La Vergine e lo Scorpione
Inviato: lunedì 15 aprile 2024, 23:46
La Vergine e lo Scorpione
di Federico Martello
Astrea cammina in direzione della sua morte.
Respirava da un giorno soltanto, il primo dell’eternità, quando ascoltò anche lei, ultima nata tra ogni Dio, le parole dell’Oracolo che oggi la condannavano. Di come sarebbe stata l'ultima di tutti loro, lei sola rimasta a camminare sulla terra quando la sua stirpe fosse stata separata dai mortali e dimenticata dal volgersi dei secoli. Su come il suo nome soltanto sarebbe rimasto impresso sulle bocche degli uomini e nel cuore delle donne, poiché in lei vi era la giustizia e l'amore che invano avevano cercato nel cielo.
Un giorno soltanto, quando ascoltò gli Dei deridere l’Oracolo, maledire il suo nome. Giurare che se davvero il fato li sfidava, loro avrebbero accolto il duello e lo avrebbero vinto. Se anche fossero scomparsi, ognuno di loro cancellato dallo scorrere del tempo, Astrea per prima avrebbe conosciuto la fine che chi è eterno non ha mai dovuto confrontare. Lei per prima, tra tutti gli Dei, avrebbe accolto la morte. Ma come porre fine a ciò che deve esistere per sempre? Non esisteva risposta, nessuno aveva mai osato cercarla, e il tempo trascinò via stagione dopo stagione mentre ancora si interrogavano.
Finché non giunse la morte del Cacciatore.
Gola affogata nel veleno, icore macchiata di nero, per primo cadde il figlio del Mare. Sul suo corpo gli Dei decisero. “Che sia data in pasto al suo assassino.” tuonò il Mare, e il Cielo ne fu eco “Se non per prima, allora che conosca per seconda la fine dell’eternità.” “Che il suo nome sia di orrore sulla bocca degli uomini e nel cuore delle donne.” “Che nessuno la ricordi mai, se non nella stretta del Deicida.”
Nella terra dei mortali, Astrea discende e cammina tra i morti, alla ricerca dell’assassino. Per portargli giustizia, le dissero, perché conosca il giudizio del cielo, la ammoniscono. E lei crede. Crede a coloro che ha chiamato madre e padre e fratello e sorella. Crede a coloro di cui è respiro e famiglia, non importa cosa avessero giurato, non importa quanto l’avessero maledetta. Astrea discende tra i morti e non crede alla propria morte, non finché non vede il Deicida.
Coda a frustare l’aria, cola veleno più nero delle scaglie su cui poggia. Chele affilate a schioccare come battito di un cuore antico. Occhi rossi, velati, svuotati. E i corpi, alti come montagne, su cui poggia zampe di ombra e notte, cadaveri senza veleno nelle vene, niente al di fuori del marchio della spada, del segno della freccia, dell’impronta della lancia e del solco degli zoccoli. Solo allora capisce.
“Il Cacciatore ha ucciso i miei figli.”
Solo allora, infine, crede.
“Le mie madri. I miei padri. I miei fratelli e le mie sorelle. Vattene, piccola Dea. Il Cacciatore ha ucciso il mio mondo, non ho altro che possiate prendervi.”
Solo allora piange. Mentre guarda l’ultima delle bestie e vede per la prima volta che colore hanno gli occhi di un padre che ama, le dita di una madre che adora, le parole di un fratello che accoglie e le lacrime di una sorella che vuole bene. Mentre si accorge che mai ha visto quei colori, quelle forme e quei suoni, nei volti della sua stirpe.
Che nessuno l’ha mai guardata col calore che riempie gli occhi rossi del Deicida.
“Torna da chi ti ama, piccola Dea.”
Quando gli si lancia contro, non sono chele quelle che la stringono. Non ci sono scaglie premute contro la guancia. Il Deicida la accoglie contro il petto e per un attimo il mondo è fumo e calore.
“Nessuno. Nessuno ad amarmi nel cielo, nella terra e in ogni mare. Non ho amore in questo mondo. Non ho famiglia. Non ho nessuno. Non ho niente.”
Il Deicida trema, esita solo il tempo di un respiro, poi le stringe le braccia attorno. Istinto di padre, figlio e amante. Contro il petto, il calore è quello di una stella.
“Resta, allora.”
Sussurra infine l’Assassino di Orione, Ade, lo Scorpione.
“Resta.”
