Una normale giornata di primavera
Inviato: domenica 2 aprile 2023, 22:30
«Cercate di stare ferme, per favore. Non posso fare nulla se continuate a muovervi.»
La maledetta ape operaia dovrebbe stare immobile sotto la luce del microscopio, ma non ce la fa. Sembra un bambino sovra eccitato: muove le zampe, estroflette l’addome, come se dovesse indicare all’intero alveare dove trovare i fiori migliori. Non so più come fare. Neanche chiudere la finestra è servito. Pensavo che sarebbe bastato per lasciare fuori la primavera bolognese, piena di promesse di ricche fioriture.
Potremmo continuare domani. Ora abbiamo da fare. Molto da fare.
Le solite operaie industriose. Non le sopporto più.
«E va bene, allora basta per oggi. Siete libere.»
Con un ronzio gioioso, l’ape si divincola, mi vola attorno alla testa, poi si posa sul mio naso per qualche secondo. È il suo modo per salutarmi, come il bacio sulla guancia di un’amica che si allontana.
Arrivederci, e scusaci, ma lo sai che in questa stagione siamo impegnatissime.
«Non vi preoccupate, salutate tutte.»
Mi alzo dallo sgabello, la schiena che scricchiola. Non sono più in forma come una volta: quando ero bambino potevo stare ore sdraiato per terra a parlare con le formiche. Una compagnia più interessante: grandi lavoratrici, ma che sanno anche divertirsi.
Le api domestiche invece mi hanno sempre irritato. Sono troppo ossessionate dal lavoro, formali. Guai a dargli del tu, si offendono a morte. Per loro l’individuo non conta, si identificano sempre e solo in gruppo. Un Voi obbligatorio.
Con la solita cura, metto la copertura sull’antico microscopio ottico, un vero cimelio del Dipartimento di Entomologia, sono l’unico che lo usa. I modelli moderni funzionano mille volte meglio, ma le api si lamentano, li trovano troppo freddi, dicono che la loro luce al led da un fastidio terribile.
Mi sposto al computer per lavorare sulla tesi. Scosso la testa, sconsolato. Devo proprio cambiare il titolo: “L’uso delle api come indicatore per l’individuazione dei Polari”. La parte sperimentale è quasi conclusa, ho accumulato un sacco di dati lavorando con tre alveari diversi. La scoperta che mi varrebbe la pubblicazione su “Nature” è dimostrare che gli insetti possono individuare una persona con i poteri. Il vero problema è evitare di rivelare le mie capacità personali, senza scrivere che sono le api stesse a segnalarmelo. Già lo stipendio da tesista frequentatore è una miseria, se dovessero anche tassarmi per il mio potere sarebbe davvero finita.
Era meglio stare a letto. Alla fine è stato un sabato inconcludente passato al lavoro, di questo passo non riuscirò mai a laurearmi.
Per oggi basta, è ora di pranzo e ho fame. Decido di andare a fare una passeggiata in Centro.
A volte mi sembra di assomigliare troppo ad api e formiche: sono quasi sempre solo, parlo con pochissime persone, sto bene in mezzo alla natura. Quando esco, mi fermo a godermi i profumi della bella stagione. Le giovani foglie degli alberi sono appena spuntate, i fiori di inizio primavera spandono le loro fragranze, ascolto gli uccellini cantare felici.
In realtà è un inganno: i pennuti lo fanno apposta per mostrarsi indifferenti, lo so dalle mosche che ronzano qui attorno. Li dileggiano, prendendoli in giro, sfuggendo spericolate ai loro attacchi come corridori in pista. Fra tutti, i ditteri sono gli esseri più bastardi che abbia mai conosciuto.
Attraverso la zona universitaria. Gli studenti riempiono i portici in piccoli gruppi, ridendo fra loro o bevendo qualcosa nei bar.
Dopo una lenta passeggiata dove ho scambiato qualche saluto solo con un paio di scarafaggi, arrivo alla Piazzola, il mercato del sabato. Da quando vivo a Bologna ho sempre adorato passarci in mezzo, ascoltare le chiacchiere della gente senza essere obbligato a parlarci: perdermi nella folla mi fa sentire meno solo.
Spesso ci ho conosciuto insetti interessanti, provenienti da diverse parti d’Italia. Arrivano con i camioncini delle bancarelle e hanno solo voglia di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno che abbia voglia di ascoltarli.
In breve arrivo alla bottega di Ahmed, uno dei migliori kebab turchi di Bologna. Mi metto in fila e attendo il mio turno con pazienza, sbirciando le notizie sul cellulare.
«Buongiorno. Ehm, buongiorno, Prof. Come va?»
Una ragazza minuta ha attirato la mia attenzione: è in fila, ha un viso comune, non bella ma interessante. Porta pantaloni larghi e felpa enorme, mi scruta con un’espressione incerta da sotto un cappuccio scuro.
«Ci conosciamo?» Preso alla sprovvista non so cosa dire, e ora mi sento un completo idiota. Poi mi stupisco che la gente non vuole parlare con me.
«Certo. Sono una delle sue studentesse. Entomologia forestale, del terzo anno. Ho seguito tutte le sue esercitazioni, le ho trovate super interessanti.» Ha un tono più deciso, ora, quasi entusiasta. Lo trovo fuori luogo, ho sempre pensato che quelle lezioni fossero pallose da morire.
«Ah, bene. Ma io non sono un Professore, solo un semplice tesista. Puoi darmi del tu, se vuoi. Giampiero, piacere.» Ci diamo la mano, la sua è piccola, stringe forte. Mi accorgo solo in quel momento che porta dei guanti neri.
