Semifinale Gambarini

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum. Questo GAME il racconto dev'essere ambientato in un preciso universo narrativo che verrà comunicato al momento del lancio.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Livio Gambarini e Marco Cardone leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Samuel Marolla assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Gambarini

Messaggio#1 » sabato 15 aprile 2023, 22:22

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Eccoci pronti per la seconda parte di La Sfida a Gli Inutili. Giudice di questo gruppo è Livio Gambarini!
Combattono in questa semifinale:

Burocrazia italiana & Tecnologia VS Una normale giornata di primavera

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: lunedì 17 alle 20.00
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, al giudice verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 20.00 del 17 aprile. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Michael Dag
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Re: Semifinale Gambarini

Messaggio#2 » lunedì 17 aprile 2023, 11:30

BUROCRAZIA ITALIANA & TECNOLOGIA SERBA
-Michael Dag Scattina-

Tutto il mondo vorticò a sinistra sparendo in una spirale di colori opachi.
Fabio cadde nel vuoto, annaspò, si dimenò, picchiò lo stinco contro qualcosa di duro.
Si fermò di colpo.
Una serie di sagome nebulose lo circondavano. C'era luce… una grande vetrata, forse? Il vortice riprese a girare.
Stramazzò a terra, un dolore sordo risalì dalla tibia lungo la schiena.
Che diavolo stava succedendo?
La testa girava, il caffè di poco prima lottava per riemergere dallo stomaco accartocciato.
Alzò la testa.
Era carponi sul pavimento della Sala Accertamenti Fiscali Polari Latenti.
I neon illuminavano lo stanzone quadrato e i tavoli ingombri di oggetti di prova.
I giudici di commissione lo fissavano da dietro la lastra di vetro infrangibile, impassibili nelle loro giacche da burocrati.
Un tizio mingherlino si aggiustò gli occhialetti squadrati sul naso sottile e portò la mano al microfono appuntato al colletto della camicia.
«Signor Fabretti, ci può spiegare?»
«Io… che cosa…» Fabio si guardò attorno. I dischi di ghisa erano ancora impilati in ordine. La torcia a olio non si era spenta e non era esplosa in un fragoroso incendio che avrebbe distrutto per sempre quel posto e tutte le merde che ci lavoravano. Il blocco di ghiaccio non si era sciolto, il mucchio di lamina di ferro non si era disposto in chissà quali forme assurde a causa di un campo magnetico anomalo.
Era tutto perfettamente in ordine.
«Non lo so, signori, non è successo nulla. Solo giramento di testa, tutto qui. È normale, giusto?» Sì, era normale. Doveva esserlo. Alzò gli occhi verso la cupola metallica che pendeva dal soffitto a mezzo metro dalla sua testa. Led verdi e rossi illuminavano la parte esterna. All'interno, un cono di ottone sembrava pronto a piombargli addosso da un momento all'altro. Forse quando i greci parlavano della spada di Damocle, intendevano proprio uno Stimolatore di Polarità Latente.
«Signor Fabretti, lei è scomparso per quasi due secondi.» Lo smilzo abbassò gli occhi sullo schermo. «Index Differenziale… Apocrofisi dei silicati isotopo 32.4Tris… R.B.B.4Z… »
Ma che stava dicendo? Fabio si alzò, mosse un piede fuori dalla base d'acciaio dello Stimolatore.
«Signor Fabretti! Torni nel perimetro di controllo!»
Subito ritirò la gamba. Rimase immobile. «Scusate, pensavo avessimo finito.»
«Ha fretta, signor Fabretti?» Una cariatide coperta di rughe avvolta in uno scialle a fiori lo fissò.
«No, no… fate pure.» Ci mancava solo di dare l'impressione di volersi sottrarre al controllo.
E se gli avessero trovato davvero qualche potere? Quegli avvoltoi si appellavano a qualsiasi cosa pur di non annullare le cartelle esattoriali. Probabilmente prendevano una percentuale su tutte le tasse extra che facevano pagare alla gente, perché la cattiveria gratuita di certe storie sul loro conto, non si spiegava altrimenti. Di gratuito, non c'era più niente da parecchio tempo.
Scomparso per quasi due secondi… in che senso? Cos'era successo? Lo Stimolatore aveva ronzato e poi quella strana sensazione…
L'altoparlante a muro ronzò.
«Fabretti Fabio, nato a La Spezia il 21/10/1989.» Leggeva freddamente da un tablet, col dito sul click-on del microfono. Un pessimo attore che legge un pessimo copione. «La sua domanda di annullamento della cartella esattoriale SP-78-94n5 è stata rigettata. All'analisi tramite Stimolatore di Polarità Latente…»
Ma come, rigettata? No, impossibile.
«Presid… comma3…presumendo…»
E adesso? Tasse, mora, multa e cazzi vari? Veramente? Il caffè non ne voleva sapere di stare al suo posto, si contorceva nelle budella mischiato con rabbia e odio.
Lo smilzo continuava il suo monologo in codicefiscalese.
Fabio chiuse gli occhi, respirò a fondo coi polmoni schiacciati dall'ansia. Sarebbe stato bello avere davvero dei poteri. Avrebbe potuto dargli fuoco, farlo volare in giro, trasformarlo in un rospo, fargli germogliare un cactus nel culo, un campionario di fantasie gli sfilò nella mente.
«…è stata accertata l'osservazione del Potere Polare di auto-evanescenza. In definitiva, la cartella esattoriale SP-78-94n5 rimane a carico del soggetto con la maggiorazione del 37% prevista nei casi del non trovato valido motivo d'annullamento. La seduta è tolta.»
«Ma come?!» Fabio uscì dal perimetro di acciaio, verso la vetrata. «Signori, scusate, ma questa cosa non ha senso. Io faccio il benzinaio, non ho nessun potere, l'avete visto anche voi. Che vuol dire che sono scomparso? Io ho solo avuto un giramento di testa.» Calmo, doveva stare calmo. «Non capisco… che potere sarebbe, scusate?»
«Per questo deve rivolgersi alla Commissione di Collocamento.»
«L'ho già fatto a sedici anni come di prassi, "nessun segno di potere polare percepito".»
«Ma lei non ha la documentazione.»
Dopo vent'anni? «Non la trovo più, ma negli archivi c'è sicuramente un riscontro.»
Silenzio.
Gli avvoltoi smanecchiavano pigri sui tablet o sistemavano le borse. La cariatide chiacchierava con un collega in un angolo.
«Signori…?»
Lo smilzo gli dava le spalle. «Sì, signor Fabretti?»
«Dico, non potete multarmi per non aver dichiarato un potere che voi stessi non avete rilevato all'epoca. E che non ho mai usato. Anche perché… che potere è? Cosa dovrei farci?»
Smilzo ancora gli dava le spalle. Chiuse la borsa e si avviò verso la porta. «Si rivolga alla Commissione Proroghe e alla Commissione di Collocamento. Buona giornata.»
Figli di bagassa. Ammazzatevi tutti.


