Semifinale I Tagli

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale I Tagli

Messaggio#1 » sabato 7 gennaio 2023, 16:48

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Eccoci pronti per la seconda parte di La Sfida a Scilla Bonfiglioli. Giudice di questo gruppo è Eugene Fitzherbert!
Combattono in questa semifinale:

Attesa, di Elisa Belotti Vs Sinterklaas di Denis Saporetti

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: lunedì 9 martedì 10 gennaio alle 23.59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, al giudice verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 10 gennaio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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AjejeBrazorf83
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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#2 » domenica 8 gennaio 2023, 21:13

Sinterklaas
di Denis Saporetti
Il mattino di venerdì 2 dicembre aveva lo stesso colore del suo umore. Nuvole grigie cariche di pioggia avevano segregato un sole che non trovava alcun spiraglio. C’era solo una cosa che riusciva a calmarlo dopo una lite con sua figlia: i dolci. E non dolci qualsiasi, ma quelli del Bar Pasticceria “Tentazioni Siciliane” di via Bixio, a Villafranca di Verona. Di siciliano, Roberto Cristiani aveva ben poco, almeno per quello che ne sapeva. Ma le sue papille gustative erano sicuramente appassionate alla cucina siciliana e la pancetta che stava mettendo su ne era una prova. Quando entrò nella pasticceria venne travolto dal dolce odore di ricotta. In realtà non era l’unico odore gradevole che percepiva ma era quello dominante. «Maresciallo Cristiani buongiorno». Gaetano lo salutò da dietro una vetrina che presentava ogni combinazione di arancini o arancine; all’età di quarant’anni non aveva ancora capito la differenza, eppure il servizio militare lo aveva svolto a Palermo, dove aveva conosciuto l’amore della sua vita: Mariagrazia Parisi, e quello per il cibo ovviamente. Ad ogni modo sospettava che si trattasse solo di una differenza dialettale.
«Gaetano, buongiorno a te carissimo. Un caffè e ...», Roberto si spostò dalla parte della vetrina che esponeva i dolci. I cartocci ripieni di crema al pistacchio la facevano da padrone, c’era anche qualche cornetto e qualche bombolone ripieno ma quei cartocci, emanavano un leggero tepore; Roberto deglutì.
«Quelli sono appena usciti dal laboratorio, Maresciallo.» disse Gaetano sorridendogli.
Roberto si massaggiò il mento, deglutì di nuovo e schioccò la lingua sul palato, poi guardò Gaetano, scosse la testa e sorrise, «Se Mariagrazia venisse a saperlo...»
«Maresciallo, resterà tra me e lei, anche sotto tortura...» Gaetano si passò indice e pollice sulle labbra, come se fosse una cerniera e fu in quel gesto che nella sua mente irruppe la voce dolce di sua moglie: “Tesoro, la glicemia, ora che le feste sono imminenti cerchiamo di tenerla sotto controllo.”
Roberto trasse un profondo respiro e agitò un braccio, come a scacciare pensieri, paranoie e vizi, «Naa. Facciamo i bravi. Un caffè e un cornetto integrale al miele.»
Si sedette a un tavolino che affacciava verso l’esterno. Poggiò il berretto da carabiniere sul tavolo e si accorse che gli sguardi dei clienti erano più insistenti del solito. Sorrise e fece cenno con il capo ad ogni cliente che incrociava il suo sguardo; c’era qualcosa di strano però, in quelle occhiate fugaci che non riuscì a cogliere o forse non ne aveva neanche voglia: le discussioni con sua figlia gli prosciugavano le forze, ogni volta. Voleva solo rilassarsi, fare colazione e andare al lavoro. Un lavoro che avrebbe svolto come al solito, nel pieno della tranquillità di un paese sul veronese. Niente di più, niente di meno.
Il telefono squillò e mostrò il nome del suo appuntato. Rispose, mentre Gaetano gli servì cornetto, caffè e un sacchetto di carta bianco: sulla superficie una macchia verde e di unto sbiadiva il sacchetto. Incontrò lo sguardo di Gaetano che gli strizzò l’occhio. Roberto rispose con un sorriso. «Pronto. Buongiorno Fabio.»
«Maresciallo Capo, buongiorno. Abbiamo fermato un ragazzo questa mattina. Federico Milanese...», ci fu una pausa e il cuore di Roberto perse il battito. «L’abbiamo portato in caserma e dice che vuole parlare solo con lei.».
Roberto alzò lo sguardo verso i presenti, lo stavano ancora guardando. Che sapessero qualcosa che lui ancora ignorava? Riguardava Federico? Sua figlia? «Arrivo subito.» Chiuse la chiamata. Mandò giù il caffè e mise il cornetto dentro il sacchetto. Uscì dalla pasticceria. Il cielo era passato dalle minacce ai fatti. Piccole gocce di pioggia iniziarono a cadere.

Federico
Federico Milanese era seduto in una stanza della caserma militare di Villafranca di Verona. C’era già stato lì dentro, diversi anni prima. Una pattuglia dei carabinieri, un sabato sera, aveva inseguito uno stormo di ragazzini alla guida di scooter che percorreva via Mantovana. Quella strada congiungeva Villafranca di Verona a Dossobuono e ti portava direttamente alle porte della città di Verona. Quella sera Federico voleva solo divertirsi con gli amici. Il problema è che era seduto sul motorino del cugino quella sera e suo cugino stava guidando, lui era senza casco, così come la maggior parte degli amici che avevano chiesto uno strappo a chi era munito di scooter. Quando la sirena della pattuglia irruppe fra le loro risate, il cugino Mirko ebbe la prontezza di girare e imboccare una via alla loro destra, dare di gas e tentare la fuga. Trenta minuti dopo Federico era davanti al Maresciallo Capo Roberto Cristiani. «Milanese... ha qualcosa da dichiarare?» gli chiese, tamburellando la penna sulla scrivania. Federico aveva alzato le spalle: «Volevamo solo divertirci Maresciallo. E ho insistito io con mio cugino, perché mi portasse...» Tutto inutile: Mirko si era cuccato la confisca dello scooter (truccato) e Federico, mortificato, aveva pagato entrambe le multe.
Federico era cresciuto di 4 anni. La statura si era fatta imponente, la tonalità della voce si era abbassata ed era diventata più forte. Ormai aveva abbandonato la spensieratezza da ragazzo e aveva iniziato a guardare il mondo attraverso le lenti di un adulto. Aveva maturato prospettive, sogni. Certezze. La certezza che la realtà fosse una e una sola. Eppure quello che aveva passato quella notte... Come spiegarlo? Si accorse che stava sfregando l’unghia dell’indice sul pollice. Come le persone che si scavano le dita in cerca di pellicine, raggiungendo la carne viva. Ma il suo non era un tic nervoso. Era come se cercasse una conferma. La conferma di essere davvero cosciente. Di essere vivo.
Quando entrò il maresciallo, Federico si ricompose sulla sedia, si sistemò gli occhiali dalla montatura rettangolare e lo guardò: «Maresciallo...» avrebbe voluto aggiungere altro ma non seppe cosa dire, non sapeva come incominciare, così la frase gli morì in gola. Roberto Cristiani gli rivolse uno sguardo, uno di quelli che non lasciano trapelare emozioni. Era già qualcosa, forse. Poi però lo superò, senza neanche un cenno del capo. E Federico ebbe l’impressione che il maresciallo non avrebbe creduto ad una sola parola di quello che gli avrebbe detto.

