Domenica Mattina di Alessandro La Fauci
Inviato: martedì 21 febbraio 2023, 1:16
Domenica Mattina di Alessandro La Fauci
Mi spalmo il dopobarba e mi schiaffeggio le guance. È domenica, finalmente.
Recupero la maglietta dei Ramones appoggiata sul coperchio del water e vado in salotto. Mia moglie è seduta sul divano con le gambe incrociate, in bikini, fissa la tv spenta.
La bacio sulla fronte, indosso la maglietta e raccolgo la chitarra classica sdraiata ai piedi del divano. Me la metto in spalla, soffio sul ciuffo di capelli che mi punge gli occhi ed esco di casa. Il pianerottolo odora di naftalina e piedi lerci, ma va tutto bene: è domenica.
Mi lascio il portone alle spalle e costeggio il palazzo. Sfilo lo Zippo dalla tasca dei jeans e mi accendo una sigaretta. Dalla finestra di Teresa arriva un buon profumo di salsa al pomodoro.
Che bella giornata. Le domeniche dovrebbero essere sempre così: calde e nuvolose, ideali per starsene sulla panchina di un parco a leggere, a suonare, o anche solo a grattarsi le palle per due minuti. Niente iPhone, nessun capo che urla, solo io e l’aria che mi gonfia i polmoni.
Mi addentro nel parco e mi fermo subito. Prendo posto sulla prima panchina, all’ombra della quercia, lontano dal chiosco e dalle altalene. Imbraccio la chitarra, mi piazzo la sigaretta in bocca e arpeggio gli accordi di Like A Rolling Stone.
Una biondina in salopette si ferma a guardarmi. Infila i pollici sotto le bretelle, all’altezza dei seni, e alza il mento verso di me. «Be’, canti o no?»
Mi sfilo la sigaretta dalla bocca. «Cosa?»
Alza le spalle. «Conosci Many of Horror dei Biffy Clyro?»
Aspiro una boccata e scuoto la testa.
Si siede accanto a me. «Come puoi non conoscerla?»
Le faccio spazio e suono dei cromatismi per scaldarmi. «So che i miei capelli dicono vent’anni, ma ne ho trentatré.»
Solleva le gambe sulla panchina e se le abbraccia. La manica della t-shirt gialla si ritrae mostrando parte di una rosa tatuata sul braccio. «Mmh, vediamo, non so come dirtelo…»
Inarco le sopracciglia. «Dirmi cosa?» Butto la sigaretta sul prato e la stritolo sotto la suola delle Converse.
«Ma che cazzo fai?» Scatta in piedi, raccoglie il mozzico e si allontana. Lo getta nel secchio vicino alle altalene e torna da me. «Voler morire giovani di cancro ai polmoni non autorizza a fottersene del pianeta. Perché te ne fotti del pianeta, Sam?»
Sam… «Tu mi conosci?!»
Torna a sedersi. «Certo che ti conosco, non mi sono mica fermata per le tue impercettibili doti artistiche.»
Faccio un respiro. «Che cosa vuoi? E sappi che non voglio morire giovane. Sono del partito Keith Richards, capisci?»
Arriccia il naso, con l’aria di una che deve cambiare un pannolino pieno di merda. «Quale partito?»
Distendo le gambe e alzo gli occhi al cielo. Dio, era una così bella giornata. «Ascolta, ogni domenica mattina io vengo qui e suono la chitarra. E sai perché lo faccio?»
Imita un sorriso. «Che ne so. Forse perché sei un fallito?»
«Sono che?!» Prendo un bel respiro. «Dimmi che cosa vuoi e vattene.»
«Ok, ok.» Si avvicina e mi posa la mano sull’avambraccio. «Sam…» Abbassa lo sguardo e scuote la testa. «Non so come dirtelo…»
Ritraggo il braccio. «Dillo e basta.»
«Sei mio padre.»
Mi scappa da ridere. «Vaffanculo.»
Non sta ridendo. Questa è tutta matta.
«Non è uno scherzo.» Mi posa ancora la mano sull’avambraccio. «Tu sei Sam Fortunato. Ti ho visto su Facebook.»
«E con questo?»
«Mia madre è Sara Rossi.»