Il vortice si fermò, Fabio si schiantò sul materasso, la gommapiuma lo avvolse. Sicuramente meglio che atterrare su un pavimento, ma belin che mal di testa.
Bogdan gli tese la mano callosa e lo aiutò ad alzarsi. «Allora, che ti dicevo? Ha funzionato, sei sparito.»
Fabio scese dal materasso e barcollò fino alla sedia vicino al banco da lavoro. Si sedette. La testa scoppiava e le budella sembravano strappate in più parti però, doveva ammetterlo, la macchina di Bogdan funzionava. O forse era quella della commissione che non funzionava, se gli aveva dato gli stessi effetti di quella di Bogdan.
«Dove sei stato?»
Boh? Dov'era stato? Cos'era quel posto? Sembrava una stanza, ampia e ben illuminata. C'erano dei tavoli forse, e degli schermi alle pareti. Un ufficio? «Per quanto tempo sono sparito?»
«Un paio di secondi».
Fabio osservò lo Stimolatore artigianale. Un vecchio frigorifero grigio dei primi del duemila ricoperto di placche metalliche, viti e fili di rame ossidati. Spessi cavi neri spuntavano un po' ovunque, serpeggiavano sul pavimento per raggrupparsi nella centralina elettrica. Era un aggeggio grezzo e raffazzonato, ma non stonava nell'officina abusiva di una famiglia di serbi. «Dove hai imparato a costruire questa roba?»
«In Serbia… niente tasse sui polari, lì. Anzi, l'esercito arruola tutti, paga bene. Prima scopri che hai poteri prima inizi ad allenarli. E prima vieni arruolato.»
«Devo trasferirmi in Serbia, allora.»
«No. Sei troppo vecchio, ormai.» Bogdan aprì un armadietto, un calendario di tette vecchio di sei anni ondeggiò, appeso all'anta. Tirò fuori due ScarsoBrau doppio malto, ne aprì una e passò l'altra.
«Grazie.» Fabio tirò la linguetta e prese un sorso. «Forse dovrei sputtanarmi gli ultimi soldi che mi rimangono prima di finire in galera. Dove li trovo, trentaduemila euro?»
«Solo perché hai perso un foglio?» Bogdan sbuffò. «Sei sempre stato distratto, ma la stai pagando troppo cara.»
«Se pago entro la settimana. Se no diventano sessantasei e reato penale.» Incrociò i polsi. «Che vuol dire che finisco a Villa Andreini.»
«Sicuro di non finire nel caveau di una banca, quando sparisci?»
«Dovrei scoprire almeno che posto è quello che vedo.» Era tutto sfuocato e vorticante, come una foto mossa. E se… «Idea!» Buttò giù mezza lattina di intruglio chimico al luppolo e tirò fuori il telefono dalla tasca. «Hai del nastro?»


Lo studio di un pittore. Lui, povero stronzo benzinaio part time, doveva pagare trentaduemila euro perché aveva la stupefacente capacità di comparire per due secondi scarsi nello studio di un pittore.
Svuotò la birra e la schiacciò sul banco, le chiavi da lavoro tintinnarono appese ai ganci.
Bogdan riguardava il video con faccia seria. Lo fermò sul frame che inquadrava la finestra. «Puoi ingrandire?»
Fabio picchiettò le dita sullo schermo, una grossa macchia scura spezzava la skyline di una città. L'immagine frizzò un istante, e si trasformò in una grossa cupola rosso mattone sormontata da un crocifisso.
«Lo riconosco.» Bogdan la indicò. «È il duomo di Firenze.»
Beh, almeno era un pittore ricco, se aveva un ufficio a Firenze vista duomo. Forse c'era qualche altro indizio. Tornò a inizio video ed esaminò il primo frame utile dopo il vortice.
Lavagne e tele erano appese alle pareti, in maniera molto ordinata. Linee precise partivano dagli angoli verso il centro, alcune disegnate, altre erano sottili corde appuntate con dei chiodi. Sembravano le bozze di qualche progetto geometrico o roba simile.
Il pavimento era ricoperto di assi di legno macchiate di vernice in più punti. L'intonaco ai muri era grezzo, e l'unica fonte di luce era la grossa finestra ad arco dall'aria antica.
In fondo alla stanza, un cavalletto di legno reggeva una tela, un abbozzo a tinte contrastanti ritraeva un tizio seminudo, pieno di riccioli, che indicava verso l'alto.
Un tavolo in primo piano occupava un angolo dell'inquadratura.
Era pieno di… pergamene? Boccette di vetro, piume d'oca, belinate in legno… ma vaffanculo, va. Buttò il telefono sul banco, vicino agli stracci sporchi di olio motore. «Un museo. Un belin di museo da quattro palanche per spennare i turisti.»
«Cosa vuoi dire?»
«Le città d'arte ne sono piene. Prendono un vecchio palazzo, scrivono sulle guide turistiche che ci ha vissuto qualcuno di famoso, allestiscono una bottega in stile antico ed ecco fatto. Orde di polli paganti.»
«Potresti accordarti coi padroni del museo. Ti travesti da fantasma di Giotto, e ogni tanto compari e spaventi la gente. Attirerebbe un sacco di pubblico.»
Fabio sorrise. «Non male come idea.»
Bogdan era pensieroso, tirò fuori il telefono dai cargo macchiati. Digitò qualcosa. «Però è strano. Io ho vissuto qualche tempo a Firenze. Guarda.» Si collegò a un drone di GoogleStreet, lo fece svolazzare in una piazzetta deserta e risalire lungo la facciata giallina di un palazzo. Con dei leggeri colpetti allo schermo, lo fece ruotare fino a mostrare il duomo con la stessa angolatura del video. «Vedi? Il profilo degli edifici è diverso. E anche la parte in cima alla cupola…»
Fabio recuperò il suo telefono e ingrandì il frame. Era vero, gli edifici erano tutti molto più bassi, differenti, alcuni non c'erano proprio. Erano in muratura grezza, con tetti di tegole e finestre in legno.
Però la cupola rossa era inconfondibile. Era Firenze, senza dubbio.
«Faccio un altro giro. E dammi anche il tuo telefono.»
«Tieni una mano libera, vedi se riesci ad arraffare qualcosa.»
Perché no? In galera ci sarebbe finito comunque.
Si nastrò i telefoni uno al palmo e uno al dorso della mano. Si mise sotto lo Stimolatore e avviò le registrazioni. «Vai!»
Bogdan attivò la centralina, la luce dell'officina traballò qualche istante.
Fabio trattenne il fiato. Il vortice lo strappò verso sinistra, vorticò, cadde. Ormai stava capendo le tempistiche… avrebbe dovuto fermarsi…
Ora!
Atterrò sul duro e rimase in equilibro. Alzò il braccio per inquadrare più spazio possibile.
Allungò l'altro verso dove avrebbe dovuto trovarsi il tavolo, sentì qualcosa sotto le dita. Le chiuse, e subito il vortice riprese la sua danza.
Un dolore pungente gli morse il polpaccio, scrollò la gamba, sprofondò nella gommapiuma.
La puzza di bruciato gli riempì il naso. Bogdan sbraitava in serbo.
Belin, che dolore. Il cervello sembrava colargli dalle orecchie, la pancia era un groviglio di filo spinato. Basta con quella roba, per quanto ne sapeva si stava friggendo di radiazioni. Magari si era già beccato una rastrelliera di cancri.
Aprì gli occhi abbagliati, in mano aveva un piccolo pezzo di carta ingiallita.
Una fumata scura saliva dal frigorifero.
Bogdan gli dava le spalle e brandiva una scopa imprecando. «Jebote radiš cazzo, hai rubato un cane, porca trojka!»
Cosa?
Un bastardino grigio e bianco dal pelo lungo puntava le zampe a terra scoprendo i denti in un debole ringhio.
Ottimo, si aggiungeva sequestro di animale alle imputazioni.
«Così lo spaventi. Metti giù la scopa e lascialo stare, si calmerà.» Smontò il Cyber-braccio, miracolo dell'ingegneria robotica serba. «Ci serve un computer.» Si alzò in piedi, la gamba faceva male. Alzò la caviglia dei pantaloni. Un'arcata dentale era stampata sul polpaccio, un rivolo di sangue macchiava il bordo del calzino. «E del disinfettante!»