«Io sono Rosa. Mi dispiace che ora le lezioni siano finite, avrei continuato volentieri a seguire…»
Continua a parlare, ma vengo distratto. All’improvviso sento il pesante battito d’ali di una cimice. La vedo, si è aggrappata alla mia giacca. Non ascolto più la ragazza: percepisco che l’umore dell’insetto è pessimo. Anzi no, allarmato.
Le cimici sono insetti rudimentali: non sono in grado di parlarmi in modo articolato come gli imenotteri, piuttosto lanciano concetti semplici e diretti che percepisco come singole parole.
Pericolo. Strada. Di là.
Rimango immobile, sorpreso. È la prima volta che un piccolo amico mi lancia un segnale d’allarme così intenso. Mi si arrampica sul collo, come se volesse spingermi via, o forse farsi sentire meglio.
Rosso di testa. Potere. Guarda te. Pericolo. PERICOLO.
È riuscita davvero ad agitarmi. Guardandomi attorno, vedo un ragazzo con i capelli rossi fermo sul marciapiede opposto. Non è molto alto, avrà vent’anni e sembra in attesa, come se aspettasse l’autobus. Ma non c’è nessuna fermata. E sono sicuro che mi abbia fissato per un attimo di troppo.
La ragazza è ammutolita. Il suo sguardo incredulo fissa la cimice che continua a passeggiarmi addosso.
«Scusami. Devo andare, è urgente.» Lo dico mentre esco dalla fila e mi avvio lungo la strada, senza più degnarla di uno sguardo.
Non so bene cosa fare. Mi volto cercando di mostrarmi indifferente. Intravedo lo stesso ragazzo: non è più sul marciapiede, si è mosso. Mi sta seguendo, ne sono certo.
Salendo verso il centro si aprono i vicoli che portano al Ghetto Ebraico: decido di spostarmi in quella direzione, posti dove è facile perdersi fra mille stradine tutte uguali. Il posto ideale per sparire, tornare a casa, al sicuro.
Prendo svolte a caso, in zone poco frequentate, correndo per non farmi raggiungere. Sono abbastanza sicuro di averlo seminato, il respiro torna tranquillo. Mi sono comportato da stupido. Quella Rosa era anche carina, ora ricordo che l’avevo notata fra gli studenti. Potevo stare lì a parlare, invece sono scappato come un coglione. Allarmato da una cimice, fa quasi ridere.
Arrivo in una piccola piazza, vicino alle due Torri, quando incontro un ragazzo. È moro, alto, da un punto di vista fisico niente a che vedere con il rosso di prima. Eppure ha qualcosa che non riesco a identificare, forse gli occhi, il modo in cui mi fissa. Me lo ricorda.
Faccio per passargli a fianco, la testa bassa. Ma si piazza in mezzo al portico, mi blocca il passaggio.
«Giampiero Cumani. Fermati, ti dobbiamo parlare.»
Lo fisso con lo sguardo sbarrato. Mi è sconosciuto, ma sa il mio nome. Nella confusione generale, penso che abbia sbagliato, ha parlato al plurale ma è da solo. Proprio come un’ape.
«Si, dobbiamo parlarti. Smettila di scappare, non ce n’è bisogno. Non vogliamo farti del male.»
Una voce dietro di me. Assurdo, ma sembra identica a quella del tipo che mi ha bloccato. Mi giro: dietro di me è spuntato il rosso, quello che mi fissava al kebab.
Faccio due passi di lato, così li posso vedere entrambi. Sono fermi, ma li percepisco minacciosi, come se potessero scattare e afferrarmi in ogni momento. Uno piccolo, l’altro alto. Diversi come il giorno e la notte. Si guardano attorno, lanciandosi un cenno d’intesa.
Il viso di quello alto a un certo punto cambia, sembra uno di quei video dove il volto di una persona diventa quello di un’altra. Si scioglie su sé stesso, i capelli neri diventano rossi, i vestiti si modificano. Si abbassa, allarga, dilata. In pochi secondi ho di fronte due copie del rosso.
Mi torna in mente qualcosa alla televisione, una puntata di “Chi l’ha visto”: diversi Polari sono spariti nel nulla, un fenomeno in crescita. Una teoria complottista dice che siano i Mutaforma, dei tipi subdoli, pericolosi, di cui non ci si può fidare. Ne hanno fatto vedere uno che si è trasformato proprio così, faceva impressione.
«Sappiamo chi sei, Giampiero. E anche quello che sai fare,» dice quello dietro di me «ci interessa tantissimo. La tua capacità di comunicare con gli insetti è rara» continua quello davanti «strategica, addirittura, la prima volta che troviamo un Polare che lo sappia fare» ancora quello dietro «devi venire con noi, potrai lasciare perdere l’Università e guadagnare un sacco di soldi.»
Sono nella confusione più totale. Solo i miei genitori sanno del mio potere. Fra l’altro è qualcosa di minore, inutile. Parlare con gli insetti. Chi potrebbe mai volermi dare dei soldi per quello? Non posso fare altro che fissarli, incerto.
«Soldi? Ma come fate a sapere? Chi ve l’ha detto? Nessuno…» La mia voce si spegne in un sussurro.
«Certo, soldi. Sappiamo che non hai un lavoro fisso e che stai studiando da più di dieci anni. È da tanto che ti seguiamo.»
«Se vieni con noi ti daremo ventimila euro subito, poi parlerai col nostro capo per il resto. Ti assicuriamo che non te ne pentirai.»
«Noi lavoriamo all’Istituto da tre anni, ormai. E siamo super contenti, non torneremmo mai indietro.»
