaria creazione di un nuovo spazio per poter respirare, muoversi, lasciare uscire una pressione inesprimibile in nessun altro modo. Un vivere una vita così soggettiva da fondere reale e irreale in una mente compressa.
La resa è dolorosa in modo sordo. E fredda, quasi asettica, pur avendo in sè una poesia nera.
Non è qualcosa che avrei scelto di raccontare, in relazione a questo tema, o comunque non è la prima cosa a cui avrei pensato. Eppure, coglie l'immagine che avevo dato quasi a rovescio, prendendo il bersaglio in pieno.
GIUDIZIO FINALE
Come sempre quando ho a che fare con questi contest, mi trovo nella situazione drammatica di fare molta fatica a scegliere. Non è la prima volta che mi trovo sbalordita davanti ai testi che mi arrivano, a immaginare chi possa averli prodotti, quali storie dietro alle storie ci siano per avere scelto dei percorsi immaginativi che vanno così lontani rispetto alla tematica che avevo in mente, salvo poi colpire a segno molto forte.
Tutto questo preambolo per dire che sia "La Fabbrica di Sguardi" sia "Attesa" meriterebbero la vittoria per ragioni diverse. In entrambi i casi, la porta socchiusa si apre su una scelta di libertà, nel bene o nel male.
Colgo l'occasione per fare i miei complimenti a entrambi gli autori per questi pezzi.
Dal momento che devo decretare un vincitore, tuttavia, la mia scelta cade su quello che dei due ha toccato con più ferocia per l'uso di tematiche e originalità.
"Attesa" è il racconto vincitore, che mi porterò nel cuore a lungo.
L'atmosfera che si respira in questo racconto mi ricorda il senso di disagio freddo che pervade "1984" di Orwell, con le stesse stanze ampie, essenziali, i rapporti meccanici e l'oppressione costante di un'autorità invisibile così presente da essere penetrata sottopelle.
I ruoli definiti degli uomini e delle donne, imbracati in stereotipi fissi in base al genere, insieme al saluto di partito ripetuto in modo ossessivo e alla prurigine sessuale mi hanno rimandato a "The Handmaid's Tale" di Margaret Atwood, contribuendo a gettare ombre ancora più sinistre su tutto lo scenario.
In un contesto come questo, la breccia attraverso cui il protagonista guarda la realtà è un'immagine potente. Un buco nel giornale, uno spioncino, la fessura lasciata da una porta appena scostata, una serratura: l'apertura nel mondo claustrofobico che lo circonda cambia di volta in volta il significato di quello che c'è oltre. Spiare. Controllare. Ammaliare.
La stessa protagonista femminile, Ute, è uno squarcio inaspettato nel tessuto del mondo. Senza mai un proprio punto di vista, è costretta solo dallo sguardo dell'uomo che la osserva: veste come le altre, ma ha le unghie curate; è rispettosa, ma ha un sogghigno sulle labbra; si dimostra timida, ma non teme di parlare in modo diretto. Come nei racconti sul diavolo, in cui il maligno appare nelle vesti di Uomo Comune, quasi indistinguibile da chiunque altro, ma sempre con un dettaglio fuori posto.
Come il diavolo, lei è straniera, è capace di tentare e di sparigliare le carte in tavola.
Capace di spezzare le catene della schiavitù e di essere motore di libertà.
Forse il racconto non brilla per originalità delle tematiche e degli scenari, ma di certo il messaggio arriva forte e chiaro, regala sensazioni nette e coglie a meraviglia il tema proposto.
ATTESA
Quello che più mi ha colpito di questo racconto è il coraggio con cui affronta una tematica complessa e sentita ancora come tabù, come l'autolesionismo e il suicidio, in un modo efficace e realistico, senza tentativi di addolcire né di romanticizzare. Nè di giudicare.
L'inefficacia del logos è evidente dal punto di vista di un io narrante che non riesce a esprimersi adeguatamente a parole e non riceve dal contesto sociale - familiare, nel caso specifico - un adeguato ascolto né tantomento un'adeguata attenzione.
Viene considerato marginale, quasi un orpello, quindi si fa poca attenzione nel considerarlo un possibile testimone parlante di un qualcosa che dovrebbe rimanere segreto e allo stesso tempo viene considerato inattendibile. O viene soverchiato, nel momento in cui può lasciare trapelare qualcosa, ammutolito, reso senza voce.
In questo universo statico, dove la parola non ha valore, l'unica modalità di espressione diventa fisica, in particolar modo tattile. Le superfici diventano barriere, le porte mura invalicabili. Fare penetrare o uscire qualcosa è questione di assedio tanto quanto di fare breccia.
Se aprirsi dalla propria interiorità verso l'esterno diventa un atto violento, anche all'interno del proprio animo accadono lacerazioni, come nelle opere di taglio di Fontana.
Ho trovato questa narrazione complessa e valida, per quanto riguarda la mia esperienza, nel raccontare la necessaria creazione di un nuovo spazio per poter respirare, muoversi, lasciare uscire una pressione inesprimibile in nessun altro modo. Un vivere una vita così soggettiva da fondere reale e irreale in una mente compressa.
La resa è dolorosa in modo sordo. E fredda, quasi asettica, pur avendo in sè una poesia nera.
Non è qualcosa che avrei scelto di raccontare, in relazione a questo tema, o comunque non è la prima cosa a cui avrei pensato. Eppure, coglie l'immagine che avevo dato quasi a rovescio, prendendo il bersaglio in pieno.
GIUDIZIO FINALE
Come sempre quando ho a che fare con questi contest, mi trovo nella situazione drammatica di fare molta fatica a scegliere. Non è la prima volta che mi trovo sbalordita davanti ai testi che mi arrivano, a immaginare chi possa averli prodotti, quali storie dietro alle storie ci siano per avere scelto dei percorsi immaginativi che vanno così lontani rispetto alla tematica che avevo in mente, salvo poi colpire a segno molto forte.
Tutto questo preambolo per dire che sia "La Fabbrica di Sguardi" sia "Attesa" meriterebbero la vittoria per ragioni diverse. In entrambi i casi, la porta socchiusa si apre su una scelta di libertà, nel bene o nel male.
Colgo l'occasione per fare i miei complimenti a entrambi gli autori per questi pezzi.
Dal momento che devo decretare un vincitore, tuttavia, la mia scelta cade su quello che dei due ha toccato con più ferocia per l'uso di tematiche e originalità.
"Attesa" è il racconto vincitore, che mi porterò nel cuore a lungo.
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