Per essere un museo da quattro soldi, si erano impegnati. Era pergamena vera, con delle linee oblique precisissime che sembravano la bozza delle proporzioni di un disegno più grande. Non c'erano indizi sull'eventuale autore.
Lo appoggiò sulla scrivania e scaricò i video sul pc.
Scorse i frame del primo. Ingrandì lo scorcio sulla piazza fuori dalla vetrata. Un altare con un grosso crocifisso era circondato da quelli che sembravano rami di olivo.
Perché benedire rami di olivo? Mancava più di un mese a Pasqua, e la benedizione si dava il sabato prima della domenica delle palme, mica un mercoledì qualsiasi. C'era qualcosa di strano. Il drone a Firenze mostrava una piazza molto più piccola, con un kebabbaro e un negozio di ottica, null'altro.
Scorse altri frame. Quello in lontananza era il duomo, non c'erano dubbi, ma tutto il resto era diverso.
Bogdan si sporse verso lo schermo. «Guarda il cielo. Non piove»
Nelle riprese del drone era nuvoloso e stava iniziando a piovere. Nei suoi video il cielo era azzurro e limpido, tanto che si intravedeva la luna.
Luna piena. Eppure…
Fabio prese la tastiera, google, calendario lunare, data di oggi 21/03/2040.
Luna nuova, appena visibile.
No, era assurdo. Ma allora…
Bogdan aveva i ciglioni aggrottati. «Dove vai tu… non è oggi. È un altro giorno. Ecco perché lì non piove, ed è sabato.» Rise. «Cioè tu, per due secondi, torni indietro nel tempo, nella bottega di un pittore fiorentino?»
«Così pare.» Prese il disegno. «Quindi questo è un reperto originale del medioevo.» Gli ingranaggi del cervello iniziarono a lavorare. «All'Accademia d'arte e archeologia hanno sicuramente modo di datarlo, ci sarà qualche polare con poteri del genere. Riusciranno a dimostrare che è autentico. E magari sborseranno un po' di soldi.»
«Se sapessimo chi è l'autore sarebbe meglio.»
«Vero. Ma abbiamo l'indirizzo.» Aprì la schermata del drone, a Firenze la pioggia aveva iniziato a scurire i marciapiedi. «Avanti, bello, dove sei?»
Via Ferdinando Zannetti 8. Museo di Casa Martelli. Vediamo se qualche pittore medievale ha vissuto lì. Magari qualcuno di famoso.
Digitò sulla tastiera.
La mandibola gli cadde sulle ginocchia.


Le onde si infrangevano sugli scogli della passeggiata Morin, due tipe vestite da dive picchettavano i tacchi sull'elegante pavimentazione del lungomare. L'atmosfera da sabato mattina primaverile era piacevole, risvegliava tutta la città e la spiaggia dal torpore dell'inverno.
Fabio inforcò i nuovi Ray-Ban e buttò giù l'ultimo sorso di spritz, fresco e zuccherino. Il prosecco di marca gli lasciò un piacevole senso di inebriamento.
Certo, anche il bonifico da settantamila che sarebbe arrivato da lì a poco aiutava.
Un disegno originale di Leonardo da Vinci.
Era bastato parlare col direttore dell'Accademia per trovare un compratore, e promettergli qualche foto del vero studio di Leonardo per garantirsi il silenzio e l'anonimato.
Che botta di culo.
Il telefono squillò, la stella bianca e rossa del BelgradoBasket comparve sullo schermo.
«Sì?»
«Sono arrivati i pezzi. Sto smontando quel rottame che chiami macchina, vedrai che gioiello ti faccio!»
«Ottimo.» Si alzò e lasciò un deca al cameriere. «E in quanto al tuo, di rottame?»
«Brutta storia. È evaporato il freon, e da quando i frigoriferi funzionano a sputo di polari, è difficile da trovare. Ci vorrà qualche giorno.»
«Di ai tuoi contatti di mettersi una mano sul cuore, è per una buona causa. Dobbiamo riportare Leo a casa.» E magari, arraffare qualcos'altro. «Adesso vado a casa, ho la chiamata col compratore. A dopo!»
Attraversò il quartiere con l'ansia crescente, verso i palazzoni popolari.
Il Cavalier Gianpiersergio Attilio Radometti di Valdegriffa, sembrava proprio ciò che prometteva il nome, un vecchiaccio altezzoso che viveva in una realtà tutta sua di titoli inutili e soldi a palate. Aveva offerto cinquantamila, e quando Fabio aveva rilanciato a settanta, non aveva battuto ciglio. Solo, voleva vedere il certificato di autenticità tramite videochiamata olografica.
Arrivato a casa, si richiuse la porta alle spalle.
«Leo! Qui, bello!»
Gli rispose un latrato allegro. Dopo lo spavento iniziale, si era rivelato un mattacchione, e in tre giorni si era perfettamente ambientato. Si stava affezionando, ma non era giusto tenerselo. Il buon Leonardo i disegni poteva rifarli, il cane no.
«Dove sei?»
Entrò in camera.
L'orrore lo travolse.
I resti della collezione di CyberTexWiller era sparpagliata a terra. Leo saltellava felice, raspava col le zampe, faceva volare in alto brandelli di pagine, saltava e li afferrava al volo tra i denti. Sbatacchiò la testa, brandelli di carta e copertine volarono ovunque.
«'Orcabagassa!» Fabio scattò avanti, gli diede un ceffone sul muso sorridente.
Il cane saltò sul letto. Aveva l'aria di chi aveva appena passato il pomeriggio più divertente della sua vita. Al secondo ceffone guaì e corse via.
I Tex no, cazzo.
Fabio tirò su il N100, "La rivolta degli AI-pache".
Qualcosa di giallo cadde dalle pagine massacrate. Lo raccolse. Era un pezzo di cartoncino.
Ma guarda che coincidenza.
Era uguale alla cartellina in cui aveva messo il certificato dell'accademia.
Quella cartellina che aveva lasciato proprio lì, sulla scrivania.
Quella cartellina che ora era sparpagliata un po' ovunque.