Roberto
Quando entrò in ufficio, Fabio Bombana, il suo appuntato e Antonio Ravati, carabiniere semplice, un ragazzo che non poteva superare i vent’anni; aveva iniziato a prestare servizio da meno di un mese, erano rispettivamente alle loro scrivanie. Il clima era sereno, nonostante il grigio di una giornata di pioggia invernale che entrava dalla finestra. I due carabinieri stavano discutendo con entrambi un sorriso stampato sul volto. Antonio Ravati tamburellava una penna su un diario chiuso, dove annotava tutti i momenti di ilarità che avvenivano nella caserma. Ci pensò Roberto a mutare drasticamente l’aria serena che aleggiava nella stanza; posò il soprabito e si sedette alla sua scrivania su una sedia in pelle nera, le rotelle stridettero sotto il suo peso. La scrivania era quasi spoglia, oppure, come avrebbe detto lui: in ordine. Una targhetta color oro mostrava inciso il suo grado e a seguire nome e cognome. Al centro c’era un documento, il rapporto della nottata. I pensieri che si agitavano nella mente di Roberto gli impedirono di aprirlo. E fu un bene; se l’avesse fatto sarebbe scoppiato e dio solo sa cosa avrebbe potuto combinare a quel ragazzo nella sala d’attesa. C’era anche una piccola cornice sull’angolo della scrivania, mostrava un fotogramma di una vacanza nel Salento: era in acqua con sua figlia, le stava morsicando un orecchio e sua figlia stava ridendo come una pazza. Sua moglie di lato, sembrava essere la sorella maggiore, per quanto si somigliavano. Gli stessi lunghi capelli neri, gli stessi occhi marroni. Ogni volta che guardava quella foto poteva sentire ancora quelle risate. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché tornassero quei momenti. Ma l’adolescenza aveva eretto un bel muro fra loro due. E sospettava, ormai da tempo, che la causa maggiore andasse attribuita all’influenza di Federico Milanese: il ragazzo di sua figlia. «Aggiornatemi rapidamente su quello che è successo e poi fatelo entrare.»
I due carabinieri si scambiarono un’occhiata fugace, poi Fabio si alzò e iniziò a parlare.
«Questa mattina, poco dopo le 6, è arrivata una chiamata. Milanese è stato trovato in stato confusionale che vagava nella zona degli impianti sportivi. Come se fosse ubriaco. Roberto...», Fabio si avvicinò e si mise le mani in tasca, si appoggiò allo schedario affianco alla sua scrivania e si sporse verso di lui, «... non era solo.» il suo appuntato lo guardò dritto negli occhi e fu come se si svestisse dagli abiti da carabiniere, quelli da suo sottoposto, e si rivestì da quelli di amico. Un amico col quale aveva passato l’adolescenza, poi il servizio volontario nell’esercito e parte della carriera. Fabio però aveva scelto di dedicarsi più alla famiglia.
Roberto si ritrasse, incollandosi allo schienale della sedia. Prendendo quasi le distanze da quello che Fabio gli avrebbe risposto, anche se ormai aveva capito, una parte di lui si aggrappò alla speranza che Elisa non c’entrasse nulla; non mia figlia, dio ti prego, fa che Elisa non c’entri con questa storia.
«Con chi era?»
Fabio gli sorrise.
«Elisa?» il nome di sua figlia gli morì in gola, così come la sua speranza.
Fabio abbasso lentamente il capo, poi lo rialzò e di nuovo lo abbassò. E fu lì che Roberto Cristiani la vide, sua figlia: ubriaca marcia che ondeggiava a destra e a sinistra, con una bottiglia di whisky scozzese in mano, una canna di marijuana nell’altra con quel deficiente al suo fianco, strillando canzoni oscene nel quartiere più rispettato del paese. Roberto grugnì qualcosa (che nessuno fra i presenti capì), si puntellò le mani sui braccioli della sedia e fece per alzarsi. «No. Roby, quell’espressione la conosco molto bene. Calma è stata solo una ragazzata...»
Fabio gli mise una mano sulla spalla e l’altra, davanti a lui, mostrava il palmo.
Roberto strabuzzò gli occhi. Serrò la mandibola così forte che la mascella sembrò schizzare fuori dalla pelle. «Levati.» ruggì, «E per te sono il Maresciallo Capo. Non dimenticarlo. Mai.»
Il tempo nella stanza sembrò fermarsi. Il carabiniere semplice smise di tamburellare sul suo diario e guardò prima Roberto, poi l’appuntato col quale aveva scherzato fino a pochi minuti prima. Fabio incassò il colpo come un pugile incassa un pugno allo stomaco a guardia scoperta. Poi fece una smorfia, che avrebbe significato molte cose ma restando in ambito formale, voleva dire: d’accordo, come vuoi tu. Poi ci ripensò.
«Maresciallo Capo...» lo apostrofò, «per come la vedo io possiamo risolvere questa situazione con tutta tranquillità. Oppure, posso fare una telefonata e riferire che un Maresciallo Capo sta cercando di risolvere delle questioni personali servendosi dei suoi gradi da militare.»
Roberto rilassò le mani, intricati fiumi di vene si erano fatte in rilievo sul dorso. Poi Fabio continuò «Io consiglio di chiamarli dentro tutti e due. Gli facciamo una bella lavata di capo e tutto finisce li. Sono solo dei ragazzi, Maresciallo.»
Federico era seduto affianco a sua figlia. Davanti alla sua scrivania. Elisa a braccia conserte si stava martoriando l’interno di una guancia. Fabio, mani in tasca e volto rilassato, li stava guardando, in attesa che uno dei due iniziasse a parlare. Antonio era pronto a trascrivere un rapporto che sarebbe finito nel cestino. Poi Federico si sistemò gli occhiali e iniziò a raccontare. «Ho iniziato a lavorare all’hotel Sinterclas due settimane fa con l’idea di pagarmi l’università. Tutto è andato alla grande fino all’altro ieri. Da una delle stanze dell’ultimo piano provenivano degli strani rumori. A volte sembrava che qualcuno stesse spostando dei mobili. Altre volte sentivo ridere, altre volte parlare in modo incomprensibile.»
«E quindi?» chiese Fabio divertito.
Elisa si intromise «In quel piano, il secondo, non doveva esserci nessuno. Così aveva detto il proprietario.» Roberto si agitò sulla sua sedia. Poi si alzò, con un’espressione di stizza disegnata sul volto. Andò alla scrivania di Fabio, trafficò in un cassetto e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne accese una e sua figlia sbiancò; non fumava da anni. Una promessa fatta a sua moglie e Roberto le promesse le manteneva sempre, specialmente quelle fatte a Mariagrazia. Andò alla finestra e aprì uno spiraglio, giusto per far uscire il fumo che danzava dalla sigaretta. «In tutto ciò non capisco una cosa...» Ma capiva benissimo. «Tu in tutto questo cosa c’entri? Come fai a sapere quello che ha detto il proprietario e cosa c’entra quell’Hotel con la balla che avete preso.»
«Non eravamo ubriachi papà!»
«Avevate un 0.6 di tasso alcolemico.» si intromise Fabio, calmo.
«Eravamo allegri certo, ma non ubriachi.» Federico alzò le spalle, «abbiamo bevuto del vin brulè, nulla di più.»
«E dove l’avete bevuto?» un sorriso incredulo si disegnò sul volto di Fabio.
Federico ed Elisa si guardarono, entrambi a disagio. Fabio incalzò, sporgendosi verso quei due ragazzi seduti davanti alla scrivania del Maresciallo. «Non ve l’avranno forse offerto dentro a quella stanza dove provenivano strani rumori e voci incomprensibili? Magari c’era anche qualcuno che cantava canzoni di natale e scoiattoli che confezionavano la cioccolata?» L’appuntato marcò ancora di più il suo sorriso, mostrando la dentatura. Le espressioni dei due ragazzi non mutarono. Fabio Bombana si accorse di un particolare, inquietante: i due ragazzi non mostravano segni di vergogna, nonostante li avesse appena presi in giro. Poi Federico scattò in piedi. «Sentite...» si grattò la testa, le guance presero, incrociò le bracia al petto, «quando ho sentito per la prima volta quei rumori non ci ho fatto caso più di tanto. Poi Nicola, il proprietario, una sera alzò la testa proprio mentre quei rumori si palesavano e mi ha sorriso! La sera stessa avrei dovuto coprire la notte, in quell’hotel. Così ho aspettato che il vecchio se ne andasse per andare a controllare al secondo piano.», Federico si fermò, respirava come se stesse correndo una maratona, poi continuò: « Mi sono portato alla porta dalla quale sentivo i rumori e mi sono abbassato per guardare dalla toppa della serratura. E ...» Federico si massaggiò il mento. Lo sguardo perso nel vuoto. I presenti lo videro combattere contro la sua razionalità.
Il Maresciallo tirò l’ultima boccata di nicotina e gettò la sigaretta, non ancora terminata, dalla finestra. Con un gesto lento chiuse la finestra. «Sai cosa penso, Federico?» Roberto guardò il ragazzo; una chiazza dalla forma indefinita si era formata al centro della camicia blu. Lo stress si era materializzato sotto forma di sudore. «Penso che quella sera ti sia divertito...»
«No!»
«...magari una canna tira l’altra. Ci sta. Tutti qua siamo stati dei ragazzi. Magari hai assunto anche dell’alcol e ciò che pensi di aver visto è diventato reale.»
«Ancora una volta. No!»
«Senza contare che quello che ha visto lui, papà, l’ho visto anch’io.»
«Per la miseria» si intromise Fabio Bombana «qualcuno vuole farmi capire cosa avete visto da quella benedetta toppa?»
«Un villaggio. La neve...» Federico deglutì.
«Va bene. Basta così Milanese. Si sta mettendo in una brutta situazione.» Il Maresciallo gli si parò davanti.
«C’erano anche persone dalla bassa statura, con cappellini a punta...» Federico sembrò guardare Roberto Cristiani ma in realtà il suo sguardo era affacciato a un altro mondo. Un mondo che sembrava averlo inghiottito e poi risputato fuori. Spogliato dalle sue certezze. «... poi un’enorme occhio verde si è sovrapposto. Ha ammiccato. E subito dopo una voce, che presumo fosse di quella creatura mi ha detto “Ehi! io sono Pepper, vuoi entrare?”»
I tre carabinieri erano ammutoliti. Il giovane carabiniere aveva smesso di trascrivere già da un pezzo. Guardava attonito prima il Maresciallo, poi l’Appuntato. Fabio Bombana aveva la fronte che sembrava un campo arato. La bocca scomposta, si stava mordendo un labbro.
Roberto Cristiani andò a sedersi alla sua scrivania. Guardò prima Federico, poi sua figlia. «Quindi sei entrato?» Il ragazzo scosse il capo prima a destra, poi a sinistra e infine ancora a destra.
«Ieri mattina Federico è venuto da me. Papà. Mi ha raccontato quello che aveva visto. Siamo andati in biblioteca. Abbiamo rovistato tra gli archivi storici del paese. Papà... quell’Hotel ha 1600 anni. E sai come si chiamava nel quarto secolo?»
«Elisa.», suo padre scosse il capo «voi due non capite che ogni parola che aggiungete a questo fantasioso racconto...»
«E’ la verità!» Elisa tirò un pugno sul tavolo così forte che il quadretto di famiglia vacillò e si rovesciò. «Sinterklaas. Era il nome di quella che a suo tempo era una locanda. E Sinterklaas è il nome in Olandese di San Nicola. Dal quale deriva Santa Claus!»
L’Appuntato e il carabiniere semplice tirarono indietro la testa e scoppiarono a ridere. Roberto avrebbe voluto alzarsi e abbracciare sua figlia. Dirle che l’amava e che le credeva. Ma avrebbe dovuto spiegare troppe cose. «Così questa notte siete entrati in quella porta, vi siete fatti un giro in Lapponia, tra renne ed elfi e vi siete sbronzati di vin Brulè. Dico bene?»
Elisa si alzò dalla sedia, una sedia che se avesse potuto, l’avrebbe scagliata contro suo padre. «Siamo in stato di fermo? Come funziona? Siamo accusati di qualcosa?» Roberto scosse la testa.
«Andate a casa e fatevi una dormita.» Il Maresciallo Capo seguì con lo sguardo i due ragazzi, vestirsi e uscire. Poi guardò il suo appuntato «Mi dispiace per come ho reagito prima, Fabio. Avevi ragione tu. È stata solo una ragazzata.»
Fabio Bombana gli sorrise. «Devo dire però, che è la prima volta che sento una storia del genere. Non avertene a male amico mio. Probabilmente sono andati oltre al vin Brulè» tornò alla sua scrivania, agitando la testa.