Tra le sue braccia, Astrea, Persefone, la Vergine, non ha bisogno di rispondere.
di Federico Martello
Astrea cammina in direzione della sua morte.
Respirava da un giorno soltanto, il primo dell’eternità, quando ascoltò anche lei, ultima nata tra ogni Dio, le parole dell’Oracolo che oggi la condannavano. Di come sarebbe stata l'ultima di tutti loro, lei sola rimasta a camminare sulla terra quando la sua stirpe fosse stata separata dai mortali e dimenticata dal volgersi dei secoli. Su come il suo nome soltanto sarebbe rimasto impresso sulle bocche degli uomini e nel cuore delle donne, poiché in lei vi era la giustizia e l'amore che invano avevano cercato nel cielo.
Un giorno soltanto, quando ascoltò gli Dei deridere l’Oracolo, maledire il suo nome. Giurare che se davvero il fato li sfidava, loro avrebbero accolto il duello e lo avrebbero vinto. Se anche fossero scomparsi, ognuno di loro cancellato dallo scorrere del tempo, Astrea per prima avrebbe conosciuto la fine che chi è eterno non ha mai dovuto confrontare. Lei per prima, tra tutti gli Dei, avrebbe accolto la morte. Ma come porre fine a ciò che deve esistere per sempre? Non esisteva risposta, nessuno aveva mai osato cercarla, e il tempo trascinò via stagione dopo stagione mentre ancora si interrogavano.
Finché non giunse la morte del Cacciatore.
Gola affogata nel veleno, icore macchiata di nero, per primo cadde il figlio del Mare. Sul suo corpo gli Dei decisero. “Che sia data in pasto al suo assassino.” tuonò il Mare, e il Cielo ne fu eco “Se non per prima, allora che conosca per seconda la fine dell’eternità.” “Che il suo nome sia di orrore sulla bocca degli uomini e nel cuore delle donne.” “Che nessuno la ricordi mai, se non nella stretta del Deicida.”
Nella terra dei mortali, Astrea discende e cammina tra i morti, alla ricerca dell’assassino. Per portargli giustizia, le dissero, perché conosca il giudizio del cielo, la ammoniscono. E lei crede. Crede a coloro che ha chiamato madre e padre e fratello e sorella. Crede a coloro di cui è respiro e famiglia, non importa cosa avessero giurato, non importa quanto l’avessero maledetta. Astrea discende tra i morti e non crede alla propria morte, non finché non vede il Deicida.
Coda a frustare l’aria, cola veleno più nero delle scaglie su cui poggia. Chele affilate a schioccare come battito di un cuore antico. Occhi rossi, velati, svuotati. E i corpi, alti come montagne, su cui poggia zampe di ombra e notte, cadaveri senza veleno nelle vene, niente al di fuori del marchio della spada, del segno della freccia, dell’impronta della lancia e del solco degli zoccoli. Solo allora capisce.
“Il Cacciatore ha ucciso i miei figli.”
Solo allora, infine, crede.
“Le mie madri. I miei padri. I miei fratelli e le mie sorelle. Vattene, piccola Dea. Il Cacciatore ha ucciso il mio mondo, non ho altro che possiate prendervi.”
Solo allora piange. Mentre guarda l’ultima delle bestie e vede per la prima volta che colore hanno gli occhi di un padre che ama, le dita di una madre che adora, le parole di un fratello che accoglie e le lacrime di una sorella che vuole bene. Mentre si accorge che mai ha visto quei colori, quelle forme e quei suoni, nei volti della sua stirpe.
Che nessuno l’ha mai guardata col calore che riempie gli occhi rossi del Deicida.
“Torna da chi ti ama, piccola Dea.”
Quando gli si lancia contro, non sono chele quelle che la stringono. Non ci sono scaglie premute contro la guancia. Il Deicida la accoglie contro il petto e per un attimo il mondo è fumo e calore.
“Nessuno. Nessuno ad amarmi nel cielo, nella terra e in ogni mare. Non ho amore in questo mondo. Non ho famiglia. Non ho nessuno. Non ho niente.”
Il Deicida trema, esita solo il tempo di un respiro, poi le stringe le braccia attorno. Istinto di padre, figlio e amante. Contro il petto, il calore è quello di una stella.
“Resta, allora.”
Sussurra infine l’Assassino di Orione, Ade, lo Scorpione.
“Resta.”
Tra le sue braccia, Astrea, Persefone, la Vergine, non ha bisogno di rispondere.