Rispondi. Rispondi.
«Fabio! Sto̶ »
«Siamo nella merda! In cane ha distrutto i fogli!»
«Cosa?»
«Il cane! Il cane di Leonardo da Vinci ha fatto a pezzi tutta la documentazione!»
«Strana vendetta. Attraverso i secoli.»
«Smetti di fare il coglione e vieni subito qui. Devi portarmi all'Accademia, devo farmi dare un altro certificato. Subito!»
Chiuse la chiamata, cercò il numero dell'assistente del Cavalier Soldoni, premette invio.
Una voce femminile rispose un "pronto" freddo e professionale.
«Sì, salve, sono Fabio Fabretti, eravamo d'accordo per una olo-call tra poco.»
«Tra sedici minuti.»
«Ecco, purtroppo c'è stato un piccolo disguido. Avrei bisogno di posticipare di un'oretta. O due. O nel pomeriggio. Insomma, come torna più comodo al Cavaliere.»
«Al Calvalier Radometti torna comodo tra sedici minuti.»
Simpatica. «Capisco… mi scuso infinitamente, ma sono costretto a chiedervi un po' di pazienza. Ho avuto un imprevisto…»
«Ne parlerò col Cavaliere, ma la avverto che mal digerisce queste mancanze di professionalità. La contatteremo a breve.» Clik.
Bagassa ladra, non era un buon segno.
Si lanciò fuori dalla porta e corse giù per le scale.
Calma. Tra poco sarebbe arrivato Bogdan, sarebbero andati all'Accademia e stampato un nuovo certificato di autenticità. Il vecchio avrebbe storto un po' il naso, magari avrebbe anche tirato un po' sul prezzo, ma avrebbe pagato.
Bonifico - ufficio esattoriale - multa pagata in tempo. Trentaduemila al fisco, un regalone per Bogdan, il resto in tasca sua. Fine. Sì, sarebbe andata così.
Un cinquantino smarmittato girò l'angolo, Bogdan si fermò sul marciapiede in derapata. «Andiamo!»
Fabio saltò in sella.
Il motorino sfrecciava nel traffico, saliva sui marciapiedi, tagliava per vicoli sconosciuti ai più. Forse all'Accademia avevano una olo-cam. Gli avrebbe allungato un centone per il disturbo e altro tempo risparmiato.
«Sranje!» Bogdan schivò una transenna. «Ci sono i lavori!»
«Battitene il belino! È sabato, non ci sono operai nei cantieri!»
Il cinquantino si infilò sotto le impalcature deserte schivando pile di bancali e sacchi di cemento. «Occhio!» Centrò una pozzanghera fangosa schizzando ovunque. Si sarebbe presentato al cavaliere lozzo di fango e malta. Meglio, avrebbe dato credibilità alla storia dell'imprevisto.
Bogdan affiancò la transenna d'uscita, Fabio la buttò giù con un calcio e ripartirono come il vento.
Mancava pochissimo, l'Accademia era in fondo alla strada. «Vola maledetto serbo, vola!»
Il motorino ruggì tutta la grinta delle modifiche illegali e fece il viale in un baleno.
Fabio saltò giù e corse nell'atrio, prese le scale, ignorò la segretaria che gli urlava dietro.
Al pianerottolo girò a destra, corse in fondo al corridoio all'Ufficio Documentazione Autenticità. Il panico gli stritolò lo stomaco. Il cartello degli orari parlava chiaro. SABATO CHIUSO.

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Andrea Furlan
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Re: Semifinale Gambarini

Messaggio#3 » lunedì 17 aprile 2023, 16:46

Una normale giornata di primavera
Andrea Furlan

«Cercate di stare ferme, per favore. Non posso fare nulla se continuate a muovervi.»
La maledetta ape operaia dovrebbe stare immobile sotto la luce del microscopio, ma non ce la fa. Sembra un bambino sovra eccitato: muove le zampe, estroflette l’addome, come se dovesse indicare all’intero alveare dove trovare i fiori migliori. Non so più come fare. Neanche chiudere la finestra è servito. Pensavo che sarebbe bastato per lasciare fuori la primavera bolognese, piena di promesse di ricche fioriture.
Potremmo continuare domani. Ora abbiamo da fare. Molto da fare.
Le solite operaie industriose. Non le sopporto più.
«E va bene, allora basta per oggi. Siete libere.»
Con un ronzio gioioso, l’ape si divincola, mi vola attorno alla testa, poi si posa sul mio naso per qualche secondo. È il suo modo per salutarmi, come il bacio di un’amica che si allontana.
Arrivederci, e scusaci, ma lo sai che in questa stagione siamo impegnatissime.
«Non vi preoccupate, salutate tutte.»
Mi alzo dallo sgabello, la schiena che scricchiola. Non sono più in forma come una volta: quando ero bambino potevo stare ore sdraiato per terra a parlare con le formiche. Sono senza dubbio una compagnia più interessante: grandi lavoratrici, ma che sanno anche divertirsi.
Le api domestiche invece mi hanno sempre irritato. Sono troppo ossessionate dal lavoro, formali. Guai a dargli del tu, si offendono a morte. Per loro l’individuo non conta, si identificano sempre e solo in gruppo. Un Voi obbligatorio.
Con la solita cura, metto la copertura sull’antico microscopio ottico, un vero cimelio del Dipartimento di Entomologia. Sono l’unico che lo usa: i modelli moderni funzionano mille volte meglio, ma le api si lamentano, li trovano troppo freddi, dicono che la loro luce al led dà un fastidio terribile.
Mi sposto al computer per lavorare sulla tesi, ma la voglia svanisce subito. Mi basta aprire il file e leggere il titolo sulla prima pagina: “L’uso delle api come indicatore per l’individuazione dei Polari”. La parte sperimentale è quasi conclusa, ho accumulato un sacco di dati. La scoperta che mi varrebbe la pubblicazione su “Nature” è dimostrare che gli insetti possono individuare una persona con i poteri. Il vero problema è evitare di rivelare le mie capacità personali, senza scrivere che sono loro stessi a segnalarmelo. Già lo stipendio da tesista frequentatore è una miseria, se dovessero anche tassarmi per il mio potere sarebbe davvero finita.
Scuoto la testa, sconsolato. Un intero sabato mattina buttato via, inconcludente. Mi sono alzato presto, sono venuto in Facoltà per mettermi avanti col lavoro, invece ho solo perso tempo. Di questo passo non riuscirò mai a laurearmi.
Basta. Oggi c’è la Piazzola, il mercato del sabato: è un sacco che non ci vado, potrei farmi una bella passeggiata.
Forse assomiglio troppo ad api e formiche: sono quasi sempre solo, parlo con pochissime persone, sto bene in mezzo alla natura. Esco dal laboratorio, assaporo i profumi della bella stagione, il colore delle foglie appena spuntate, ascolto gli uccellini cantare felici.
In realtà è un inganno: i pennuti lo fanno apposta per mostrarsi indifferenti, lo so dalle mosche che ronzano qui attorno. Li dileggiano, prendendoli in giro, sfuggendo spericolate ai loro attacchi come corridori in pista. Fra tutti, i ditteri sono gli esseri più bastardi che abbia mai conosciuto.

