Attesa di Elisa Belotti

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Shanghai Kid
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Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#1 » martedì 13 dicembre 2022, 15:13

Attesa

Guardo il cielo dallo squarcio nella pesante tenda rossa.
Tengo la fessura aperta con le mani e l’azzurro brillante di questo sabato di maggio mi fa inumidire gli occhi.
Una nuvola solitaria e timida sporca di bianco il celeste perfetto di lassù.
Da quando ne ho memoria, sono sempre stato attratto dagli squarci, dai pertugi, dalle spaccature che permettono allo spazio di essere uno, oltre la divisione di cui si serve l’uomo per sentirsi al sicuro.
Perimetrare le cose. Creare confini che ci rendano meno spaventosa la vastità che non sappiamo capire.
Lascio che i polpastrelli si perdano al tatto con il tessuto, proprio come i miei occhi stanno facendo con il cielo.
L’aria è della temperatura migliore: quella sotto cui immagino qualcuno disteso in un prato a leggere un libro.
Mi stuzzica il naso e sento il leggero pizzicore che i pollini provocano alle narici. Ispiro ed espiro profondamente, per allenarmi a non sentirlo più, per lasciare che quell’aria mi penetri senza annunciarsi e si trasformi in fiato caldo da restituire al mondo.
Fisso la nuvola che interrompe la monocromia del cielo e penso che siamo tutti spazio e ostacoli allo spazio. Siamo tutti parte della stessa cosa e siamo anche la sua interruzione. Siamo partecipi di noi stessi e dei nostri opposti. Siamo uno e negazione dell’uno.
Ogni volta che verbalizzo pensieri come questi la gente intorno mi guarda male, si allontana, si lascia andare a commenti sgradevoli.
“Cerca di fare la persona normale!”, vedo ancora mia madre pronunciare queste parole mentre si copre la bocca, così che nessuno intorno possa leggerle il labiale o sentirla, tranne me. É capitato spesso: non le piaceva molto l’idea che tutti sapessero che aveva un figlio matto.
Si vergognavano di certi miei discorsi: è una cosa che ho sempre percepito.
Come quando quell’unica volta ho provato a spiegar loro che per me la vita è stata un’angheria continua, ma che i tagli, gli squarci i pertugi e l’idea che quelle superfici fossero un tempo intonse, integre, in attesa della rottura che ricollega il tutto al tutto, che questo pensiero preciso mi dà pace… Quell’unica volta…
“Tu, figliolo, hai una fervida immaginazione, ma non tutti possono capirti… Non dico che non devi pensare certe cose, però, ecco, forse è meglio che tu le tenga per te”, il sorriso che colora la barba fulva di mio padre, quei denti perfetti che lasciano uscire dalla bocca solo parole più edulcorate di quelle che pensa davvero: questa è l’eredità che mi rimane del suo perbenismo.
La mano destra molla la presa sulla tenda. Indice e medio iniziano a scorrere lentamente sul mio braccio sinistro, dall'incavo dietro al gomito sino al polso. Seguono lentamente le cicatrici come un viandante sfinito ma ancora curioso metterebbe un piede dietro l’altro nella via che conduce alla locanda, come un cieco leggerebbe una poesia in braille.
Volevo dei varchi nel mio braccio. Volevo che lo spazio si unisse allo spazio. Avrei continuato se non mi avessero fermato.
Ho provato a spiegare loro le mie ragioni, ma non hanno capito.
Non hanno mai capito nulla dei tagli, dei varchi, dei pertugi. Tanto meno dell’attesa che li precede.
Ricordo con precisione quando il primo varco si è aperto dentro di me. Quando mi sono rotto. O forse mi sono aggiustato. Forse si nasce rotti e ci si aggiusta così.
Prima c’è stata l’attrazione per il foro. L’attesa frenetica di vedere cosa si nasconde dentro ai buchi, di scoprire dove va lo spazio che si sposta da una stanza all’altra.
Poi, si è aperto il varco invisibile. Quello che vedo e sento solo io.