Hanno parlato a turno, come prima. Uno inizia la frase e l’altro la continua.
«Istituto? Non vorrete dire l’INP vero?» L’Istituto Nazionale Polari, il mio sogno da quando sono ragazzo. Andare a Roma, lavorare fra altri che hanno le mie stesse capacità. Imparare, essere di aiuto alla collettività cercando di mettere a frutto il mio potere.
Ma c’è qualcosa che non torna: i concorsi per entrare all’Istituto sono difficilissimi, con migliaia di richiedenti per pochi posti.
«All’Istituto si entra solo per concorso. Come è possibile…»
Si guardano ancora, uno di loro mi sorride.
«Beh, diciamo che il dipartimento a cui apparteniamo è un po’, ecco, informale.»
«Anche a noi è stato offerto dai nostri colleghi, proprio come a te ora.»
«Prima facevamo i rider: portavamo le pizze a casa della gente, un lavoro orribile, l’unico che avevamo trovato.»
«Ora invece viviamo in una bella casa a Roma Nord dove organizziamo un sacco di feste. Viaggiamo in tutto il mondo, a cercare gente come te.»
«Già, proprio così. Anche noi non ci credevamo, ma abbiamo accettato subito.»
Roma. Una casa. Un lavoro vero, forse avventuroso, dove potrei affinare il mio potere.
Gioia mi torna subito in mente: ci siamo conosciuti in biblioteca. Studiava scienze politiche, allora. Napoletana, piccola e formosa, una forza della natura. Mi ha fatto perdere la testa. Poi ha finito l’Università e se n’è andata. Sui suoi social ho visto che ha una casa a Trastevere, con un gatto, senza fidanzato. Andare a Roma potrebbe voler dire rivederla, far nascere qualcosa di bello.
All’improvviso questi due non mi fanno più tanta paura, anche se la trasformazione mi ha inquietato. Sembrano quasi simpatici, ma meglio andarci cauti.
«Ma come funziona? Diciamo che la cosa forse potrebbe interessarmi, ma non voglio trucchi.»
«Ah bene,» sorridono insieme «ne eravamo sicuri. Devi solo seguirci, poi ti spiegheremo meglio.»
Ci muoviamo, mi tengono in mezzo a loro facendomi sentire un po’ in trappola. In fin dei conti la prima impressione potrebbe essere sbagliata e la loro offerta mi incuriosisce davvero.
Camminiamo a lungo, ma non mi parlano più, sembrano concentrati. È strano come le vie della città siano diventate estranee, piene di ombre nonostante la bella giornata.
In una strada che non riconosco si fermano davanti a un’auto come tante, mi fanno cenno di salire.
All'improvviso sento qualcuno che si avvicina, mi strattona.
«Corri!» Una voce di donna.
«È la stronza dell’altro giorno, quella che è scappata.» Urla uno dei due.
La ragazza mi ha preso per un braccio, mi tira via. Felpa oversize, il cappuccio caduto che rivela capelli neri, lisci. Rosa.
Corro, sempre più confuso.
«Non devono prenderti, sono pericolosi!» L’unica cosa che riesce a urlarmi mentre scappiamo.
Sbuchiamo da una stradina secondaria, corre verso la fermata di un autobus che ci passa davanti. Con le gambe che mi bruciano, saliamo all’ultimo momento, prima che chiuda le porte.
I due rossi arrivano troppo tardi. Rosa gli alza un dito attraverso il finestrino.
Ci guardiamo, ansimando.
«Che diavolo sta succedendo?» Le dico appena riprendo fiato.
«Sono dei maledetti cacciatori di Polari. Ci hanno provato anche con me, ma li ho fottuti, sia allora che adesso.» Controlla, come se avesse paura che ci stessero seguendo.
Mi guardo attorno, sull’autobus c’è poca gente, si fanno i fatti loro.
«Ma allora anche tu? Come fai a saperlo?» Il segreto di una vita, mantenuto al prezzo di silenzi e privazioni. Demolito in una giornata come tante: tre sconosciuti sanno che ho i poteri.
«Lo avevo intuito a lezione, poi ho avuto la conferma da quella cimice: ti camminava addosso senza che la mandassi via. Parli con gli insetti vero? Io posso fare qualcosa di simile con le piante: quando le tocco, le sento. Ma lo odio, cerco di evitarlo il più possibile. Mi da solo problemi.»
Si guarda le mani, ancora coperte dai guanti neri, che ora acquistano tutto un altro senso.
«Quei due, cosa ti hanno detto? Mi hanno offerto ventimila euro per andare al lavorare con loro all’INP.»
«Anche a me, ma ho rifiutato. Mi hanno raccontato una storia che sembrava quasi vera, soldi, viaggi. Io non voglio usare il mio maledetto potere, è inutile e dannoso. Non sai quanti alberi disperati ho incontrato nella mia vita: soprattutto quelli di città, potati, maltrattati. Ho avuto crisi di depressione pesantissime.»
Le sue parole mi fanno riflettere. Mutaforma a caccia di Polari, come noi due. Come fanno a individuarci? Penso alle api che studio, alla cimice che mi ha dato l’allarme. Faccio due più due. Ecco a cosa gli servo.
«Hanno bisogno di qualcuno in grado di identificare i Polari. Alcuni fra gli insetti con cui parlo me li segnalano di continuo, da sempre. La mia tesi è proprio su questo.» Realizzo che se le loro intenzioni non fossero buone, sarebbe un disastro per quelli come noi.
«Certo, non devono prenderci. Aspetta, scendiamo qui. Meglio allontanarci a piedi, sul bus possono seguirci.»