Attraverso la zona universitaria. Gli studenti non sono pressati dalle lezioni come durante la settimana. Stanno insieme godendosi il sole, rilassati, riempiono i portici in piccoli gruppi, ridendo fra loro o bevendo qualcosa nei bar.
Li osservo da lontano mentre passeggio lento. Saluto solo un paio di scarafaggi.
Arrivo alla Piazzola: i tendoni bianchi delle bancarelle occupano tutta la piazza, decine di persone passeggiano senza fretta cercando buoni affari. Da quando mi sono trasferito a Bologna per frequentare Scienze agrarie, ho sempre adorato passarci in mezzo: la merce ha il prezzo giusto per le mie tasche, posso ascoltare le chiacchiere della gente senza essere obbligato a parlarci. Perdermi nella folla mi fa sentire meno solo.
Spesso ci ho conosciuto insetti interessanti, provenienti da diverse parti d’Italia. Sono sempre un po’ spaesati e hanno solo voglia di scambiare quattro chiacchiere.
Sto cercando un paio di scarpe, quando qualcuno attira la mia attenzione.
«Ehm, buongiorno, Prof. Come va?»
Una ragazza minuta sorride timida, non bella ma interessante. Porta pantaloni larghi e felpa enorme, mi scruta con un’espressione incerta da sotto un cappuccio scuro.
«Ci conosciamo?» Preso alla sprovvista non so cosa dire, e ora mi sento un completo idiota. Poi mi stupisco che la gente non vuole parlare con me.
«Certo. Sono una delle sue studentesse. Entomologia forestale, del terzo anno. Ho seguito tutte le sue esercitazioni, le ho trovate super interessanti.» Ha un tono più deciso, ora, quasi entusiasta. Lo trovo fuori luogo, ho sempre pensato che quelle lezioni fossero pallose da morire.
«Ah, bene. Ma io non sono un Professore, solo un semplice tesista. Puoi darmi del tu, se vuoi. Giampiero, piacere.» Ci diamo la mano. Mi accorgo solo in quel momento che porta dei guanti neri.
«Io sono Rosa. Mi dispiace che ora le lezioni siano finite, avrei continuato volentieri a seguire…»
Continua a parlare, ma vengo distratto. All’improvviso sento il pesante battito d’ali di una cimice. Si è aggrappata alla mia giacca. Non ascolto più la ragazza: percepisco che l’umore dell’insetto è pessimo. Anzi no, allarmato.
Le cimici sono insetti rudimentali ma affettuosi: stanno bene con gli umani, ma la gente non le capisce. Di solito cercano di entrare nelle case perché vogliono compagnia, un po’ come i cani. Fanno anche fatica a parlarmi: non sono articolate come gli imenotteri, usano concetti semplici che percepisco come singole parole.
Pericolo. Laggiù.
Rimango immobile, sorpreso. È la prima volta che un piccolo amico mi lancia un allarme così intenso. Mi si arrampica sul collo, come se volesse spingermi via, o forse farsi sentire meglio.
Rosso di testa. Potere. Guarda te. Pericolo. PERICOLO.
È riuscita davvero ad agitarmi.
Potere, ha detto. Che sia in grado di individuare i Polari come le api? Devo ricordarmelo per la tesi.
Guardandomi attorno, vedo un ragazzo con i capelli rossi immobile in mezzo alla gente cha va e viene. Non è molto alto, avrà vent’anni e sembra in attesa. Sono sicuro che mi abbia fissato per un attimo di troppo.
La ragazza è ammutolita. Il suo sguardo incredulo fissa la cimice che continua a passeggiarmi addosso.
«Scusami. Devo andare, è urgente.» Lo dico mentre mi allontano, senza più degnarla di uno sguardo.
Non so bene cosa fare. Mi volto cercando di mostrarmi indifferente. Intravedo lo stesso ragazzo: si è mosso. Mi sta seguendo, ne sono certo.
Confuso, imbocco i vicoli che portano al Ghetto Ebraico: abitavo lì, lo conosco bene. Mentre chi non ci è abituato può perdersi fra mille stradine tutte uguali.
Prendo svolte a caso, in zone poco frequentate, correndo per non farmi raggiungere. Sono abbastanza sicuro di averlo seminato, il respiro torna tranquillo. Mi sono comportato da stupido. Quella Rosa era anche carina, ora ricordo che l’avevo notata fra gli studenti. Potevo stare lì a parlare, invece sono scappato come un coglione. Allarmato da una cimice, fa quasi ridere.
Arrivo in una piccola piazza, quando incontro un ragazzo. È moro, alto, da un punto di vista fisico niente a che vedere con il rosso di prima. Eppure ha qualcosa che non riesco a identificare, forse gli occhi, il modo in cui mi fissa. Me lo ricorda.
Faccio per passargli a fianco, la testa bassa. Ma si piazza in mezzo al portico, mi blocca il passaggio.
«Giampiero Cumani. Fermati, ti dobbiamo parlare.»
Lo fisso con lo sguardo sbarrato. Mi è sconosciuto, ma sa il mio nome. Nella confusione generale, penso che abbia sbagliato, ha parlato al plurale ma è da solo. Proprio come un’ape.
«Si, dobbiamo parlarti. Smettila di scappare, non ce n’è bisogno. Non vogliamo farti del male.»
Una voce dietro di me. Assurdo, ma sembra identica a quella del tipo che mi ha bloccato. Mi giro: dietro di me è spuntato il rosso, quello che mi fissava al mercato.
Sono a pochi metri, li percepisco minacciosi, come se potessero scattare e afferrarmi in ogni momento. Uno piccolo, l’altro alto. Diversi come il giorno e la notte. Si guardano attorno, lanciandosi un cenno d’intesa.
Il viso di quello alto a un certo punto cambia, sembra uno di quei video dove il volto di una persona diventa quello di un’altra. Si scioglie su sé stesso, i capelli neri diventano rossi, i vestiti si modificano. Si abbassa, allarga, dilata. In pochi secondi ho di fronte due copie del rosso.
Mi torna in mente qualcosa alla televisione, una puntata di “Chi l’ha visto”: diversi Polari sono spariti nel nulla, un fenomeno in crescita. Una teoria complottista dice che siano i Mutaforma, dei tipi subdoli, pericolosi, di cui non ci si può fidare. Ne hanno fatto vedere uno che si è trasformato proprio così, faceva impressione.
«Sappiamo chi sei, Giampiero. E anche quello che sai fare,» dice quello dietro di me «ci interessa tantissimo. La tua capacità di comunicare con gli insetti è rara» continua quello davanti «strategica, addirittura, la prima volta che troviamo un Polare che lo sappia fare» ancora quello dietro «devi venire con noi, potrai lasciare perdere l’Università e guadagnare un sacco di soldi.»