La casa era quasi completamente addobbata.
Ho sempre adorato le vacanze di Natale, perchè l’aria diventava elettrica e io, il papà e la mamma facevamo tante cose insieme.
Erano più o meno le sei di sera, me lo ricordo perchè Annamaria era passata un’ora prima per il tè delle cinque, l’appuntamento che lei e la mamma si davano tutti i venerdì pomeriggio.
“Ho solo mezz'ora perché mi chiudono i negozi e devo comprare gli ultimi regali, vorrei avere tutto per domani”, la mamma versò il tè caldo nella tazza di Annamaria, che se ne stava composta al tavolo della cucina.
“Ci mancherebbe, scusami tu se non ti ho avvisata, ma sai, è un po’ il nostro rito e-”.
“Stai scherzando? Scusami tu, ma davvero voglio levarmi quest’incombenza e godermi un po’ Mario e Lucio in questi giorni”, mia madre mise i biscotti sul tavolo e si sedette accanto all’amica.
Io sentivo la loro conversazione dalla sala, dove stavo completando, sul pavimento, il puzzle che i nonni mi avevano regalato per il compleanno: due cavalli al galoppo in un prato verdissimo.
Le chiacchiere erano proseguite incessantemente, fino a che il campanile della piazza vicina non aveva suonato la mezza.
“Lucio, noi usciamo!”, mi aveva gridato la mamma dopo essersi messa il cappotto, ormai già sull’uscio, “Torno tra un paio d’ore al massimo. Saluta Annamaria!”.
“Ciao Annamaria!”, avevo gridato distratto, con gli occhi fissi sul pavimento, alla ricerca del pezzo giusto da incastrare.
Avevo dieci anni, adoravo i puzzle e adoravo stare a casa da solo.
Sapevo che il papà sarebbe rientrato a breve, ma tanto si sarebbe chiuso nel suo studio, come al solito, per finire “le sue pratiche”, le chiamava così, e visto che ero in vacanza non mi avrebbe rotto troppo con le cose da fare. Avevo ancora almeno un paio d’ore per giocare.
Il tempo trascorse sereno e il puzzle era quasi finito, era rimasto un solo buco, centrale, sul muso del cavallo bianco.
Cercai il pezzo mancante intorno, ma non lo trovavo. Sollevai il lembo più vicino del tappeto per controllare che non fosse finito lì sotto: nulla. Mi abbassai per controllare sotto il divano, ma non vedevo niente.
Fissai quel buco insistentemente: fu allora che si insinuò in me la sensazione che ci fosse in quel vuoto un potenziale, più che un’assenza. Che rappresentasse un passaggio. Fu un’intuizione, ma presto tornai a desiderare la chiusura di quel piccolo varco irregolare.
Non mi arresi e mi decisi ad andare in camera per cercare la torcia così da poter guardare meglio sotto il divano.
Probabilmente fu in quel momento che entrarono, perché io non me ne accorsi.
Sono sempre stato un tipo disordinato e proprio non trovavo la pila elettrica.
Era nascosta nel cassetto dei calzini. L’afferrai e tornai in sala. Mi sdraiai e l’accesi.
“Eccoti!”, sussurrai felice di aver trovato l’ultimo tassello.
Infilai il braccio sotto il divano e lo recuperai.
“Ti finisco il muso, cavallino bianco” e schiacciai il pezzo in mezzo agli altri.
Il puzzle era completo. Certo, adesso dovevo trovare il modo di sollevarlo. Che idea stupida farlo sul pavimento. Quando torna la mamma le chiedo come tirarlo su, pensai alzandomi.
Sentii dei rumori provenire dallo studio.
“Ciao papi!”, nessuna risposta.
Mi diressi verso la porta, se non era troppo impegnato l’avrei salutato prima di inventarmi un altro gioco.
Dei rumori ripetitivi e ovattati uscivano indistinti dalla stanza.
Il corridoio era buio e dalla serratura dello studio usciva un filo di luce.
Mi avvicinai piano, fissai la porta scura e quel raggio ambrato.
Afferrai la maniglia e provai ad aprire la porta, piano. Nulla. Come sempre il papà si era chiuso dentro. La cosa non mi stupiva molto. Lo faceva sempre: chiudeva e si metteva la chiave in tasca con un gesto automatico. Diceva che si concentrava meglio se lasciava il mondo fuori dalla stanza.
I suoni ripetitivi e secchi continuavano sempre più velocemente.
Mi chinai e provai a guardare attraverso il foro della serratura.
Ci misi un po’ a capire quello che i miei occhi vedevano.
Mio padre era in piedi, con le mani sulla scrivania e i pantaloni calati. Le sue natiche si contraevano e lui sembrava dare dei colpi a qualcosa. Mi spostai un po’ per cercare di vedere meglio.
Intorno alla sua vita c’erano delle gambe che indossavano stivali.
Iniziò a girarmi la testa. Sentii in bocca un sapore acido.
Scappai in sala e mi rannicchiai sotto l’albero di Natale.
Mi tenevo le ginocchia strette al petto e mi sforzavo di strizzare gli occhi chiusi quanto più possibile.
Non so quanto tempo rimasi in quella posizione.