«Il mondo è pieno di Sara e di Rossi.»
«Mia madre è bionda come me, e lo avete fatto nel bagno del Roxy. Avevate quindici anni. Tu indossavi una maglietta dei Beatles, lei—»
«Sara…» La guardo negli occhi per la prima volta. Sono azzurri, come quelli di… «Sara.»
Alza le spalle. «Esatto.»
Scatto in piedi, mollo la chitarra sulla panchina e mi passo le mani tra i capelli. «Oh, Dio. Dio!»
«Diana. Il mio nome è—»
«Diana… e hai sedici anni.»
Annuisce.
«E sei mia figlia.»
Annuisce ancora.
La prendo per mano e la tiro. «Vieni, saliamo in casa e parliamone.» La mollo. «Non mi stai prendendo per il culo, vero?»
Rotea gli occhi. «Credi che butterei la domenica mattina con uno come te?»
«Uno come me?» Lascio perdere e le faccio segno di seguirmi.
«E questa?» Recupera la chitarra e me la passa.
Lasciamo il parco, costeggiamo il palazzo e saliamo a casa. Mia moglie è ancora sul divano, non si è mossa. La bacio sulla fronte. «Tesoro, non ti arrabbiare, ma…»
Diana si guarda intorno. «Questa casa è un disastro: c’è roba ovunque.» E mi affianca. «Sono sua figlia.»
Mia moglie ci osserva in silenzio, strilla e scoppia a ridere. Perfetto, è impazzita. Si tira su e si asciuga le lacrime. «Scusatemi, va tutto bene. Ho strillato solo perché ho dovuto: è una terapia che scoperto di recente.» Osserva Diana da capo a piedi e mi guarda. «Sicuro che sia tua figlia? È molto bella… non ti somiglia affatto.»
Diana snuda i denti, con l’aria di una ragazza che deve dire al papà che gli ha rotto la macchina. «Non so come dirvelo.»
Inspiro tutta l’aria che posso. «Che cosa c’è ancora?»
«Be’… io sono davvero la figlia di Sara, ma stavo scherzando.» Alza le spalle. «Mi manda Gianni, il tuo capo. Sono solo la tua nuova assistente. Tu non sei mio padre.»
Mi spalmo il dopobarba e mi schiaffeggio le guance. È domenica, finalmente.
Recupero la maglietta dei Ramones appoggiata sul coperchio del water e vado in salotto. Mia moglie è seduta sul divano con le gambe incrociate, in bikini, fissa la tv spenta.
La bacio sulla fronte, indosso la maglietta e raccolgo la chitarra classica sdraiata ai piedi del divano. Me la metto in spalla, soffio sul ciuffo di capelli che mi punge gli occhi ed esco di casa. Il pianerottolo odora di naftalina e piedi lerci, ma va tutto bene: è domenica.
Mi lascio il portone alle spalle e costeggio il palazzo. Sfilo lo Zippo dalla tasca dei jeans e mi accendo una sigaretta. Dalla finestra di Teresa arriva un buon profumo di salsa al pomodoro.
Che bella giornata. Le domeniche dovrebbero essere sempre così: calde e nuvolose, ideali per starsene sulla panchina di un parco a leggere, a suonare, o anche solo a grattarsi le palle per due minuti. Niente iPhone, nessun capo che urla, solo io e l’aria che mi gonfia i polmoni.
Mi addentro nel parco e mi fermo subito. Prendo posto sulla prima panchina, all’ombra della quercia, lontano dal chiosco e dalle altalene. Imbraccio la chitarra, mi piazzo la sigaretta in bocca e arpeggio gli accordi di Like A Rolling Stone.
Una biondina in salopette si ferma a guardarmi. Infila i pollici sotto le bretelle, all’altezza dei seni, e alza il mento verso di me. «Be’, canti o no?»
Mi sfilo la sigaretta dalla bocca. «Cosa?»
Alza le spalle. «Conosci Many of Horror dei Biffy Clyro?»
Aspiro una boccata e scuoto la testa.
Si siede accanto a me. «Come puoi non conoscerla?»
Le faccio spazio e suono dei cromatismi per scaldarmi. «So che i miei capelli dicono vent’anni, ma ne ho trentatré.»