Sono nella confusione più totale. Solo i miei genitori sanno del mio potere, è un segreto che teniamo nascosto da sempre. Ma non è importante come volare o essere super forti. Parlare con gli insetti: chi potrebbe mai volermi dare dei soldi per quello? Non posso fare altro che fissarli, ammutolito.
«Ma come fate a sapere? Chi ve l’ha detto? Nessuno…» La mia voce si spegne in un sussurro. Li fisso, senza sapere che fare.
«Abbiamo le nostre fonti. Sappiamo tutto, è da tanto che ti seguiamo. Anche che non hai un lavoro fisso, studiare da più di dieci anni non aiuta.»
«Se vieni con noi ti daremo ventimila euro subito, poi parlerai col nostro capo per il resto. Ti assicuriamo che non te ne pentirai.»
«Noi lavoriamo all’Istituto da tre anni, ormai.»
Hanno parlato a turno, come prima. Uno inizia la frase e l’altro la continua. Mille domande mi si formano in testa, ma l’ultima cosa che hanno detto le supera tutte.
«Istituto? Non vorrete dire l’INP vero?» L’Istituto Nazionale Polari, il mio sogno da quando sono ragazzo. Andare a Roma, lavorare fra altri che hanno le mie stesse capacità. Imparare, essere di aiuto alla collettività grazie al mio potere.
Ma c’è qualcosa che non torna: i concorsi per accedere all’Istituto sono difficilissimi, con migliaia di richiedenti per pochi posti.
«All’Istituto si entra solo per concorso. Come è possibile…»
Si guardano ancora, uno di loro mi sorride.
«Beh, diciamo che il dipartimento a cui apparteniamo è un po’, ecco, informale. Facciamo un lavoro di cui i giornali non parlano.»
«Anche noi siamo stati assunti dai nostri colleghi, senza tanta pubblicità: ci hanno trovato e fatto l’offerta, proprio come a te ora.»
«Prima facevamo lavori saltuari, pagati una miseria. Ora invece guadagniamo bene, abbiamo una bella casa tutta nostra a Roma. Viaggiamo in tutto il mondo, il nostro lavoro è cercare gente come te.»
«Già, proprio così. Abbiamo accettato subito. La decisione migliore di sempre.»
Roma. Una casa. Un lavoro vero, forse avventuroso, dove potrei affinare il mio potere. Forse rivedere Gioia. Studiava scienze politiche, è napoletana, piccola e formosa. Mi ha fatto perdere la testa, ma se n’è andata dopo la Laurea. Sui suoi social ho visto che ha una casa a Trastevere, con un gatto.
La trasformazione mi ha inquietato, però la prima impressione potrebbe essere sbagliata. All’improvviso questi due non mi fanno più tanta paura, sembrano quasi simpatici.
«Come funziona? Diciamo che la cosa forse potrebbe interessarmi, ma non voglio trucchi.»
«Ah, bene» sorridono insieme «ne eravamo sicuri. Devi solo seguirci, poi ti spiegheremo meglio.»
Ci muoviamo, mi tengono in mezzo a loro facendomi sentire un po’ in trappola. Camminiamo a lungo, ma non mi parlano più, sembrano concentrati. È strano come le vie della città siano diventate estranee, piene di ombre nonostante la bella giornata.
Si fermano davanti a un’auto come tante, mi fanno cenno di salire.
In quel momento, sento qualcuno che si avvicina, mi strattona.
«Corri!» Una voce di donna.
«È la stronza dell’altro giorno, quella che è scappata.» Urla uno dei due.
La ragazza mi ha preso per un braccio, mi tira via. Felpa oversize, il cappuccio caduto che rivela capelli neri, lisci. Rosa.
Corro, sempre più confuso.
«Non devono prenderti, sono pericolosi!» L’unica cosa che riesce a urlarmi mentre scappiamo.
Sbuchiamo da una stradina secondaria, corre verso la fermata di un autobus che ci passa davanti. Con le gambe che mi bruciano, saliamo all’ultimo momento, prima che chiuda le porte.
I due rossi arrivano troppo tardi. Rosa gli alza un dito attraverso il finestrino.
Ci guardiamo, ansimando.
«Che diavolo sta succedendo?» Le dico appena riprendo fiato.
«Quando sei andato via ho riconosciuto il tipo che ti cercava, vi ho seguito. Sono dei maledetti cacciatori di Polari. Ci hanno provato anche con me, ma li ho fottuti, sia allora che adesso.» Controlla, come se avesse paura che ci stessero seguendo.
Mi guardo attorno, sull’autobus c’è poca gente, si fanno i fatti loro.
«Ma allora anche tu? Come fai a saperlo?» Il segreto di una vita, mantenuto al prezzo di silenzi e privazioni. Demolito in un sabato come tanti: tre sconosciuti sanno che ho i poteri.
«Lo avevo intuito a lezione, ti ho osservato a lungo. Poi ho avuto la conferma da quella cimice: ti camminava addosso senza che la mandassi via. Parli con gli insetti, vero? Io posso fare qualcosa di simile con le piante: quando le tocco, le sento. Ma lo odio, cerco di evitarlo il più possibile. Mi dà solo problemi, non voglio farlo. Non sai quanti alberi disperati ho incontrato nella mia vita: soprattutto quelli di città, potati, maltrattati. Ho avuto crisi di depressione pesantissime.»
Si guarda le mani, ancora coperte dai guanti neri, che ora acquistano tutto un altro senso.
«Quei due, cosa ti hanno detto? Mi hanno offerto ventimila euro per andare al lavorare con loro all’INP.»
Diventa cupa. «Ho un’amica, Eva, studiava con me. Mi ha spiegato che fa Agraria perché vuole imparare a usare meglio il suo potere: può trasformare gli zuccheri in alcol. Produce anche un ottimo vino, è generosa e lo fa assaggiare a tutti. Le avevo detto di fare attenzione, ma l’altra sera a una festa era mezza ubriaca e parlava troppo. La mattina dopo era sparita, i suoi genitori mi hanno chiamato. Sono davvero disperati.» Ha gli occhi lucidi, è sull’orlo delle lacrime.
«Poi arrivano quei due, i gemelli: dicono che conoscono Eva, che gli ha raccontato del mio potere. Mi dicono che sta bene e che se la voglio rivedere devo andare con loro. Gli ho detto di no, che li avrei denunciati! Allora hanno cercato di catturarmi, ma sono scappata.»
Le sue parole mi fanno riflettere. Mutaforma a caccia di Polari, come noi due. Sanno tutto di me, proprio come gli agenti segreti di quei vecchi film che guardo ogni tanto. Penso alle api che studio, alla cimice che mi ha dato l’allarme. Faccio due più due. Ecco a cosa gli servo.
«Hanno bisogno di qualcuno in grado di identificare i Polari. Alcuni fra gli insetti con cui parlo me li segnalano di continuo, da sempre. La mia tesi è proprio su questo.»
«Ecco perché ti cercavano, ora è chiaro.» Mi fissa, con uno sguardo ribelle. «Giampiero, non devono prenderci. A nessun costo. Aspetta, scendiamo qui. Meglio allontanarci a piedi, sul bus possono trovarci.»