Sinterklaas
Per cena sua figlia non gli rivolse la parola. Mariagrazia lo guardò, con aria interrogativa, Roberto alzò le spalle. Poi la seguì in camera sua. «Propongo una birretta. Io e te soli.» Elisa strabuzzò gli occhi «Pensi di cavartela con una birra? E da quando bevi con me poi?»
«Da questa sera.» Roberto le sorrise. «Intanto partiamo con una birretta.»
Quando parcheggiò l’Audi A6 nel parcheggio del Sinterclas Elisa lo guardò e aggrottò la fronte. «Perché siamo qua?» Poi Roberto fece una cosa che non faceva da molto tempo; si avvicinò a sua figlia e la baciò sulla fronte. Lei si ritrasse «Okay ora sta diventato tutto molto strano.»
«Vieni, entriamo.»
Roberto Cristiani entrò nell’Hotel con sua figlia, in abiti civili. Federico Milanese era alla reception con l’uomo che riconobbe subito come il proprietario: Nicola. Un vecchio sulla settantina, dalla corporatura robusta. Quando li vide entrare, gli occhi del vecchio si illuminarono, quelli di Federico invece diventarono delle enormi biglie.
«Mi venga un colpo se quello che non ho davanti è Roberto Cristiani, il mio ragazzo!»
Nicola andò loro incontro a braccia aperte. Elisa si lasciò avvolgere nell’abbraccio e percepì così tanto amore che si abbandonò infossando la testa alla base del collo di Nicola.
Federico uscì dal bancone e incredulo disse: «Io non capisco...»
Nicola guardò Roberto, poi i due ragazzi e infine tornò sul maresciallo. «La scelta è tua, ragazzo mio.»
Roberto trasse un profondo respiro, guardò Elisa e poi Federico: «Avevo la tua stessa età quando chiesi un lavoro a Nicola, in questo Hotel...»
«Cosa?», fece sua figlia, «tu hai lavorato qui?»
«Già. Avevo appena conosciuto tua madre e la vita da militare non mi attirava così tanto ma poi...»
«Lei è entrato in quella porta!» lo interruppe Federico, «ecco perché oggi ci ha liquidati in quel modo. Sapeva che non stavamo mentendo!»
Roberto gli sorrise e annuì.
Nicola diede una pacca sulla spalla a Roberto «Beh, diciamola tutta. Appena Pepper, il mio guardiano, gli ha chiesto di entrare, Roberto è scappato via. Giù per le scale e infine dall’hotel. Avreste dovuto vedere che falcate!»
I due ragazzi tirarono indietro la testa e scoppiarono a ridere, Roberto diventò paonazzo poi si unì alle risate. «Sono ancora in tempo Nicola? Per quell’invito?»
«Ma certo ragazzo mio!»
«C’è posto anche per noi?» chiese Federico.
«Sicuro! C’è posto per tutti quanti. C’è posto per chi ancora crede nei sogni. Per chi ancora crede nelle favole.»
Al secondo piano, Nicola fece entrare per primi i due ragazzi, poi fermò Roberto sulla soglia della porta e gli mise un braccio attorno al collo, lo strinse a se e gli sussurrò: «Federico è un bravo ragazzo...», lo guardò negli occhi «... e ti assomiglia.»
Roberto annuì: «Lo so.», disse un secondo prima che una palla di neve lo colpì al petto. Incredulo, il maresciallo guardò in direzione dalla quale era arrivata: Elisa e Federico erano al centro di quello che sembrava un villaggio, illuminato da lampioni ad arco, con case fatte in legno, dai tetti spioventi carichi di neve. «Muoviti!» Urlo sua figlia, ridendo come non la vedeva fare da troppo tempo. Roberto fece un passo e varcò la soglia delle sue certezze. La neve scricchiolò sotto gli scarponi; si chinò guardando sua figlia, con un ghigno che presagì vendetta e le palle di neve iniziarono a saettare da una parte all’altra.
La mattina del 3 dicembre, in caserma, Fabio Bombana e Antonio Ravati si guardarono increduli; il suo Maresciallo, la figlia e il fidanzato erano completamente ubriachi; seduti in modo scomposto, sulle poltrone della sala d’attesa le loro teste ciondolavano avanti e indietro ridendo come pazzi e fischiettando Jingle Bells.

