Il tribunale delle anime
Inviato: martedì 17 ottobre 2023, 1:22
Un cielo color cemento gettava un’ulteriore ombra di tristezza su quella piazza gremita di corpi nudi.
Mimmo si trascinava tra la folla, gli occhi bassi e un tremendo peso sul cuore. Cosa ne sarebbe stato di lui? E dei suoi cari? E di Giuseppina? Vabè che lei era stata più o meno come una santa durante la vita, quindi teoricamente avrebbe dovuto rischiare niente, però sai com’è…
Un grosso falco planò sulla folla e si andò a posare sul tetto del Gran Tribunale. Sul gigantesco tabellone elettronico posto sulla facciata dell’edificio si leggeva il numero 394.
Il biglietto che Mimmo aveva in mano, invece, diceva 395. C’era quasi, fra poco sarebbe toccato a lui. Diede un colpo di gomito a un ragazzo che si accarezzava la barba con lo sguardo fisso nel vuoto. «Secondo te che ci chiedono là dentro?»
Il giovane non ebbe nessun tipo di reazione e continuò a vagare nel nulla, senza rispondere.
Anche l’approccio con una signora di mezza età con il seno che le arrivava a ridosso dell’ombelico rimase senza risposta.
Eppure qualcuno doveva pur sapere qualcosa, dai! Che poi in vita se ne raccontavano di cose sul giorno del giudizio, ma in fondo come facevi a parlare con qualcuno che realmente lo aveva sperimentato? E lì, su quella piazza, erano tutti alla loro prima, e ovviamente ultima, esperienza.
Mimmo perse la pazienza e urlò. «Oh, ma cazzo, gente, tanto ormai siamo tutti morti, cosa sono ‘ste facce? Quel che è fatto è fatto ormai, signori. Se abbiamo fatto gli stronzi in vita, sarà anche ora di pagare, o no? E se permettete, perdonatemi, credo sia anche giusto così, eh. Cioè, i dieci comandamenti li sapevamo tutti, mica erano un segre—»
La sirena del Gran Tribunale risuonò imperiosa sulla piazza. Sul tabellone apparve il numero 394 con la faccia di una signora, barrata da un’eloquente croce rossa. Ahia, un’altra...
Da quando era arrivato quella mattina, su un centinaio di giudizi, se ne saranno salvati giusto un paio. Il resto, croci rosse.
Fatto sta, toccava a lui, e il tabellone glielo confermò mostrando il suo numero.
Concesse alla piazza un inchino da teatrante navigato e varcò la soglia dell’edificio, dove un uomo in toga nera lo fissava con disprezzo. Adagiato su un trono dorato, sui due braccioli aveva dei pulsanti: la croce rossa, il cerchio verde. Punito, salvato.
«Permesso, buongiorno. Io sono Mim—»
«Silenzio. Sappiamo chi è lei.»
«Un onore.» Mimmo congiunse le mani come in preghiera. «Ditemi tutto, sono a vostra disposizione.»
«Uno. Non avrai altro Dio all’infuori di me?»
Mimmo annuì. «Ma ci mancherebbe, uno basta e avanza.»
Il giudice appuntò qualcosa a penna su un foglietto. «Due. Non nominare il nome di Dio invano?»
«Una volta sola... massimo due, giuro. Mignolo contro spigolo del mobile di notte.» Allargò le braccia. «Oh, mi è uscito. Chiedo scusa.»
Altri appunti per il giudice. «Tre. Ricordati di santificare le feste?»
«Sempre. Mai andato a lavorare e fatto ponti più lunghi possibile proprio per santificare meglio.»
Il giudice alzò un attimo gli occhi, poi scrisse ancora. «Quattro. Onora il padre e la madre?»
«Di chi?»
«I suoi, no?»
Mimmo annuì. «Ah, sì, allora sì. Però tipo con i miei suoceri li chiamavo mamma e papà però non andava benissimo, sono sincero.»
Il giudice smise anche di prendere appunti e velocizzò la pratica. «Non uccidere?»
«Solo zanzare. D’estate.»
«Adulterio?»
«Eh?»
«Non tradire?»
«Gioco il jolly.»
«Non rubare?»
«Quanti jolly ho?»
«Non dire falsa testimonianza?»
Mimmo strinse il pugno. «Qui tutto ok, ci rientro!»
«Non desiderare la roba d’altri?» Lo incalzò il giudice.
«Ma no dai...cioè sì forse, qualche volta è capitato. Però è dura così...»
«Non desiderare la donna d’altri?»
«Signor giudice, oddio donna d’altri… discorso ampio qui, eh. Mica sono oggetti le donne, roba medievale, sorpassata direi...no?»
Il giudice smise di parlare e lo fissò.
Mimmo, sfiduciato, fece un resoconto mentale del suo “esame”.
Si avvicinò al giudice e gli strinse la mano. «Mi permetta di fare da solo.»