Solleva le gambe sulla panchina e se le abbraccia. La manica della t-shirt gialla si ritrae mostrando parte di una rosa tatuata sul braccio. «Mmh, vediamo, non so come dirtelo…»
Inarco le sopracciglia. «Dirmi cosa?» Butto la sigaretta sul prato e la stritolo sotto la suola delle Converse.
«Ma che cazzo fai?» Scatta in piedi, raccoglie il mozzico e si allontana. Lo getta nel secchio vicino alle altalene e torna da me. «Voler morire giovani di cancro ai polmoni non autorizza a fottersene del pianeta. Perché te ne fotti del pianeta, Sam?»
Sam… «Tu mi conosci?!»
Torna a sedersi. «Certo che ti conosco, non mi sono mica fermata per le tue impercettibili doti artistiche.»
Faccio un respiro. «Che cosa vuoi? E sappi che non voglio morire giovane. Sono del partito Keith Richards, capisci?»
Arriccia il naso, con l’aria di una che deve cambiare un pannolino pieno di merda. «Quale partito?»
Distendo le gambe e alzo gli occhi al cielo. Dio, era una così bella giornata. «Ascolta, ogni domenica mattina io vengo qui e suono la chitarra. E sai perché lo faccio?»
Imita un sorriso. «Che ne so. Forse perché sei un fallito?»
«Sono che?!» Prendo un bel respiro. «Dimmi che cosa vuoi e vattene.»
«Ok, ok.» Si avvicina e mi posa la mano sull’avambraccio. «Sam…» Abbassa lo sguardo e scuote la testa. «Non so come dirtelo…»
Ritraggo il braccio. «Dillo e basta.»
«Sei mio padre.»
Mi scappa da ridere. «Vaffanculo.»
Non sta ridendo. Questa è tutta matta.
«Non è uno scherzo.» Mi posa ancora la mano sull’avambraccio. «Tu sei Sam Fortunato. Ti ho visto su Facebook.»
«E con questo?»
«Mia madre è Sara Rossi.»
«Il mondo è pieno di Sara e di Rossi.»
«Mia madre è bionda come me, e lo avete fatto nel bagno del Roxy. Avevate quindici anni. Tu indossavi una maglietta dei Beatles, lei—»
«Sara…» La guardo negli occhi per la prima volta. Sono azzurri, come quelli di… «Sara.»
Alza le spalle. «Esatto.»
Scatto in piedi, mollo la chitarra sulla panchina e mi passo le mani tra i capelli. «Oh, Dio. Dio!»
«Diana. Il mio nome è—»
«Diana… e hai sedici anni.»
Annuisce.
«E sei mia figlia.»
Annuisce ancora.
La prendo per mano e la tiro. «Vieni, saliamo in casa e parliamone.» La mollo. «Non mi stai prendendo per il culo, vero?»
Rotea gli occhi. «Credi che butterei la domenica mattina con uno come te?»
«Uno come me?» Lascio perdere e le faccio segno di seguirmi.
«E questa?» Recupera la chitarra e me la passa.
Lasciamo il parco, costeggiamo il palazzo e saliamo a casa. Mia moglie è ancora sul divano, non si è mossa. La bacio sulla fronte. «Tesoro, non ti arrabbiare, ma…»
Diana si guarda intorno. «Questa casa è un disastro: c’è roba ovunque.» E mi affianca. «Sono sua figlia.»
Mia moglie ci osserva in silenzio, strilla e scoppia a ridere. Perfetto, è impazzita. Si tira su e si asciuga le lacrime. «Scusatemi, va tutto bene. Ho strillato solo perché ho dovuto: è una terapia che scoperto di recente.» Osserva Diana da capo a piedi e mi guarda. «Sicuro che sia tua figlia? È molto bella… non ti somiglia affatto.»
Diana snuda i denti, con l’aria di una ragazza che deve dire al papà che gli ha rotto la macchina. «Non so come dirvelo.»
Inspiro tutta l’aria che posso. «Che cosa c’è ancora?»
«Be’… io sono davvero la figlia di Sara, ma stavo scherzando.» Alza le spalle. «Mi manda Gianni, il tuo capo. Sono solo la tua nuova assistente. Tu non sei mio padre.»