Ancora frastornato dalla fuga e dalle rivelazioni di Rosa, non posso fare altro che seguirla. Non vedo la loro auto, e neanche loro, forse ce l’abbiamo fatta. Ci troviamo sui viali, vicino all’entrata dei Giardini Margherita. Si guarda attorno, poi entra nel parco.
«Qui dovremmo essere al sicuro, vieni.»
Ci troviamo nella solita folla vociante del sabato pomeriggio. Famiglie con i bambini che giocano, persone che passeggiano godendosi un gelato. Ritmo lento del giorno di festa, sole del primo pomeriggio. Mi sento rassicurato, sembra tutto normale.
Un pensiero mi colpisce. «Rosa, non possiamo tornare a casa, o all’Università. Sapranno di sicuro dove trovarci.»
«Lo so, infatti dormo da un’amica, non sono più rientrata da me. Non so cosa fare.» Mi guarda di sbieco. «Almeno ora siamo in due» aggiunge.
Mi sembra più bella ora, i capelli al vento, lo sguardo acceso. Indomita.
Le sorrido imbarazzato. Poi torno serio, teso.
«Non possiamo neanche denunciarli alla polizia, se lavorano all’INP saranno di sicuro d’accordo con loro.»
La prospettiva è angosciante, in fondo l’INP rappresenta lo Stato italiano. Significa non avere un posto sicuro dove rifugiarsi, nessuno che possa tutelarci. Mi tornano in mente le lezioni di storia: le stragi del secolo scorso, la mafia, il terrorismo. Lo Stato ha sempre avuto un ruolo: e se stessero cercando di reclutare Polari per scopi illegali? O peggio, rapirli, costringerli, come forse hanno fatto con quella Eva. Sarebbe un disastro per quelli come noi.
Continuiamo a parlare, siamo entrambi impauriti. Mi rendo conto che forse saremo costretti ad abbandonare il mondo che conosciamo. Discutiamo su come trovare una via d’uscita sensata, fra mille congetture.
È tutto assurdo e spaventoso, ma mi piace parlare con lei, la trovo interessante, decisa. All’improvviso mi rendo conto che sto avendo la conversazione più lunga degli ultimi tempi. Con una persona, intendo.
Persi nelle nostre chiacchiere, non notiamo due ragazzi come tanti che ci vengono incontro. Solo quando ci sorpassano, mi rendo conto dell’errore.
Uno di loro afferra Rosa e le mette qualcosa vicino alla bocca. Si accascia in un istante fra le sue braccia.
L’altro cerca di fare altrettanto con me, ma riesco a divincolarmi, colpendolo con un calcio. Scappo ancora, preso dal panico. Devono essere loro.
Mi infilo in un vialetto, quando passo vicino a un cespuglio in fiore. Percepisco una presenza familiare. Api che bottinano, indaffarate a raccogliere nettare e polline. Continuo a correre, poi mi viene un’idea.
«Aiutatemi, per favore. Mi stanno inseguendo, vogliono farmi del male. Fermateli!»
Il messaggio allarmato colpisce nel segno: mi sentono, notano il ragazzo che mi insegue, alcune accennano ad alzarsi in volo.
Ma poi si rimettono a lavorare, tornano alle loro faccende. Solo un paio di loro si degnano di rispondermi.
Scusaci, ma non abbiamo proprio tempo. Guarda quanto nettare buono, succoso. La nostra Regina sarà contentissima.
Maledette Stacanoviste.
A che diavolo serve avere un potere, se poi chi può aiutarti fa quello che gli pare? Ai supereroi degli albi che leggevo da piccolo non succedeva mai qualcosa del genere.
Lo sento avvicinarsi. In fretta cerco di espandere le mie percezioni, di trovare un altro aiuto, quando li sento.
Un nido di calabroni in un albero cavo, più avanti.
I calabroni sono attaccabrighe tremendi, aggressivi e antipatici, sempre pronti a menare il pungiglione con chi li disturba. Li ho sempre evitati, ma ora non vedo altre soluzioni.
Lancio anche a loro il mio messaggio di aiuto, senza avere risposta.
Poi qualcosa mi fa inciampare e cado sul vialetto di ghiaia. È il mio inseguitore, che mi afferra, mi schiaccia al suolo, cerca di mettermi un panno bagnato sotto al naso e sento che tutto comincia a sparire, come se mi stessi addormentando. Lotto come posso.
Un ronzio pesante si avvicina, cattivo. In un istante sono libero: il ragazzo si è alzato, lo vedo agitare le braccia per scacciare qualcosa che non riesco a vedere. Grida, mentre un grosso calabrone appare sulla sua guancia destra.
Altri lo stanno pungendo, perché cerca di difendersi come può, schiaffeggiandosi il corpo.
Ormai si è dimenticato di me. Mi rimetto in piedi a fatica, poi lo stordimento passa in fretta. Torno indietro.
«Seguitemi, per favore, ce n’è un altro. Un’amica è in pericolo.»
Non rispondono, ma li sento attorno a me. Cammino con calma, questa volta, accompagnato da quel ronzio potente che per una volta mi fa sentire forte, invulnerabile.
Cerco l’altro, e Rosa. Li trovo a poca distanza dal punto dove l’hanno presa, seduti su una panchina. Lui è in attesa, la sorveglia mentre dorme, sembra la sua fidanzata.
Mi vede arrivare, intuisce che qualcosa non va. I calabroni cominciano a ronzargli attorno. È sufficiente, si alza impaurito mentre le sue sembianze cambiano. Si trasforma di nuovo, compaiono i capelli rossi, il suo vero volto. I lineamenti si fondono in modo disordinato, come se avesse perso il controllo. Scappa, inseguito.
Esausto, mi siedo sulla panchina accanto a Rosa. Posso prendermi un attimo, quei due hanno avuto una bella lezione. Non torneranno più, almeno per oggi.
È un bellissimo sabato di primavera. Sportivi che si allenano, bambini che corrono nei prati, famiglie spensierate. Dicono che i Polari siano il cinquanta per cento della popolazione. Chissà quante di quelle persone avranno poteri come noi. Quanti riceveranno la visita di qualcuno come quei due e saranno terrorizzati a morte. Sento che l’Università, la tesi, non hanno più senso. Invece il mio potere ce l’ha. Ci ha salvati entrambi.
Posso seguire il mio sogno, imparare, anche da solo. Difendermi da quei bastardi. Fare qualcosa per me, per noi due. Anzi, no. Per tutti loro.
«Rosa, svegliati. Dobbiamo andare.»
Nel dormiveglia appoggia la testa sulla mia spalla. Incerto, le prendo una mano. Mi aspetto che si ritragga come mi è successo con tante altre, ma non lo fa. Invece apre gli occhi, sorride.
Almeno ora siamo in due, ha detto.
In un attimo, non mi sento più solo.
Ultima modifica di Andrea Furlan il lunedì 17 aprile 2023, 16:51, modificato 1 volta in totale.