Ancora frastornato dalla fuga e dalle rivelazioni di Rosa, non posso fare altro che seguirla. Non vedo la loro auto, e neanche loro, forse ce l’abbiamo fatta. Ci troviamo sui viali, vicino all’entrata dei Giardini Margherita. Si guarda attorno, poi entra nel parco.
«Qui dovremmo essere al sicuro, vieni.»
Entriamo e ci troviamo in un posto pieno di famiglie e persone che passeggiano con i cani, godendosi il sole del primo pomeriggio. Mi sento rassicurato, sembra tutto normale e c’è molta gente in giro.
«Non possiamo tornare a casa, o all’Università. Sapranno di sicuro dove trovarci. Sapevano tutto di me.»
«Sì, hanno detto che mi seguivano da anni. Ma come possiamo fare? Se scappiamo forse continueranno a cercarci.»
«Non possiamo neanche denunciarli alla polizia, se lavorano all’INP saranno di sicuro d’accordo con loro.»
La prospettiva è angosciante: non avere un posto sicuro dove tornare, nessuno che possa tutelarci. In fondo l’INP rappresenta lo Stato italiano. Mi perdo a parlare con lei, siamo tutti e due impauriti dalla situazione, forse saremo costretti ad abbandonare il mondo che conosciamo. Cerchiamo di trovare una soluzione sensata, fra mille congetture.
È tutto assurdo e spaventoso, ma in fondo mi sto godendo la passeggiata. La trovo interessante, decisa. All’improvviso mi rendo conto che sto avendo la conversazione più lunga degli ultimi tempi. Con una persona, intendo.
Persi nelle nostre chiacchiere, non notiamo i due adolescenti sconosciuti che ci vengono incontro. Solo quando ci sorpassano, mi rendo conto dell’errore.
Uno di loro afferra Rosa da dietro e le mette qualcosa sul viso. Si accascia in un istante fra le sue braccia.
L’altro cerca di fare altrettanto con me, ma riesco a divincolarmi, colpendolo con un calcio. Scappo ancora, preso dal panico. Devono essere loro.
Mi infilo in un vialetto, quando passo vicino a un cespuglio in fiore. Percepisco una presenza familiare. Api che bottinano, indaffarate a raccogliere nettare e polline. Mi viene un’idea.
«Aiutatemi, per favore. Mi stanno inseguendo, vogliono farmi del male. Fermateli!»
Il messaggio allarmato colpisce nel segno: sento che una decina di loro mi sente, si solleva in volo, nota il ragazzo che mi insegue.
Ma poi si rimettono a lavorare, tornano alle loro faccende. Solo un paio di loro si degnano di rispondermi.
Scusaci, ma non abbiamo proprio tempo. Guarda quanto nettare buono, succoso. La nostra Regina sarà contentissima.
Maledette Stacanoviste.
A che diavolo serve avere un potere, se poi chi può salvarti fa quello che gli pare? Ai supereroi degli albi che leggevo da piccolo non succedeva mai qualcosa del genere.
Sento il rumore dei passi in corsa farsi più vicino.
Cerco di espandere le mie percezioni, di trovare un altro aiuto, quando li sento.
Un nido di calabroni in un albero cavo, più avanti.
I calabroni sono attaccabrighe tremendi, aggressivi e antipatici, sempre pronti a menare il pungiglione con chi li disturba. Li ho sempre evitati, ma ora non vedo altre soluzioni.
Lancio anche a loro il mio messaggio di aiuto, senza avere risposta.
Poi qualcosa mi fa inciampare e cado sul vialetto di ghiaia. È il mio inseguitore, che mi afferra, mi schiaccia al suolo, cerca di mettermi un panno bagnato sotto al naso e sento che tutto comincia a sparire, come se mi stessi addormentando. Lotto come posso.
Sento avvicinarsi un ronzio pesante, cattivo. In un istante sono libero: si è alzato, lo vedo agitare le braccia per scacciare qualcosa che non riesco a vedere. Grida, mentre un grosso calabrone appare sulla sua guancia destra.
Altri lo stanno pungendo, perché cerca di difendersi come può, schiaffeggiandosi il corpo.
Ormai si è dimenticato di me. Riesco ad alzarmi a fatica, poi lo stordimento passa in fretta. Torno indietro.
«Seguitemi, per favore, ce n’è un altro. Un’amica è in pericolo.»
Non rispondono, ma li sento attorno a me. Cammino con calma, questa volta, accompagnato da quel ronzio potente che mi fa sentire forte, invulnerabile.
Cerco l’altro, e Rosa. Li trovo a poca distanza dal punto dove l’hanno presa, seduti su una panchina. Lui in attesa, la sorveglia mentre dorme, sembra la sua fidanzata.
Mi vede arrivare, intuisce che qualcosa non va. I calabroni cominciano a ronzargli attorno, senza pungerlo. È sufficiente, si alza impaurito mentre le sue sembianze cambiano. Si trasforma di nuovo, compaiono i capelli rossi, il suo vero volto. I lineamenti si fondono in modo disordinato, come se avesse perso il controllo. Scappa, inseguito.
Esausto, mi siedo sulla panchina accanto a Rosa. Non so come, ma sono certo che quei due non torneranno più, almeno per oggi.
Mi guardo attorno godendomi questo attimo di pace. Il sole, i bambini che giocano nel prato, le famiglie spensierate. Chissà quanti fra loro avranno poteri come noi. Quanti riceveranno la visita di qualcuno come quei due e saranno terrorizzati a morte. Sento che devo fare qualcosa.
Guardo Rosa di fianco a me.