«Prego.»
A due mani, spinse il pulsante con la croce rossa.
Mimmo si trascinava tra la folla, gli occhi bassi e un tremendo peso sul cuore. Cosa ne sarebbe stato di lui? E dei suoi cari? E di Giuseppina? Vabè che lei era stata più o meno come una santa durante la vita, quindi teoricamente avrebbe dovuto rischiare niente, però sai com’è…
Un grosso falco planò sulla folla e si andò a posare sul tetto del Gran Tribunale. Sul gigantesco tabellone elettronico posto sulla facciata dell’edificio si leggeva il numero 394.
Il biglietto che Mimmo aveva in mano, invece, diceva 395. C’era quasi, fra poco sarebbe toccato a lui. Diede un colpo di gomito a un ragazzo che si accarezzava la barba con lo sguardo fisso nel vuoto. «Secondo te che ci chiedono là dentro?»
Il giovane non ebbe nessun tipo di reazione e continuò a vagare nel nulla, senza rispondere.
Anche l’approccio con una signora di mezza età con il seno che le arrivava a ridosso dell’ombelico rimase senza risposta.
Eppure qualcuno doveva pur sapere qualcosa, dai! Che poi in vita se ne raccontavano di cose sul giorno del giudizio, ma in fondo come facevi a parlare con qualcuno che realmente lo aveva sperimentato? E lì, su quella piazza, erano tutti alla loro prima, e ovviamente ultima, esperienza.
Mimmo perse la pazienza e urlò. «Oh, ma cazzo, gente, tanto ormai siamo tutti morti, cosa sono ‘ste facce? Quel che è fatto è fatto ormai, signori. Se abbiamo fatto gli stronzi in vita, sarà anche ora di pagare, o no? E se permettete, perdonatemi, credo sia anche giusto così, eh. Cioè, i dieci comandamenti li sapevamo tutti, mica erano un segre—»
La sirena del Gran Tribunale risuonò imperiosa sulla piazza. Sul tabellone apparve il numero 394 con la faccia di una signora, barrata da un’eloquente croce rossa. Ahia, un’altra...
Da quando era arrivato quella mattina, su un centinaio di giudizi, se ne saranno salvati giusto un paio. Il resto, croci rosse.
Fatto sta, toccava a lui, e il tabellone glielo confermò mostrando il suo numero.
Concesse alla piazza un inchino da teatrante navigato e varcò la soglia dell’edificio, dove un uomo in toga nera lo fissava con disprezzo. Adagiato su un trono dorato, sui due braccioli aveva dei pulsanti: la croce rossa, il cerchio verde. Punito, salvato.
«Permesso, buongiorno. Io sono Mim—»
«Silenzio. Sappiamo chi è lei.»
«Un onore.» Mimmo congiunse le mani come in preghiera. «Ditemi tutto, sono a vostra disposizione.»
«Uno. Non avrai altro Dio all’infuori di me?»
Mimmo annuì. «Ma ci mancherebbe, uno basta e avanza.»
Il giudice appuntò qualcosa a penna su un foglietto. «Due. Non nominare il nome di Dio invano?»
«Una volta sola... massimo due, giuro. Mignolo contro spigolo del mobile di notte.» Allargò le braccia. «Oh, mi è uscito. Chiedo scusa.»
Altri appunti per il giudice. «Tre. Ricordati di santificare le feste?»
«Sempre. Mai andato a lavorare e fatto ponti più lunghi possibile proprio per santificare meglio.»
Il giudice alzò un attimo gli occhi, poi scrisse ancora. «Quattro. Onora il padre e la madre?»
«Di chi?»
«I suoi, no?»
Mimmo annuì. «Ah, sì, allora sì. Però tipo con i miei suoceri li chiamavo mamma e papà però non andava benissimo, sono sincero.»
Il giudice smise anche di prendere appunti e velocizzò la pratica. «Non uccidere?»
«Solo zanzare. D’estate.»
«Adulterio?»
«Eh?»
«Non tradire?»
«Gioco il jolly.»
«Non rubare?»
«Quanti jolly ho?»
«Non dire falsa testimonianza?»
Mimmo strinse il pugno. «Qui tutto ok, ci rientro!»
«Non desiderare la roba d’altri?» Lo incalzò il giudice.
«Ma no dai...cioè sì forse, qualche volta è capitato. Però è dura così...»
«Non desiderare la donna d’altri?»
«Signor giudice, oddio donna d’altri… discorso ampio qui, eh. Mica sono oggetti le donne, roba medievale, sorpassata direi...no?»
Il giudice smise di parlare e lo fissò.
Mimmo, sfiduciato, fece un resoconto mentale del suo “esame”.
Si avvicinò al giudice e gli strinse la mano. «Mi permetta di fare da solo.»
«Prego.»
A due mani, spinse il pulsante con la croce rossa.