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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#3 » martedì 10 gennaio 2023, 17:51

Attesa
di Elisa Belotti

Guardo il cielo dallo squarcio nella pesante tenda rossa.
Tengo la fessura aperta con le mani e l’azzurro brillante di questo sabato di maggio mi fa inumidire gli occhi.
Una nuvola solitaria e timida sporca di bianco il celeste perfetto di lassù.
Da quando ne ho memoria, sono sempre stato attratto dagli squarci, dai pertugi, dalle spaccature che permettono allo spazio di essere uno, oltre la divisione di cui si serve l’uomo per sentirsi al sicuro.
Perimetrare le cose. Creare confini che ci rendano meno spaventosa la vastità che non sappiamo capire.
Lascio che i polpastrelli si perdano al tatto con il tessuto, proprio come i miei occhi stanno facendo con il cielo.
L’aria è della temperatura migliore: quella sotto cui immagino qualcuno disteso in un prato a leggere un libro.
Mi stuzzica il naso e sento il leggero pizzicore che i pollini provocano alle narici. Ispiro ed espiro profondamente, per allenarmi a non sentirlo più, per lasciare che quell’aria mi penetri senza annunciarsi e si trasformi in fiato caldo da restituire al mondo.
Fisso la nuvola che interrompe la monocromia del cielo e penso che siamo tutti spazio e ostacoli allo spazio. Siamo tutti parte della stessa cosa e siamo anche la sua interruzione. Siamo partecipi di noi stessi e dei nostri opposti. Siamo uno e negazione dell’uno.
Ogni volta che verbalizzo pensieri come questi la gente intorno mi guarda male, si allontana, si lascia andare a commenti sgradevoli.
“Cerca di fare la persona normale!”, vedo ancora mia madre pronunciare queste parole mentre si copre la bocca, così che nessuno intorno possa sentirla o leggerle il labiale, tranne me. É capitato spesso: non le piaceva molto l’idea che tutti sapessero che aveva un figlio matto.
Si vergognavano di certi miei discorsi: è una cosa che ho sempre percepito.
Come quando quell’unica volta ho provato a spiegar loro che per me la vita è stata un’angheria continua, ma che i tagli, gli squarci, i pertugi e l’idea che quelle superfici fossero un tempo intonse, integre, in attesa della rottura che ricollega il tutto al tutto, che questo pensiero preciso mi dà pace… Quell’unica volta…
“Tu, figliolo, hai una fervida immaginazione, ma non tutti possono capirti… Non dico che non devi pensare certe cose, però, ecco, forse è meglio che tu le tenga per te”, il sorriso che colora la barba fulva di mio padre, quei denti perfetti che lasciano uscire dalla bocca solo parole più edulcorate di quelle che pensa davvero: questa è l’eredità che mi rimane del suo perbenismo.
La mano destra molla la presa sulla tenda. Indice e medio iniziano a scorrere lentamente sul mio braccio sinistro, dall'incavo dietro al gomito sino al polso. Seguono lentamente le cicatrici come un viandante sfinito ma ancora curioso metterebbe un piede dietro l’altro nella via che conduce alla locanda, come un cieco leggerebbe una poesia in braille.
Volevo dei varchi nel mio braccio. Volevo che lo spazio si unisse allo spazio. Avrei continuato se non mi avessero fermato.
Ho provato a spiegare loro le mie ragioni, ma non hanno capito.
Non hanno mai capito nulla dei tagli, dei varchi, dei pertugi. Tanto meno dell’attesa che li precede.
Ricordo con precisione quando il primo varco si è aperto dentro di me. Quando mi sono rotto. O forse mi sono aggiustato. Forse si nasce rotti e ci si aggiusta così.
Prima c’è stata l’attrazione per il foro. L’attesa frenetica di vedere cosa si nasconde dentro ai buchi, di scoprire dove va lo spazio che si sposta da una stanza all’altra.
Poi, si è aperto il varco invisibile. Quello che vedo e sento solo io.


La casa era quasi completamente addobbata.
Ho sempre adorato le vacanze di Natale, perchè l’aria diventava elettrica e io, il papà e la mamma facevamo tante cose insieme.
Erano più o meno le sei di sera, me lo ricordo perchè Annamaria era passata un’ora prima per il tè delle cinque, l’appuntamento che lei e la mamma si davano tutti i venerdì pomeriggio.
“Ho solo mezz'ora perché mi chiudono i negozi e devo comprare gli ultimi regali, vorrei avere tutto per domani”, la mamma versò il tè caldo nella tazza di Annamaria, che se ne stava composta al tavolo della cucina.
“Ci mancherebbe, scusami tu se non ti ho avvisata, ma sai, è un po’ il nostro rito e-”.
“Stai scherzando? Scusami tu, ma davvero voglio levarmi quest’incombenza e godermi un po’ Mario e Lucio in questi giorni”, mia madre mise i biscotti sul tavolo e si sedette accanto all’amica.
Io sentivo la loro conversazione dalla sala, dove stavo completando, sul pavimento, il puzzle che i nonni mi avevano regalato per il compleanno: due cavalli al galoppo in un prato verdissimo.
Le chiacchiere erano proseguite incessantemente, fino a che il campanile della piazza vicina non aveva suonato la mezza.
“Lucio, noi usciamo!”, mi aveva gridato la mamma dopo essersi messa il cappotto, ormai già sull’uscio, “Torno tra un paio d’ore al massimo. Saluta Annamaria!”.
“Ciao Annamaria!”, avevo gridato distratto, con gli occhi fissi sul pavimento, alla ricerca del pezzo giusto da incastrare.
Avevo dieci anni, adoravo i puzzle e adoravo stare a casa da solo.
Sapevo che il papà sarebbe rientrato a breve, ma tanto si sarebbe chiuso nel suo studio, come al solito, per finire “le sue pratiche”, le chiamava così, e visto che ero in vacanza non mi avrebbe rotto troppo con le cose da fare. Avevo ancora almeno un paio d’ore per giocare.
Il tempo trascorse sereno e il puzzle era quasi finito, era rimasto un solo buco, centrale, sul muso del cavallo bianco.
Cercai il pezzo mancante intorno, ma non lo trovavo. Sollevai il lembo più vicino del tappeto per controllare che non fosse finito lì sotto: nulla. Mi abbassai per controllare sotto il divano, ma non vedevo niente.
Fissai quel buco insistentemente: fu allora che si insinuò in me la sensazione che ci fosse in quel vuoto un potenziale, più che un’assenza. Che rappresentasse un passaggio. Fu un’intuizione, ma presto tornai a desiderare la chiusura di quel piccolo varco irregolare.
Non mi arresi e mi decisi ad andare in camera per cercare la torcia così da poter guardare meglio sotto il divano.
Probabilmente fu in quel momento che entrarono, perché io non me ne accorsi.
Sono sempre stato un tipo disordinato e proprio non trovavo la pila elettrica.
Era nascosta nel cassetto dei calzini. L’afferrai e tornai in sala. Mi sdraiai e l’accesi.
“Eccoti!”, sussurrai felice di aver trovato l’ultimo tassello.
Infilai il braccio sotto il divano e lo recuperai.
“Ti finisco il muso, cavallino bianco” e schiacciai il pezzo in mezzo agli altri.
Il puzzle era completo. Certo, adesso dovevo trovare il modo di sollevarlo. Che idea stupida farlo sul pavimento. Quando torna la mamma le chiedo come tirarlo su, pensai alzandomi.
Sentii dei rumori provenire dallo studio.
“Ciao papi!”, nessuna risposta.
Mi diressi verso la porta, se non era troppo impegnato l’avrei salutato prima di inventarmi un altro gioco.
Dei rumori ripetitivi e ovattati uscivano indistinti dalla stanza.
Il corridoio era buio e dalla serratura dello studio usciva un filo di luce.
Mi avvicinai piano, fissai la porta scura e quel raggio ambrato.
Afferrai la maniglia e provai ad aprire la porta, piano. Nulla. Come al solito il papà si era chiuso dentro. La cosa non mi stupiva molto. Lo faceva sempre: chiudeva e si metteva la chiave in tasca con un gesto automatico. Diceva che si concentrava meglio se lasciava il mondo fuori dalla stanza.
I suoni ripetitivi e secchi continuavano sempre più velocemente.
Mi chinai e provai a guardare attraverso il foro della serratura.
Ci misi un po’ a capire quello che i miei occhi stavano vedendo.
Mio padre era in piedi, con le mani sulla scrivania e i pantaloni calati. Le sue natiche si contraevano e lui sembrava dare dei colpi a qualcosa. Mi spostai un po’ per cercare di vedere meglio.
Intorno alla sua vita c’erano delle gambe che indossavano stivali.
Iniziò a girarmi la testa. Sentii in bocca un sapore acido.
Scappai in sala e mi rannicchiai sotto l’albero di Natale.
Mi tenevo le ginocchia strette al petto e mi sforzavo di strizzare gli occhi chiusi quanto più possibile.
Non so quanto tempo rimasi in quella posizione.