Quando si sveglierà, decideremo insieme le prossime mosse.
In un attimo, non mi sento più solo.
La maledetta ape operaia dovrebbe stare immobile sotto la luce del microscopio, ma non ce la fa. Sembra un bambino sovra eccitato: muove le zampe, estroflette l’addome, come se dovesse indicare all’intero alveare dove trovare i fiori migliori. Non so più come fare. Neanche chiudere la finestra è servito. Pensavo che sarebbe bastato per lasciare fuori la primavera bolognese, piena di promesse di ricche fioriture.
Potremmo continuare domani. Ora abbiamo da fare. Molto da fare.
Le solite operaie industriose. Non le sopporto più.
«E va bene, allora basta per oggi. Siete libere.»
Con un ronzio gioioso, l’ape si divincola, mi vola attorno alla testa, poi si posa sul mio naso per qualche secondo. È il suo modo per salutarmi, come il bacio sulla guancia di un’amica che si allontana.
Arrivederci, e scusaci, ma lo sai che in questa stagione siamo impegnatissime.
«Non vi preoccupate, salutate tutte.»
Mi alzo dallo sgabello, la schiena che scricchiola. Non sono più in forma come una volta: quando ero bambino potevo stare ore sdraiato per terra a parlare con le formiche. Una compagnia più interessante: grandi lavoratrici, ma che sanno anche divertirsi.
Le api domestiche invece mi hanno sempre irritato. Sono troppo ossessionate dal lavoro, formali. Guai a dargli del tu, si offendono a morte. Per loro l’individuo non conta, si identificano sempre e solo in gruppo. Un Voi obbligatorio.
Con la solita cura, metto la copertura sull’antico microscopio ottico, un vero cimelio del Dipartimento di Entomologia, sono l’unico che lo usa. I modelli moderni funzionano mille volte meglio, ma le api si lamentano, li trovano troppo freddi, dicono che la loro luce al led da un fastidio terribile.
Mi sposto al computer per lavorare sulla tesi. Scosso la testa, sconsolato. Devo proprio cambiare il titolo: “L’uso delle api come indicatore per l’individuazione dei Polari”. La parte sperimentale è quasi conclusa, ho accumulato un sacco di dati lavorando con tre alveari diversi. La scoperta che mi varrebbe la pubblicazione su “Nature” è dimostrare che gli insetti possono individuare una persona con i poteri. Il vero problema è evitare di rivelare le mie capacità personali, senza scrivere che sono le api stesse a segnalarmelo. Già lo stipendio da tesista frequentatore è una miseria, se dovessero anche tassarmi per il mio potere sarebbe davvero finita.
Era meglio stare a letto. Alla fine è stato un sabato inconcludente passato al lavoro, di questo passo non riuscirò mai a laurearmi.
Per oggi basta, è ora di pranzo e ho fame. Decido di andare a fare una passeggiata in Centro.
A volte mi sembra di assomigliare troppo ad api e formiche: sono quasi sempre solo, parlo con pochissime persone, sto bene in mezzo alla natura. Quando esco, mi fermo a godermi i profumi della bella stagione. Le giovani foglie degli alberi sono appena spuntate, i fiori di inizio primavera spandono le loro fragranze, ascolto gli uccellini cantare felici.
In realtà è un inganno: i pennuti lo fanno apposta per mostrarsi indifferenti, lo so dalle mosche che ronzano qui attorno. Li dileggiano, prendendoli in giro, sfuggendo spericolate ai loro attacchi come corridori in pista. Fra tutti, i ditteri sono gli esseri più bastardi che abbia mai conosciuto.
Attraverso la zona universitaria. Gli studenti riempiono i portici in piccoli gruppi, ridendo fra loro o bevendo qualcosa nei bar.
Dopo una lenta passeggiata dove ho scambiato qualche saluto solo con un paio di scarafaggi, arrivo alla Piazzola, il mercato del sabato. Da quando vivo a Bologna ho sempre adorato passarci in mezzo, ascoltare le chiacchiere della gente senza essere obbligato a parlarci: perdermi nella folla mi fa sentire meno solo.
Spesso ci ho conosciuto insetti interessanti, provenienti da diverse parti d’Italia. Arrivano con i camioncini delle bancarelle e hanno solo voglia di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno che abbia voglia di ascoltarli.
In breve arrivo alla bottega di Ahmed, uno dei migliori kebab turchi di Bologna. Mi metto in fila e attendo il mio turno con pazienza, sbirciando le notizie sul cellulare.
«Buongiorno. Ehm, buongiorno, Prof. Come va?»
Una ragazza minuta ha attirato la mia attenzione: è in fila, ha un viso comune, non bella ma interessante. Porta pantaloni larghi e felpa enorme, mi scruta con un’espressione incerta da sotto un cappuccio scuro.
«Ci conosciamo?» Preso alla sprovvista non so cosa dire, e ora mi sento un completo idiota. Poi mi stupisco che la gente non vuole parlare con me.
«Certo. Sono una delle sue studentesse. Entomologia forestale, del terzo anno. Ho seguito tutte le sue esercitazioni, le ho trovate super interessanti.» Ha un tono più deciso, ora, quasi entusiasta. Lo trovo fuori luogo, ho sempre pensato che quelle lezioni fossero pallose da morire.
«Ah, bene. Ma io non sono un Professore, solo un semplice tesista. Puoi darmi del tu, se vuoi. Giampiero, piacere.» Ci diamo la mano, la sua è piccola, stringe forte. Mi accorgo solo in quel momento che porta dei guanti neri.