Li sentii attraversare il corridoio senza parlare. Erano quasi in cucina quando si aprì la porta di casa.
“Simona, amore mio!”, compresi che proprio in quel momento doveva essere tornata la mamma. Immaginai che mio padre la stesse baciando, come sempre quando rientrava a casa. “Annamaria aveva dimenticato la sciarpa ed è tornata a prenderla. Stava per andare, ma sperava di salutarti!”.
“Rieccoci, Simo! Sono la solita stordita… Meno male che ho incontrato Mario!”.
“Sei la solita! Ti vuoi fermare a cena?”, la mamma era sempre cordiale.
“No, no, mi aspettano Antonio e Giulia per cena, anzi, direi che è già tardi. Ci sentiamo i prossimi giorni?”, la voce di Annamaria era serena. Parlava esattamente come qualche ora prima.
“Va bene! Non dimenticarti ancora la sciarpa, però…”, immaginai che la mamma stesse passando la sciarpa ad Annamaria.
“A presto”, la voce del papà coprì appena la porta d’ingresso che si apriva.
“A presto, salutatemi Lucio!”, la porta si chiuse dietro le spalle di Simona.
I passi del papà e della mamma si dirigevano verso la cucina.
“Dov’è il bambino? Lucio!”, la voce del papà mi arrivò come una sberla.
D’un tratto si accese la luce della sala. Aprii gli occhi.
“Lucio!”, la mamma mi guardava stupita, “ma cosa fai lì sotto?”.
“Gioco”, le lacrime uscirono senza che potessi trattenerle.
“Cosa è successo, racconta al papi…”, sentii la carezza di mio padre sulla guancia. “Sono sicuro che non è niente di irrisolvibile. Simona, tu vai a cucinare che ci parlo io con l’ometto”, mi diede un buffetto sulla guancia.
“Va bene, vi lascio chiacchierare, ma poi lo raccontate anche a me che altrimenti mi preoccupo… Ti preparo le lasagne che ti piacciono tanto, piccolo,va bene?”.
Mentre la mamma se ne andava, papà mi prese la testa tra le mani. Il suo sguardo, fisso nel mio: era preoccupato.
“Non vuoi raccontare a papà cosa succede?”.
Non riuscivo a parlare.
“È qualcosa che hai sentito prima che tornasse la mamma?”, la pelle ruvida delle sue mani scorreva sulle mie guance.
Quello che ho visto, papà, non quello che ho sentito. Quello che ho sentito non l’ho capito. Non ho capito nemmeno fino in fondo quello che ho visto, ma mi ha fatto male. Non sapevo come dirgli quello che stavo pensando.
“Tu e Annamaria… Nello studio… Cosa, cosa stavate facendo, papà?”, le sue mani si fermarono e allentarono la presa sul mio volto.
“Ehi, cosa stai dicendo, cucciolo di papà”, la sua voce aveva qualcosa di diverso, un tono che non avevo mai sentito. “Ho incontrato Annamaria sulle scale. Aveva dimenticato qui la sciarpa e l’ho fatta entrare per riprenderla… Non so cosa tu ti sia messo in testa, non ci siamo nemmeno entrati nel mio studio”, le sue dita tornarono a muoversi sulle mie gote. “Tu hai tanta immaginazione, Lucio, ed è davvero una cosa bella. Ma avere tanta immaginazione a volte può essere un problema, perché si fa fatica a distinguere le cose vere da quelle false. Non dire niente alla mamma, che poi si preoccupa, va bene?”.
Mi sentivo confuso. Mi sono sempre fidato del mio papà.
Ma cosa avevo visto davvero oltre il foro della serratura? Ne ero poi così sicuro?
Mio padre mi strinse forte a sé.
Appoggiai la mano sinistra sul pacco regalo che avevo più vicino e con l’unghia dell’indice stracciai verticalmente la carta, oltre la quale intravidi il puzzle che papà mi aveva preso per Natale.
Quello fu il mio primo taglio.