Li sentii attraversare il corridoio senza parlare. Erano quasi in cucina quando si aprì la porta di casa.
“Simona, amore mio!”, compresi che la mamma doveva essere tornata la mamma proprio in quel momento. Immaginai che mio padre la stesse baciando, come sempre quando rientrava a casa. “Annamaria aveva dimenticato la sciarpa ed è tornata a prenderla. Stava per andare, ma sperava di salutarti!”.
“Rieccoci, Simo! Sono la solita stordita… Meno male che ho incontrato Mario!”.
“Sei la solita! Ti vuoi fermare a cena?”, la mamma era sempre cordiale.
“No, no, mi aspettano Antonio e Giulia per cena, anzi, direi che è già tardi. Ci sentiamo i prossimi giorni?”, la voce di Annamaria era serena. Parlava esattamente come qualche ora prima.
“Va bene! Non dimenticarti ancora la sciarpa, però…”, immaginai che la mamma stesse passando la sciarpa ad Annamaria.
“A presto”, la voce del papà coprì appena la porta d’ingresso che si apriva.
“A presto, salutatemi Lucio!”, la porta si chiuse dietro le spalle di Simona.
I passi del papà e della mamma si dirigevano verso la cucina.
“Dov’è il bambino? Lucio!”, la voce del papà mi arrivò come una sberla.
D’un tratto si accese la luce della sala. Aprii gli occhi.
“Lucio!”, la mamma mi guardava stupita, “ma cosa fai lì sotto?”.
“Gioco”, le lacrime uscirono senza che potessi trattenerle.
“Cosa è successo, racconta al papi…”, sentii la carezza di mio padre sulla guancia. “Sono sicuro che non è niente di irrisolvibile. Simona, tu vai a cucinare che ci parlo io con l’ometto”, mi diede un buffetto sulla guancia.
“Va bene, vi lascio chiacchierare, ma poi lo raccontate anche a me che altrimenti mi preoccupo… Ti preparo le lasagne che ti piacciono tanto, piccolo,va bene?”.
Mentre la mamma se ne andava, papà mi prese la testa tra le mani. Il suo sguardo fisso nel mio: era preoccupato.
“Non vuoi raccontare a papà cosa succede?”.
Non riuscivo a parlare.
“È qualcosa che hai sentito prima che tornasse la mamma?”, la pelle ruvida delle sue mani scorreva sulle mie guance.
Quello che ho visto, papà, non quello che ho sentito. Quello che ho sentito non l’ho capito. Non ho capito nemmeno fino in fondo quello che ho visto, ma mi ha fatto male. Non sapevo come dirgli quello che stavo pensando.
“Tu e Annamaria… Nello studio… Cosa, cosa stavate facendo, papà?”, le sue mani si fermarono e allentarono la presa sul mio volto.
“Ehi, cosa stai dicendo, cucciolo di papà”, la sua voce aveva qualcosa di diverso, un tono che non avevo mai sentito. “Ho incontrato Annamaria sulle scale. Aveva dimenticato qui la sciarpa e l’ho fatta entrare per riprenderla… Non so cosa tu ti sia messo in testa, non ci siamo nemmeno entrati nel mio studio”, le sue dita tornarono a muoversi sulle mie gote. “Tu hai tanta immaginazione, Lucio, ed è davvero una cosa bella. Ma avere tanta immaginazione a volte può essere un problema, perché si fa fatica a distinguere le cose vere da quelle false. Non dire niente alla mamma, che poi si preoccupa, va bene?”.
Mi sentivo confuso. Mi sono sempre fidato del mio papà.
Ma cosa avevo visto davvero oltre il foro della serratura? Ne ero poi così sicuro?
Mio padre mi strinse forte a sé.
Appoggiai la mano sinistra sul pacco regalo che avevo più vicino e con l’unghia dell’indice stracciai verticalmente la carta, oltre la quale intravidi il puzzle che papà mi aveva preso per Natale.
Quello fu il mio primo taglio.


L’azzurro si arrossa gradualmente. La tenuità di questo tramonto mi commuove: mi sono sempre chiesto come fosse possibile per la vita essere così misurata, leggera. Se lo avessi dipinto io, il cielo sarebbe stato infuocato, insanguinato, della stessa tonalità di questa tenda lacerata. Non sono capace di medietà, io. Non riesco a non farmi permeare da tutto fino a farmi scuotere le budella. Non riesco a non vedere in ogni ostacolo la possibilità del foro. Non riesco a non provare un piacere straziante nell’attesa di farne uno e di guardarci dentro, di vedere cosa c’è al di là. E non mi importa poi molto se quella visione è reale o no.
Mi importa solo di due cose: il taglio e l’attesa.
Vedere cosa succede.
Infilo una mano in tasca ed estraggo il tassello bianco di quel puzzle. Quello che ha permesso che mi rendessi conto del vuoto e della possibilità che racchiude.
Lo guardo e sorrido pensando che la sua assenza ha avuto per me più valore della sua presenza. Lui solo vale tutti i puzzle di cui è costellata la mia vita.
Qualche volta, mi chiedo se quello che sto guardando esiste davvero o se è tutto frutto della mia immaginazione.
Mi rispondo sempre che conta poco: io sono la mia immaginazione e quello che immagino non è meno vero di tutto il resto.
Io sono lo spazio e la sua interruzione.
Io sono il taglio e l’attesa.
Rimetto il pezzo di puzzle in tasca.
Qualche ora fa ho spalancato la finestra, ho inchiodato allo zoccoletto gli angoli inferiori della tenda. Ho preso il taglierino e l’ho tagliata in centro.
Un taglio verticale, alto quasi quanto me.
Mi alzo in piedi e lo spalanco. La tenda si squarcia e l’aria sottile mi accarezza. Chiudo gli occhi. Una volta ho letto che la gente si butta perché è come se in casa sua vedesse delle fiamme, invisibili agli altri, e considerasse il vuoto la scelta migliore.
Nel mio caso non è così.
Io voglio che lo spazio si riunisca allo spazio.
Voglio che si cancelli il confine tra il reale e l’immaginato.
Voglio vedere cosa c’è dopo l’attesa.
Prendo coraggio.
Mi lancio.