«Io sono Rosa. Mi dispiace che ora le lezioni siano finite, avrei continuato volentieri a seguire…»
Continua a parlare, ma vengo distratto. All’improvviso sento il pesante battito d’ali di una cimice. La vedo, si è aggrappata alla mia giacca. Non ascolto più la ragazza: percepisco che l’umore dell’insetto è pessimo. Anzi no, allarmato.
Le cimici sono insetti rudimentali: non sono in grado di parlarmi in modo articolato come gli imenotteri, piuttosto lanciano concetti semplici e diretti che percepisco come singole parole.
Pericolo. Strada. Di là.
Rimango immobile, sorpreso. È la prima volta che un piccolo amico mi lancia un segnale d’allarme così intenso. Mi si arrampica sul collo, come se volesse spingermi via, o forse farsi sentire meglio.
Rosso di testa. Potere. Guarda te. Pericolo. PERICOLO.
È riuscita davvero ad agitarmi. Guardandomi attorno, vedo un ragazzo con i capelli rossi fermo sul marciapiede opposto. Non è molto alto, avrà vent’anni e sembra in attesa, come se aspettasse l’autobus. Ma non c’è nessuna fermata. E sono sicuro che mi abbia fissato per un attimo di troppo.
La ragazza è ammutolita. Il suo sguardo incredulo fissa la cimice che continua a passeggiarmi addosso.
«Scusami. Devo andare, è urgente.» Lo dico mentre esco dalla fila e mi avvio lungo la strada, senza più degnarla di uno sguardo.
Non so bene cosa fare. Mi volto cercando di mostrarmi indifferente. Intravedo lo stesso ragazzo: non è più sul marciapiede, si è mosso. Mi sta seguendo, ne sono certo.
Salendo verso il centro si aprono i vicoli che portano al Ghetto Ebraico: decido di spostarmi in quella direzione, posti dove è facile perdersi fra mille stradine tutte uguali. Il posto ideale per sparire, tornare a casa, al sicuro.
Prendo svolte a caso, in zone poco frequentate, correndo per non farmi raggiungere. Sono abbastanza sicuro di averlo seminato, il respiro torna tranquillo. Mi sono comportato da stupido. Quella Rosa era anche carina, ora ricordo che l’avevo notata fra gli studenti. Potevo stare lì a parlare, invece sono scappato come un coglione. Allarmato da una cimice, fa quasi ridere.
Arrivo in una piccola piazza, vicino alle due Torri, quando incontro un ragazzo. È moro, alto, da un punto di vista fisico niente a che vedere con il rosso di prima. Eppure ha qualcosa che non riesco a identificare, forse gli occhi, il modo in cui mi fissa. Me lo ricorda.
Faccio per passargli a fianco, la testa bassa. Ma si piazza in mezzo al portico, mi blocca il passaggio.
«Giampiero Cumani. Fermati, ti dobbiamo parlare.»
Lo fisso con lo sguardo sbarrato. Mi è sconosciuto, ma sa il mio nome. Nella confusione generale, penso che abbia sbagliato, ha parlato al plurale ma è da solo. Proprio come un’ape.
«Si, dobbiamo parlarti. Smettila di scappare, non ce n’è bisogno. Non vogliamo farti del male.»
Una voce dietro di me. Assurdo, ma sembra identica a quella del tipo che mi ha bloccato. Mi giro: dietro di me è spuntato il rosso, quello che mi fissava al kebab.
Faccio due passi di lato, così li posso vedere entrambi. Sono fermi, ma li percepisco minacciosi, come se potessero scattare e afferrarmi in ogni momento. Uno piccolo, l’altro alto. Diversi come il giorno e la notte. Si guardano attorno, lanciandosi un cenno d’intesa.
Il viso di quello alto a un certo punto cambia, sembra uno di quei video dove il volto di una persona diventa quello di un’altra. Si scioglie su sé stesso, i capelli neri diventano rossi, i vestiti si modificano. Si abbassa, allarga, dilata. In pochi secondi ho di fronte due copie del rosso.
Mi torna in mente qualcosa alla televisione, una puntata di “Chi l’ha visto”: diversi Polari sono spariti nel nulla, un fenomeno in crescita. Una teoria complottista dice che siano i Mutaforma, dei tipi subdoli, pericolosi, di cui non ci si può fidare. Ne hanno fatto vedere uno che si è trasformato proprio così, faceva impressione.
«Sappiamo chi sei, Giampiero. E anche quello che sai fare,» dice quello dietro di me «ci interessa tantissimo. La tua capacità di comunicare con gli insetti è rara» continua quello davanti «strategica, addirittura, la prima volta che troviamo un Polare che lo sappia fare» ancora quello dietro «devi venire con noi, potrai lasciare perdere l’Università e guadagnare un sacco di soldi.»
Sono nella confusione più totale. Solo i miei genitori sanno del mio potere. Fra l’altro è qualcosa di minore, inutile. Parlare con gli insetti. Chi potrebbe mai volermi dare dei soldi per quello? Non posso fare altro che fissarli, incerto.
«Soldi? Ma come fate a sapere? Chi ve l’ha detto? Nessuno…» La mia voce si spegne in un sussurro.
«Certo, soldi. Sappiamo che non hai un lavoro fisso e che stai studiando da più di dieci anni. È da tanto che ti seguiamo.»
«Se vieni con noi ti daremo ventimila euro subito, poi parlerai col nostro capo per il resto. Ti assicuriamo che non te ne pentirai.»
«Noi lavoriamo all’Istituto da tre anni, ormai. E siamo super contenti, non torneremmo mai indietro.»
Hanno parlato a turno, come prima. Uno inizia la frase e l’altro la continua.