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Re: Semifinale Gambarini

Messaggio#4 » lunedì 17 aprile 2023, 16:49

VIsto che nella prima fase diversi lettori erano rimasti confusi dal terzo bonus, indico anche qui che ambisco a tutti e tre:
Un animale dev'essere elemento di fastidio per i personaggi: sono le api domestiche, riluttante oggetto di studio per Giampiero, troppo indaffarate per aiutarlo.
Nel racconto dev'esserci un oggetto anacronistico: il vecchio microscopio ottico, così comodo per le api rispetto ai modelli moderni.
Qualcuno deve avere un superpotere inutile: non si tratta del potere di Giampiero, ma di quello di Rosa, inutile e dannoso almeno per lei, che soffre come le piante con cui può comunicare.

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Re: Semifinale Gambarini

Messaggio#5 » mercoledì 3 maggio 2023, 10:46

Commenti di Livio Gambarini

Burocrazia Italiana e Tecnologia serba.

Un racconto ben scritto, con una credibile distopia nostrana e un buon filtro psicologico, funzionale alla lettura. Il personaggio del serbo mi è risultato particolarmente simpatico!
Le debolezze principali del racconto risiedono nell’architettura della storia e nel polso di lettura. Che la storia stesse andando a parare sul viaggio nel tempo diventa chiaro ai lettori troppo tempo prima che lo sia ai personaggi, e il primo nome che viene in mente al lettore casuale per ipotizzare l’identità del pittore, in assenza di indizi, è proprio quello di Leonardo da Vinci. Il che smorza parecchio la sorpresa e la meraviglia di quando giunge conferma che si tratta proprio di lui. Peraltro, anche accettando il fatto che il potere di Fabio avesse a che fare con brevissimi viaggi nel tempo (tema sempre delicatissimo in narrativa per le contraddizioni causali che genera), il fatto che tra tutti i luoghi e i momenti il protagonista appaia proprio nello studio di Leonardo da Vinci appare come una coincidenza davvero troppo conveniente: nessuna semina precedente mi aveva fatto presagire che a giustificarlo ci fosse un particolare legame tra il protagonista e l’artista rinascimentale (Una discendenza? Una devozione speciale? Un’affinità di anime? Aver passato un momento molto felice nel suo museo?), perciò mi rimane la sensazione che aver viaggiato proprio nel suo studio e aver rubato un suo progetto allungando la mano sia stato un colpo di fortuna gigantesco, troppo grosso per non sconfinare nel deus ex machina. Un impianto più accurato di semine e mietiture, ovvero una migliore architettura narrativa, avrebbe molto alzato il mio gradimento del racconto.
In diversi punti, gli elementi messi nella storia fanno pensare a occasioni sprecate dal punto di vista narrativo. Il finale è forse il punto più evidente: la storia s’apriva con un tema interessante: una forte (e condivisibile) critica al settore pubblico dell’Italia in cui i privilegiati che appartengono alla casta burocratica opprimono i deboli con la loro incompetenza, mancanza di ragionevolezza e cieca avidità. C’erano le condizioni per creare una bellissima circolarità con il finale, dove il fallimento del personaggio, una volta arricchitosi, poteva essere causato dalla medesima incompetenza e avidità che egli rimproverava agli altri all’inizio, che poteva impedirgli di passare dalla parte dei privilegiati. Invece, nella forma attuale, anche il fallimento del protagonista appare molto casuale, forzato dal classico meccanismo “il cane mi ha mangiato i compiti”, che tematicamente non appare legato al tema della storia.
Comunque una lettura piacevole, e una penna che con un po’ più di attenzione all’impianto narrativo avrà (e darà) sicuramente soddisfazioni! Considerando che si tratta di un lavoro scritto in fretta, il mio voto è 6+.



Una normale giornata di primavera
Un racconto gustoso pieno di dettagli immaginifici, che ha saputo calarmi in un “super” capace di interagire con gli insetti e nella sua decadente Italia, in cui altri hanno poteri come lui.
Diverse cose si fanno apprezzare di questo racconto, dalla caratterizzazione dei personaggi alla curiosità dei poteri dei Polari, meno appariscenti e più credibili di quanto Hollywood ci abbia abituato a immaginare.
Nel racconto sono presenti diversi problemini, in gran parte riconducibili alla velocità d’esecuzione e all’assenza di un’organica pianificazione a monte. Diversi degli elementi e delle svolte della seconda metà del racconto avrebbero avuto rilevanza drammatica maggiore, se fossero stati debitamente introdotti nella prima metà.
Tuttavia, pur nell’improvvisazione il racconto ha mantenuto un’amabile sapore di solidità, il che mi fa ben sperare circa la potenzialità di questa penna, con un po’ più di strutturazione pregressa.
Voto: 7-.



Accede alla finale: Una normale giornata di primavera

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