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Eugene Fitzherbert
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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#4 » giovedì 19 gennaio 2023, 13:12

Sinterklaas
Ciao, Denis, bentrovato su questi lidi.
Il tuo racconto ha dentro di sé il germe di una buona idea, il villaggio nascosto dietro una porticina. Non è originalissimo, ma non è un problema. È affascinante perché ha quell’aspetto fiabesco che ci sta tutto con il Natale e mette di buon umore (e ne abbiamo tutti un po’ bisogno).
Purtroppo, è la realizzazione e la stesura della storia che in alcuni frangenti mi ha lasciato perplesso.
Su un livello strutturare, ci sono alcuni passaggi ridondanti: uno fra tutti è il capitolo dedicato a Federico. Capisco la necessità di raccontare un po’ di background del ragazzo, ma quell’intera sezione è praticamente inutile ai fini della trama. Ho provato a leggere il tuo racconto senza quel pezzo, e ti assicuro, arriva alla fine senza scossoni. Il mio consiglio è quello di spalmare i dettagli del background di Federico nella scena dell’interrogatorio.
A proposito dell’interrogatorio: ci sono ben 5 personaggi (il maresciallo, sua figlia, Federico e i due appuntati), ma nell’ambito dello scambio di battute ne servono a malapena tre. Sei sicuro che avevi davvero bisogno di tutti quelle persone in quella stanza? Tra l’altro uno dei due appuntati praticamente non parla mai, o se lo fa non dice niente di utile. In un caso come questo, dove hai una platea di personaggi da gestire e pochissimo spazio, devi operare una scelta difficile: sacrificarne qualcuno per rendere quanto più snella e veloce la rappresentazione. Sei sicuro che non bastasse il maresciallo per condurre l’interrogatorio?
Ultima cosa: il finale. Secondo me avresti dovuto montare meglio la tensione per arrivare alla soluzione con più slancio. Alla fine un racconto breve è come un gioco di prestigio e quello che manca al tuo è la cosiddetta misdirection: portare il lettore a pensare ad altro, a fargli credere di aver capito tutto e poi ribaltargli la situazione. In questo caso, dovevi puntare ancora di più sull’atteggiamento rancoroso del Maresciallo nei confronti di Federico e spingere sull’idea che l’avrebbe punito (addirittura lasciando intendere che l’avrebbe picchiato o altro), per poi risolvere con la scoperta della stanza segreta. Sarebbe stato più interessante, probabilmente.
A livello stilistico, già ti sono stati dati tanti suggerimenti: focalizzarti sul punto di vista (che già fai!), limitare le digressioni, preferire lo show don’t tell e tutte quelle tecniche di scrittura che agevolano il lettore. Alla fine, in quanto autore di uno scritto, il tuo obiettivo è quello di fornire informazioni e dettagli a chi legge per fare immaginare la storia così come la stai vedendo tu nella tua testa. La difficoltà enorme sta proprio nello scegliere i dettagli giusti e nel numero minimo consentito per far figurare la scena. Non sempre aggiungere aggettivi e descrizioni migliora la resa, ma al contrario sputa via il lettore lontano da dove lo vuoi far arrivare. E te lo dico perché ci sono cascato io stesso per tanto tanto troppissimo tempo.
Spero di esserti stato utile!
(Piccolo inciso: si scrive – Si siede a fianco di… e non AFFIANCO di.

Attesa
Ciao, Elisa, bentrovata in questi lidi anche a te.
Hai scelto di giocarti la carta del trauma infantile, che è sempre una cosa interessante. In questo caso è un po’ il classico bambino che scopre i genitori a letto, ma con il twist che il papà si sta dando da fare con l’amica di mamma sulla scrivania. In realtà non so se un bambino di 10 anni sia già abbastanza scafato da conoscere i segreti del sesso, ma non voglio neanche fare la ricerca su google per paura di quello che potrebbe mai uscire. Non è il mio ambito e a parte la mia esperienza diretta, non ho altre conoscenze a riguardo, per cui prendo tutto per buono.
Però c’è qualcosa che stona: innanzitutto il ragazzino era già mentalmente disturbato o no? Parli della sua reazione al buco presente nel puzzle come se fosse la prima volta che gli venisse in mente l’idea del vuoto e dello spazio tra gli spazi. Quindi fino a quel momento non c’era stata nessuna “illuminazione”. Ci può stare, ma non capisco perché sia avvenuta proprio in quel momento.
Altra cosa: non vedo l’attinenza tra il trauma della visione delle natiche del papà e gli squarci. L’unica cosa che mi viene in mente è la forma del solco intergluteo. Ma è davvero quello? Ciò che manca davvero nel racconto è il movimento di follia che ha portato Lucio a diventare il “matto” che si suiciderà. Forse ci sarebbe stato bisogno di un intervento del padre più incisivo, o di costruire la scena del buco della serratura in modo più crudele nei confronti del ragazzino.
Un’altra cosa che non mi ha fatto impazzire è stata la reazione della mamma al figlio in lacrime. Troppo leggera: Lucio piange… Oh, va bene, vado a fare le lasagne. Era il momento migliore per instillare un po’ di contrasto tra i genitori davanti a Lucio stesso, e questo è un motivo che l’avrebbe portato a essere traumatizzato.
Ma alla fine queste sono elucubrazioni che mi faccio io, non vuol dire che siano esatte.
Stilisticamente, il racconto è coerente, sempre legato al punto di vista. Sei riuscita a ricreare il delirio lucido in cui navigano i pensieri di Lucio e questo è un punto a tuo favore. D’altro canto, attenta agli usi degli avverbi: evita cose tipo “Quasi completamente addobbata” che non dà nessuna indicazione sullo stato degli addobbi e anzi è al limite dell’ossimoro descrittivo (quasi, che indica qualcosa di incompleto, e completamente, che ne è l’esatto opposto).

Venendo al “verdetto”:
Ho letto i racconti con piacere e li ho anche riletti perché meritavano una seconda occhiata. Va da sé che il commento che ho scritto sopra è sbilanciato, visto che ho preferito concentrarmi sugli elementi che per me sono di debolezza e questo fa sembrare che io abbia odiato con tutte le mie forze i vostri scritti. Non fraintendetemi: in questa fase, in questo luogo, le uniche cose che ci fanno crescere sono le critiche circostanziate e argomentate.
Lo ripeto: i racconti sono stati un piacevole ritaglio di tempo ed è una cosa rarissima da un po’ di tempo a questa parte. Spero che con tutte le parole che ho scritto finora, i prossimi siano ancora migliori.
Per arrivare alla classifica, per me passa il racconto di Elisa (L’attesa), più che altro perché mostra un maggiore accortezza stilistica e per il pregio di essere entrata nella testa di un uomo disturbato.
Grazie a tutti e due per il tempo speso per partecipare alla sfida. Ma non è ancora finita!
Ora viene la parte migliore: la finale!