L’azzurro si arrossa gradualmente. La tenuità di questo tramonto mi commuove: mi sono sempre chiesto come fosse possibile per la vita essere così misurata, leggera. Se lo avessi dipinto io, il cielo sarebbe stato infuocato, insanguinato, della stessa tonalità di questa tenda lacerata. Non sono capace di medietà, io. Non riesco a non farmi permeare da tutto fino a farmi scuotere le budella. Non riesco a non vedere in ogni ostacolo la possibilità del foro. Non riesco a non provare un piacere straziante nell’attesa di farne uno e di guardarci dentro, di vedere cosa c’è al di là. E non mi importa poi molto se quella visione è reale o no.
Mi importa solo di due cose: il taglio e l’attesa di farlo. Vedere cosa succede.
Qualche ora fa ho spalancato la finestra, ho inchiodato allo zoccoletto gli angoli inferiori della tenda. Ho preso il taglierino e l’ho tagliata in centro. Un taglio verticale, alto quasi quanto me.
Mi alzo in piedi e lo spalanco. La tenda si squarcia e l’aria sottile mi accarezza. Chiudo gli occhi. Una volta ho letto che la gente si butta perché è come se in casa sua vedesse delle fiamme, invisibili agli altri, e considerasse il vuoto la scelta migliore.
Nel mio caso non è così.
Io voglio che lo spazio si riunisca allo spazio.
Voglio che si cancelli il confine tra il reale e l’immaginato.
Voglio vedere cosa c’è dopo l’attesa.
Prendo coraggio.
Mi lancio.



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Shanghai Kid
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Re: Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#2 » martedì 13 dicembre 2022, 15:22

Per quanto riguarda i bonus, ambisco a tutti e tre:
1) Il racconto dev’essere ambientato nello stesso universo di un quadro (ho chiesto se fosse da specificare a che opera d'arte abbiamo fatto riferimento, ma non avendo ricevuto risposta la scrivo qui: si tratta di Attese di Lucio Fontana)
2) La realtà descritta nel racconto è frutto dell’immaginazione del protagonista (per quanto ruguarda questo bonus, ne ho dato un'interpretazione un po' sfumata)
3) Nel racconto dev’essere presente una porta.

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AjejeBrazorf83
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Re: Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#3 » martedì 27 dicembre 2022, 18:36

Ciao Elisa! Stile di scrittura molto bello! Racconto straziante :(... Per capirlo sono dovuto andare a vedere chi fosse Lucio Fontana.
Comunque bello, complimenti!

Davide Rossi
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Re: Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#4 » mercoledì 28 dicembre 2022, 20:49

Ciao Elisa,

Buona costruzione, lettura scorrevole e storia intensa.
L'evento scatenante c'è, mi è parso il finale un po' affrettato, forse un evento ulteriore, o una reminescenza.
Comunque complimenti

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Giovanni Attanasio
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Re: Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#5 » giovedì 29 dicembre 2022, 11:58

La voce narrante è abbastanza interessante, mi è sembrata coese ed equilibrata sino alla fine. Il racconto in sé scorre, anche se a volte mi è sembrato un po' lento, come se volesse ribattere sullo stesso punto o obbligare il pubblico a capire a tutti i costi la situazione del personaggio e della storia, elementi che sarebbero stati evidenti anche riducendo il numero di "occasioni" in cui viene fatto notare. Gli eventi in sé mi sono piaciuti, sono stati gestiti bene nonostante la "classicità" di questi ultimi. Forse avrei preferito qualche elemento in più che rendesse il testo distinto, speciale: la storia non è affatto male, di per sé, ma personalmente non mi ha davvero colpito "forte".
"Scrivo quello che voglio e come voglio. Fatevelo piacere."

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Rick Faith
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Re: Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#6 » martedì 3 gennaio 2023, 20:21

Ciao Elisa,
l'interpretazione che hai dato al bonus dell'opera mi è piaciuta molto. L'opera scelta mi ha stupito e anche il modo in cui hai declinato e intrecciato all'interiorità del protagonista qualcosa di apparentemente semplice come un taglio non è banale.
L'inizio mi è parso convincente, anche con i limiti che può avere un monologo. Sono riuscito a percepire il punto di vista come un "matto", ma anche a comprenderlo.
Forse sì, quello dell'immaginazione è preso un po' lateralmente, ma è coraggioso. Non è effettivamente la sua immaginazione, ma il padre vuole farglielo credere.
L'ultimo paragrafo secondo me non ha lo stesso piglio degli altri due e l'ho trovato anche io un po' affrettato.
Bella lettura comunque, mi è piaciuto

Buon anno e buona sfida!

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Spartaco
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Re: Attesa di Elisa Belotti

Messaggio#7 » sabato 7 gennaio 2023, 11:55

Non amo i racconti senza luce, quelli senza alcuna speranza. Fatti per soffrire, ma non sono qui per esprimere il mio gusto, quindi sotto con il commento.
Racconto scritto bene, il Fontana si poteva vedere anche senza spiegazione, quindi l’hai gestito bene. Mi manca un po’ di follia, che passa più perché lo definisci matto e non perché la percepiamo. Potevi spingere molto di più.
Scrittura pulita, racconto interessante.

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