«Istituto? Non vorrete dire l’INP vero?» L’Istituto Nazionale Polari, il mio sogno da quando sono ragazzo. Andare a Roma, lavorare fra altri che hanno le mie stesse capacità. Imparare, essere di aiuto alla collettività cercando di mettere a frutto il mio potere.
Ma c’è qualcosa che non torna: i concorsi per entrare all’Istituto sono difficilissimi, con migliaia di richiedenti per pochi posti.
«All’Istituto si entra solo per concorso. Come è possibile…»
Si guardano ancora, uno di loro mi sorride.
«Beh, diciamo che il dipartimento a cui apparteniamo è un po’, ecco, informale.»
«Anche a noi è stato offerto dai nostri colleghi, proprio come a te ora.»
«Prima facevamo i rider: portavamo le pizze a casa della gente, un lavoro orribile, l’unico che avevamo trovato.»
«Ora invece viviamo in una bella casa a Roma Nord dove organizziamo un sacco di feste. Viaggiamo in tutto il mondo, a cercare gente come te.»
«Già, proprio così. Anche noi non ci credevamo, ma abbiamo accettato subito.»
Roma. Una casa. Un lavoro vero, forse avventuroso, dove potrei affinare il mio potere.
Gioia mi torna subito in mente: ci siamo conosciuti in biblioteca. Studiava scienze politiche, allora. Napoletana, piccola e formosa, una forza della natura. Mi ha fatto perdere la testa. Poi ha finito l’Università e se n’è andata. Sui suoi social ho visto che ha una casa a Trastevere, con un gatto, senza fidanzato. Andare a Roma potrebbe voler dire rivederla, far nascere qualcosa di bello.
All’improvviso questi due non mi fanno più tanta paura, anche se la trasformazione mi ha inquietato. Sembrano quasi simpatici, ma meglio andarci cauti.
«Ma come funziona? Diciamo che la cosa forse potrebbe interessarmi, ma non voglio trucchi.»
«Ah bene,» sorridono insieme «ne eravamo sicuri. Devi solo seguirci, poi ti spiegheremo meglio.»
Ci muoviamo, mi tengono in mezzo a loro facendomi sentire un po’ in trappola. In fin dei conti la prima impressione potrebbe essere sbagliata e la loro offerta mi incuriosisce davvero.
Camminiamo a lungo, ma non mi parlano più, sembrano concentrati. È strano come le vie della città siano diventate estranee, piene di ombre nonostante la bella giornata.
In una strada che non riconosco si fermano davanti a un’auto come tante, mi fanno cenno di salire.
All'improvviso sento qualcuno che si avvicina, mi strattona.
«Corri!» Una voce di donna.
«È la stronza dell’altro giorno, quella che è scappata.» Urla uno dei due.
La ragazza mi ha preso per un braccio, mi tira via. Felpa oversize, il cappuccio caduto che rivela capelli neri, lisci. Rosa.
Corro, sempre più confuso.
«Non devono prenderti, sono pericolosi!» L’unica cosa che riesce a urlarmi mentre scappiamo.
Sbuchiamo da una stradina secondaria, corre verso la fermata di un autobus che ci passa davanti. Con le gambe che mi bruciano, saliamo all’ultimo momento, prima che chiuda le porte.
I due rossi arrivano troppo tardi. Rosa gli alza un dito attraverso il finestrino.
Ci guardiamo, ansimando.
«Che diavolo sta succedendo?» Le dico appena riprendo fiato.
«Sono dei maledetti cacciatori di Polari. Ci hanno provato anche con me, ma li ho fottuti, sia allora che adesso.» Controlla, come se avesse paura che ci stessero seguendo.
Mi guardo attorno, sull’autobus c’è poca gente, si fanno i fatti loro.
«Ma allora anche tu? Come fai a saperlo?» Il segreto di una vita, mantenuto al prezzo di silenzi e privazioni. Demolito in una giornata come tante: tre sconosciuti sanno che ho i poteri.
«Lo avevo intuito a lezione, poi ho avuto la conferma da quella cimice: ti camminava addosso senza che la mandassi via. Parli con gli insetti vero? Io posso fare qualcosa di simile con le piante: quando le tocco, le sento. Ma lo odio, cerco di evitarlo il più possibile. Mi da solo problemi.»
Si guarda le mani, ancora coperte dai guanti neri, che ora acquistano tutto un altro senso.
«Quei due, cosa ti hanno detto? Mi hanno offerto ventimila euro per andare al lavorare con loro all’INP.»
«Anche a me, ma ho rifiutato. Mi hanno raccontato una storia che sembrava quasi vera, soldi, viaggi. Io non voglio usare il mio maledetto potere, è inutile e dannoso. Non sai quanti alberi disperati ho incontrato nella mia vita: soprattutto quelli di città, potati, maltrattati. Ho avuto crisi di depressione pesantissime.»
Le sue parole mi fanno riflettere. Mutaforma a caccia di Polari, come noi due. Come fanno a individuarci? Penso alle api che studio, alla cimice che mi ha dato l’allarme. Faccio due più due. Ecco a cosa gli servo.
«Hanno bisogno di qualcuno in grado di identificare i Polari. Alcuni fra gli insetti con cui parlo me li segnalano di continuo, da sempre. La mia tesi è proprio su questo.» Realizzo che se le loro intenzioni non fossero buone, sarebbe un disastro per quelli come noi.
«Certo, non devono prenderci. Aspetta, scendiamo qui. Meglio allontanarci a piedi, sul bus possono seguirci.»