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Shanghai Kid
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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#5 » giovedì 19 gennaio 2023, 16:30

Eugene Fitzherbert ha scritto:Sinterklaas
Ciao, Denis, bentrovato su questi lidi.
Il tuo racconto ha dentro di sé il germe di una buona idea, il villaggio nascosto dietro una porticina. Non è originalissimo, ma non è un problema. È affascinante perché ha quell’aspetto fiabesco che ci sta tutto con il Natale e mette di buon umore (e ne abbiamo tutti un po’ bisogno).
Purtroppo, è la realizzazione e la stesura della storia che in alcuni frangenti mi ha lasciato perplesso.
Su un livello strutturare, ci sono alcuni passaggi ridondanti: uno fra tutti è il capitolo dedicato a Federico. Capisco la necessità di raccontare un po’ di background del ragazzo, ma quell’intera sezione è praticamente inutile ai fini della trama. Ho provato a leggere il tuo racconto senza quel pezzo, e ti assicuro, arriva alla fine senza scossoni. Il mio consiglio è quello di spalmare i dettagli del background di Federico nella scena dell’interrogatorio.
A proposito dell’interrogatorio: ci sono ben 5 personaggi (il maresciallo, sua figlia, Federico e i due appuntati), ma nell’ambito dello scambio di battute ne servono a malapena tre. Sei sicuro che avevi davvero bisogno di tutti quelle persone in quella stanza? Tra l’altro uno dei due appuntati praticamente non parla mai, o se lo fa non dice niente di utile. In un caso come questo, dove hai una platea di personaggi da gestire e pochissimo spazio, devi operare una scelta difficile: sacrificarne qualcuno per rendere quanto più snella e veloce la rappresentazione. Sei sicuro che non bastasse il maresciallo per condurre l’interrogatorio?
Ultima cosa: il finale. Secondo me avresti dovuto montare meglio la tensione per arrivare alla soluzione con più slancio. Alla fine un racconto breve è come un gioco di prestigio e quello che manca al tuo è la cosiddetta misdirection: portare il lettore a pensare ad altro, a fargli credere di aver capito tutto e poi ribaltargli la situazione. In questo caso, dovevi puntare ancora di più sull’atteggiamento rancoroso del Maresciallo nei confronti di Federico e spingere sull’idea che l’avrebbe punito (addirittura lasciando intendere che l’avrebbe picchiato o altro), per poi risolvere con la scoperta della stanza segreta. Sarebbe stato più interessante, probabilmente.
A livello stilistico, già ti sono stati dati tanti suggerimenti: focalizzarti sul punto di vista (che già fai!), limitare le digressioni, preferire lo show don’t tell e tutte quelle tecniche di scrittura che agevolano il lettore. Alla fine, in quanto autore di uno scritto, il tuo obiettivo è quello di fornire informazioni e dettagli a chi legge per fare immaginare la storia così come la stai vedendo tu nella tua testa. La difficoltà enorme sta proprio nello scegliere i dettagli giusti e nel numero minimo consentito per far figurare la scena. Non sempre aggiungere aggettivi e descrizioni migliora la resa, ma al contrario sputa via il lettore lontano da dove lo vuoi far arrivare. E te lo dico perché ci sono cascato io stesso per tanto tanto troppissimo tempo.
Spero di esserti stato utile!
(Piccolo inciso: si scrive – Si siede a fianco di… e non AFFIANCO di.

Attesa
Ciao, Elisa, bentrovata in questi lidi anche a te.
Hai scelto di giocarti la carta del trauma infantile, che è sempre una cosa interessante. In questo caso è un po’ il classico bambino che scopre i genitori a letto, ma con il twist che il papà si sta dando da fare con l’amica di mamma sulla scrivania. In realtà non so se un bambino di 10 anni sia già abbastanza scafato da conoscere i segreti del sesso, ma non voglio neanche fare la ricerca su google per paura di quello che potrebbe mai uscire. Non è il mio ambito e a parte la mia esperienza diretta, non ho altre conoscenze a riguardo, per cui prendo tutto per buono.
Però c’è qualcosa che stona: innanzitutto il ragazzino era già mentalmente disturbato o no? Parli della sua reazione al buco presente nel puzzle come se fosse la prima volta che gli venisse in mente l’idea del vuoto e dello spazio tra gli spazi. Quindi fino a quel momento non c’era stata nessuna “illuminazione”. Ci può stare, ma non capisco perché sia avvenuta proprio in quel momento.
Altra cosa: non vedo l’attinenza tra il trauma della visione delle natiche del papà e gli squarci. L’unica cosa che mi viene in mente è la forma del solco intergluteo. Ma è davvero quello? Ciò che manca davvero nel racconto è il movimento di follia che ha portato Lucio a diventare il “matto” che si suiciderà. Forse ci sarebbe stato bisogno di un intervento del padre più incisivo, o di costruire la scena del buco della serratura in modo più crudele nei confronti del ragazzino.
Un’altra cosa che non mi ha fatto impazzire è stata la reazione della mamma al figlio in lacrime. Troppo leggera: Lucio piange… Oh, va bene, vado a fare le lasagne. Era il momento migliore per instillare un po’ di contrasto tra i genitori davanti a Lucio stesso, e questo è un motivo che l’avrebbe portato a essere traumatizzato.
Ma alla fine queste sono elucubrazioni che mi faccio io, non vuol dire che siano esatte.
Stilisticamente, il racconto è coerente, sempre legato al punto di vista. Sei riuscita a ricreare il delirio lucido in cui navigano i pensieri di Lucio e questo è un punto a tuo favore. D’altro canto, attenta agli usi degli avverbi: evita cose tipo “Quasi completamente addobbata” che non dà nessuna indicazione sullo stato degli addobbi e anzi è al limite dell’ossimoro descrittivo (quasi, che indica qualcosa di incompleto, e completamente, che ne è l’esatto opposto).

Venendo al “verdetto”:
Ho letto i racconti con piacere e li ho anche riletti perché meritavano una seconda occhiata. Va da sé che il commento che ho scritto sopra è sbilanciato, visto che ho preferito concentrarmi sugli elementi che per me sono di debolezza e questo fa sembrare che io abbia odiato con tutte le mie forze i vostri scritti. Non fraintendetemi: in questa fase, in questo luogo, le uniche cose che ci fanno crescere sono le critiche circostanziate e argomentate.
Lo ripeto: i racconti sono stati un piacevole ritaglio di tempo ed è una cosa rarissima da un po’ di tempo a questa parte. Spero che con tutte le parole che ho scritto finora, i prossimi siano ancora migliori.
Per arrivare alla classifica, per me passa il racconto di Elisa (L’attesa), più che altro perché mostra un maggiore accortezza stilistica e per il pregio di essere entrata nella testa di un uomo disturbato.
Grazie a tutti e due per il tempo speso per partecipare alla sfida. Ma non è ancora finita!
Ora viene la parte migliore: la finale!