Ancora frastornato dalla fuga e dalle rivelazioni di Rosa, non posso fare altro che seguirla. Non vedo la loro auto, e neanche loro, forse ce l’abbiamo fatta. Ci troviamo sui viali, vicino all’entrata dei Giardini Margherita. Si guarda attorno, poi entra nel parco.
«Qui dovremmo essere al sicuro, vieni.»
Entriamo e ci troviamo in un posto pieno di famiglie e persone che passeggiano con i cani, godendosi il sole del primo pomeriggio. Mi sento rassicurato, sembra tutto normale e c’è molta gente in giro.
«Non possiamo tornare a casa, o all’Università. Sapranno di sicuro dove trovarci. Sapevano tutto di me.»
«Sì, hanno detto che mi seguivano da anni. Ma come possiamo fare? Se scappiamo forse continueranno a cercarci.»
«Non possiamo neanche denunciarli alla polizia, se lavorano all’INP saranno di sicuro d’accordo con loro.»
La prospettiva è angosciante: non avere un posto sicuro dove tornare, nessuno che possa tutelarci. In fondo l’INP rappresenta lo Stato italiano. Mi perdo a parlare con lei, siamo tutti e due impauriti dalla situazione, forse saremo costretti ad abbandonare il mondo che conosciamo. Cerchiamo di trovare una soluzione sensata, fra mille congetture.
È tutto assurdo e spaventoso, ma in fondo mi sto godendo la passeggiata. La trovo interessante, decisa. All’improvviso mi rendo conto che sto avendo la conversazione più lunga degli ultimi tempi. Con una persona, intendo.
Persi nelle nostre chiacchiere, non notiamo i due adolescenti sconosciuti che ci vengono incontro. Solo quando ci sorpassano, mi rendo conto dell’errore.
Uno di loro afferra Rosa da dietro e le mette qualcosa sul viso. Si accascia in un istante fra le sue braccia.
L’altro cerca di fare altrettanto con me, ma riesco a divincolarmi, colpendolo con un calcio. Scappo ancora, preso dal panico. Devono essere loro.
Mi infilo in un vialetto, quando passo vicino a un cespuglio in fiore. Percepisco una presenza familiare. Api che bottinano, indaffarate a raccogliere nettare e polline. Mi viene un’idea.
«Aiutatemi, per favore. Mi stanno inseguendo, vogliono farmi del male. Fermateli!»
Il messaggio allarmato colpisce nel segno: sento che una decina di loro mi sente, si solleva in volo, nota il ragazzo che mi insegue.
Ma poi si rimettono a lavorare, tornano alle loro faccende. Solo un paio di loro si degnano di rispondermi.
Scusaci, ma non abbiamo proprio tempo. Guarda quanto nettare buono, succoso. La nostra Regina sarà contentissima.
Maledette Stacanoviste.
A che diavolo serve avere un potere, se poi chi può salvarti fa quello che gli pare? Ai supereroi degli albi che leggevo da piccolo non succedeva mai qualcosa del genere.
Sento il rumore dei passi in corsa farsi più vicino.
Cerco di espandere le mie percezioni, di trovare un altro aiuto, quando li sento.
Un nido di calabroni in un albero cavo, più avanti.
I calabroni sono attaccabrighe tremendi, aggressivi e antipatici, sempre pronti a menare il pungiglione con chi li disturba. Li ho sempre evitati, ma ora non vedo altre soluzioni.
Lancio anche a loro il mio messaggio di aiuto, senza avere risposta.
Poi qualcosa mi fa inciampare e cado sul vialetto di ghiaia. È il mio inseguitore, che mi afferra, mi schiaccia al suolo, cerca di mettermi un panno bagnato sotto al naso e sento che tutto comincia a sparire, come se mi stessi addormentando. Lotto come posso.
Sento avvicinarsi un ronzio pesante, cattivo. In un istante sono libero: si è alzato, lo vedo agitare le braccia per scacciare qualcosa che non riesco a vedere. Grida, mentre un grosso calabrone appare sulla sua guancia destra.
Altri lo stanno pungendo, perché cerca di difendersi come può, schiaffeggiandosi il corpo.
Ormai si è dimenticato di me. Riesco ad alzarmi a fatica, poi lo stordimento passa in fretta. Torno indietro.
«Seguitemi, per favore, ce n’è un altro. Un’amica è in pericolo.»
Non rispondono, ma li sento attorno a me. Cammino con calma, questa volta, accompagnato da quel ronzio potente che mi fa sentire forte, invulnerabile.
Cerco l’altro, e Rosa. Li trovo a poca distanza dal punto dove l’hanno presa, seduti su una panchina. Lui in attesa, la sorveglia mentre dorme, sembra la sua fidanzata.
Mi vede arrivare, intuisce che qualcosa non va. I calabroni cominciano a ronzargli attorno, senza pungerlo. È sufficiente, si alza impaurito mentre le sue sembianze cambiano. Si trasforma di nuovo, compaiono i capelli rossi, il suo vero volto. I lineamenti si fondono in modo disordinato, come se avesse perso il controllo. Scappa, inseguito.
Esausto, mi siedo sulla panchina accanto a Rosa. Non so come, ma sono certo che quei due non torneranno più, almeno per oggi.
Mi guardo attorno godendomi questo attimo di pace. Il sole, i bambini che giocano nel prato, le famiglie spensierate. Chissà quanti fra loro avranno poteri come noi. Quanti riceveranno la visita di qualcuno come quei due e saranno terrorizzati a morte. Sento che devo fare qualcosa.
Guardo Rosa di fianco a me.
Quando si sveglierà, decideremo insieme le prossime mosse.
In un attimo, non mi sento più solo.