Caro Eugene Fitzherbert,
grazie davvero per tutte le critiche che mi hai mosso. Sono ben conscia che il mio racconto sia tutto fuorchè perfetto, anzi, e sono veramente grata a chi, come gli altri partecipanti prima e te ora, mi muova delle critiche così costruttive. Proverò certamente a farle fruttare. Ti ringrazio davvero per il tempo che mi hai dedicato e per tutte le criticità che hai evidenziato.
A presto,
Elisa

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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#6 » venerdì 20 gennaio 2023, 11:25

Eugene Fitzherbert ha scritto:Sinterklaas
Ciao, Denis, bentrovato su questi lidi.
Il tuo racconto ha dentro di sé il germe di una buona idea, il villaggio nascosto dietro una porticina. Non è originalissimo, ma non è un problema. È affascinante perché ha quell’aspetto fiabesco che ci sta tutto con il Natale e mette di buon umore (e ne abbiamo tutti un po’ bisogno).
Purtroppo, è la realizzazione e la stesura della storia che in alcuni frangenti mi ha lasciato perplesso.
Su un livello strutturare, ci sono alcuni passaggi ridondanti: uno fra tutti è il capitolo dedicato a Federico. Capisco la necessità di raccontare un po’ di background del ragazzo, ma quell’intera sezione è praticamente inutile ai fini della trama. Ho provato a leggere il tuo racconto senza quel pezzo, e ti assicuro, arriva alla fine senza scossoni. Il mio consiglio è quello di spalmare i dettagli del background di Federico nella scena dell’interrogatorio.
A proposito dell’interrogatorio: ci sono ben 5 personaggi (il maresciallo, sua figlia, Federico e i due appuntati), ma nell’ambito dello scambio di battute ne servono a malapena tre. Sei sicuro che avevi davvero bisogno di tutti quelle persone in quella stanza? Tra l’altro uno dei due appuntati praticamente non parla mai, o se lo fa non dice niente di utile. In un caso come questo, dove hai una platea di personaggi da gestire e pochissimo spazio, devi operare una scelta difficile: sacrificarne qualcuno per rendere quanto più snella e veloce la rappresentazione. Sei sicuro che non bastasse il maresciallo per condurre l’interrogatorio?
Ultima cosa: il finale. Secondo me avresti dovuto montare meglio la tensione per arrivare alla soluzione con più slancio. Alla fine un racconto breve è come un gioco di prestigio e quello che manca al tuo è la cosiddetta misdirection: portare il lettore a pensare ad altro, a fargli credere di aver capito tutto e poi ribaltargli la situazione. In questo caso, dovevi puntare ancora di più sull’atteggiamento rancoroso del Maresciallo nei confronti di Federico e spingere sull’idea che l’avrebbe punito (addirittura lasciando intendere che l’avrebbe picchiato o altro), per poi risolvere con la scoperta della stanza segreta. Sarebbe stato più interessante, probabilmente.
A livello stilistico, già ti sono stati dati tanti suggerimenti: focalizzarti sul punto di vista (che già fai!), limitare le digressioni, preferire lo show don’t tell e tutte quelle tecniche di scrittura che agevolano il lettore. Alla fine, in quanto autore di uno scritto, il tuo obiettivo è quello di fornire informazioni e dettagli a chi legge per fare immaginare la storia così come la stai vedendo tu nella tua testa. La difficoltà enorme sta proprio nello scegliere i dettagli giusti e nel numero minimo consentito per far figurare la scena. Non sempre aggiungere aggettivi e descrizioni migliora la resa, ma al contrario sputa via il lettore lontano da dove lo vuoi far arrivare. E te lo dico perché ci sono cascato io stesso per tanto tanto troppissimo tempo.
Spero di esserti stato utile!
(Piccolo inciso: si scrive – Si siede a fianco di… e non AFFIANCO di.

Attesa
Ciao, Elisa, bentrovata in questi lidi anche a te.
Hai scelto di giocarti la carta del trauma infantile, che è sempre una cosa interessante. In questo caso è un po’ il classico bambino che scopre i genitori a letto, ma con il twist che il papà si sta dando da fare con l’amica di mamma sulla scrivania. In realtà non so se un bambino di 10 anni sia già abbastanza scafato da conoscere i segreti del sesso, ma non voglio neanche fare la ricerca su google per paura di quello che potrebbe mai uscire. Non è il mio ambito e a parte la mia esperienza diretta, non ho altre conoscenze a riguardo, per cui prendo tutto per buono.
Però c’è qualcosa che stona: innanzitutto il ragazzino era già mentalmente disturbato o no? Parli della sua reazione al buco presente nel puzzle come se fosse la prima volta che gli venisse in mente l’idea del vuoto e dello spazio tra gli spazi. Quindi fino a quel momento non c’era stata nessuna “illuminazione”. Ci può stare, ma non capisco perché sia avvenuta proprio in quel momento.
Altra cosa: non vedo l’attinenza tra il trauma della visione delle natiche del papà e gli squarci. L’unica cosa che mi viene in mente è la forma del solco intergluteo. Ma è davvero quello? Ciò che manca davvero nel racconto è il movimento di follia che ha portato Lucio a diventare il “matto” che si suiciderà. Forse ci sarebbe stato bisogno di un intervento del padre più incisivo, o di costruire la scena del buco della serratura in modo più crudele nei confronti del ragazzino.
Un’altra cosa che non mi ha fatto impazzire è stata la reazione della mamma al figlio in lacrime. Troppo leggera: Lucio piange… Oh, va bene, vado a fare le lasagne. Era il momento migliore per instillare un po’ di contrasto tra i genitori davanti a Lucio stesso, e questo è un motivo che l’avrebbe portato a essere traumatizzato.
Ma alla fine queste sono elucubrazioni che mi faccio io, non vuol dire che siano esatte.
Stilisticamente, il racconto è coerente, sempre legato al punto di vista. Sei riuscita a ricreare il delirio lucido in cui navigano i pensieri di Lucio e questo è un punto a tuo favore. D’altro canto, attenta agli usi degli avverbi: evita cose tipo “Quasi completamente addobbata” che non dà nessuna indicazione sullo stato degli addobbi e anzi è al limite dell’ossimoro descrittivo (quasi, che indica qualcosa di incompleto, e completamente, che ne è l’esatto opposto).

Venendo al “verdetto”:
Ho letto i racconti con piacere e li ho anche riletti perché meritavano una seconda occhiata. Va da sé che il commento che ho scritto sopra è sbilanciato, visto che ho preferito concentrarmi sugli elementi che per me sono di debolezza e questo fa sembrare che io abbia odiato con tutte le mie forze i vostri scritti. Non fraintendetemi: in questa fase, in questo luogo, le uniche cose che ci fanno crescere sono le critiche circostanziate e argomentate.
Lo ripeto: i racconti sono stati un piacevole ritaglio di tempo ed è una cosa rarissima da un po’ di tempo a questa parte. Spero che con tutte le parole che ho scritto finora, i prossimi siano ancora migliori.
Per arrivare alla classifica, per me passa il racconto di Elisa (L’attesa), più che altro perché mostra un maggiore accortezza stilistica e per il pregio di essere entrata nella testa di un uomo disturbato.
Grazie a tutti e due per il tempo speso per partecipare alla sfida. Ma non è ancora finita!
Ora viene la parte migliore: la finale!

Ciao Eugene Fitzherbert! Ti ringrazio tantissimo di avermi letto, delle critiche costruttive e dei preziosissimi consigli.
Non sono d'accordo sul discorso dello show don't tell. A mio parere è sulla bocca di troppi e ne viene fatto un uso smodato. Lo scrivo da lettore accanito e non è assolutamente una polemica sulla tua, lo ripeto, preziosissima critica. So perfettamente di avere una scrittura acerba e so anche che il mio racconto ha un sacco di errori. Comunque non vedo l'ora che si apra la sezione delle chiacchiere e portare in dibattito questo show don't tell. :)

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Giovanni Attanasio
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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#7 » venerdì 20 gennaio 2023, 12:51

AjejeBrazorf83 ha scritto:Comunque non vedo l'ora che si apra la sezione delle chiacchiere e portare in dibattito questo show don't tell. :)


Quando succede fammi un colpo di telefono e scatemiamo il caos assieme, perché mi sa che l'intenzione è— in senso positivo— quella. :P
"Scrivo quello che voglio e come voglio. Fatevelo piacere."

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Re: Semifinale I Tagli

Messaggio#8 » sabato 21 gennaio 2023, 9:52

Giovanni Attanasio ha scritto:
AjejeBrazorf83 ha scritto:Comunque non vedo l'ora che si apra la sezione delle chiacchiere e portare in dibattito questo show don't tell. :)


Quando succede fammi un colpo di telefono e scatemiamo il caos assieme, perché mi sa che l'intenzione è— in senso positivo— quella. :P


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