Finalissima!

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum. Questo GAME il racconto dev'essere dedicato agli zombie.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) I migliori di ogni girone approderanno alla finale.
4) Il vincitore verrà pubblicato nell'antologia curata da Anna Pullia e Francesco Nucera, edita da Gainsworth Publishing.
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Spartaco
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Finalissima!

Messaggio#1 » giovedì 13 febbraio 2025, 16:46

Eccoci alla Finalissima della Sfida allo Zombibus
Accedono alla Finalissima:
La piastrella magica, di Gaia Peruzzo
Rubedo Precoce, di MatteoMantoani
Linea 99, di Daniele Picciuti
IL POTERE LIBERATORIO DEL TAFANO, di M.M
Qua fuori è un brutto mondo, di Luca Fagiolo
Le Mura del Mille, di Andrea Furlan
Finché morte non ci separi, di Manuel Marinari

In risposta a questa discussione gli autori hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare ai giudici un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: sabato 15 febbraio alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto terremo buono quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 15 febbraio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato ai giudici il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Fagiolo17
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Re: Finalissima!

Messaggio#2 » giovedì 13 febbraio 2025, 19:08

Qua fuori è un brutto mondo
di Luca Fagiolo


L’aria spinta dal ventilatore gonfia le tendine alla finestra e mi rinfresca la nuca sudata. Il ronzio è peggiorato negli ultimi giorni, temo che stia per abbandonarci anche lui. Chissà se tornerà in vita come fanno i morti, un bel ventilatore-zombi in effetti mancherebbe in questa follia.
La luce del lampadario illumina il mazzo di carte al centro del tavolo e il sei di denari infilato sotto. “Briscola denari, vincono i belli.” Con trent’anni in meno degli altri dovrei partire avvantaggiato. Calo il fante di spade e lo sposto davanti a Ginone. Lui strozza con il tre e a Pinuccio parte una bestemmia circostanziale.
Ginone si leva una goccia di sudore dal guancione penzolante. “Ce l’avrai bene un briscolino, no?”
Pinuccio non gli concede una risposta, tanto sarebbe una bestemmia.
Adoro i gemelli Ferrari. I loro genitori dovevano essere ubriachi quando hanno scelto i nomi: Gino e Pino, li hanno chiamati. Solo che poi Ginone è lievitato fino ad assomigliare più a un panettone che a un essere umano, mentre Pinuccio a forza di zappare la terra si è ingobbito e smagrito come un ramo piegato dal peso della frutta matura. Adesso non diresti neanche che sono fratelli.
È il turno di suor Maria, mi affido alla sua esperienza di giocatrice. Leva gli occhi al cielo – e quando fa così sembra proprio una suora vera, anche se in realtà la chiamano in quel modo solo perché racconta di essersi mantenuta illibata in attesa di un matrimonio che non è mai arrivato – e lancia l’asso di spade.
Ventitré punti di prima mano, mica male!
Catvenagninta, Ginone!” Pinuccio lancia un liscio clamoroso. “Zugher teg l’è un suplizzio!”
“Supplizio.” Lo correggo io, che con i miei cinque anni di Muratori, liceo Classico, sono il più vicino a ricevere un Nobel per la letteratura qui dentro.
“Mi ha capito lo stesso!” Pinuccio si alza e le ginocchia gli tremano dopo due ore nella stessa posizione. “A m'è beli paseda la voja ed zugher.”
Tiro indietro la sedia prima che ci inciampi. “Ma dai, è solo la prima mano.”
“Appunto!” Impasta del catarro in gola e lo sputa in un fazzoletto pescato dalla tasca dei pantaloni di velluto. “A vag in dla me cambra.”
Bene, partita finita. “Continuate voi due, che io c’ho della roba da fare.”
Suor Maria solleva le spalle. “Chissà mai, siamo rimasti in quattro gatti. Non sporchiamo mica così tanto.”
Prendo la scopa dal ripostiglio e comincio a spazzare le briciole da sotto il tavolo. "Beh, insomma..."
Di certo meno che quando la struttura era piena. Dieci camere da pulire, più i bagni, le cucine e le stanze comuni. Non era una passeggiata, ma lo stipendio era adeguato.
Poi sono arrivati gli zombi a rovinare tutto. Infermieri e dottori sono andati nel panico: tutti a scappare, tutti a cercare di raggiungere casa e affetti. Forse da quel punto di vista sono stato il più fortunato. Una casa ce l’avevo – in affitto mica di proprietà, non scherziamo – ma non c’era nessuno ad aspettarmi. Ebe, la mia nonnina, era morta da qualche mese e il resto della famiglia si era trasferita al camposanto già da parecchio. Senza di lei chi avrei dovuto cercare? Gli amici sposati che vedevo una volta l’anno quando andava bene? I duecento follower che mi seguivano su Instagram? Alla fine mi sono sempre trovato meglio con i vecchietti che con quelli della mia età, e se non fossi rimasto io chi si sarebbe preso cura degli ospiti della RSA? Certo, per loro sarebbe stato meglio un medico o almeno un infermiere, e non il capo inserviente. Forse si sarebbe salvato qualcuno in più. Invece è toccato a me bruciare i corpi di quelli che ci hanno lasciato e inventarmi che i parenti erano venuti a riprenderli.
Ginone si massaggia la pancia. “Stasera cosa prepari? Un bel brodo di cappone?”
Fosse per loro mangerebbero solo brodino e pastina anche con questo caldo insopportabile. Per fortuna non hanno dei palati sopraffini, non si sono accorti che da settimane il brodo glielo preparo con il dado. Abbiamo ancora scaffali pieni di pasta e scatolame, ma presto o tardi anche quelli finiranno.
Dovrei uscire per capire com’è la situazione in città. Modena è grande, ci saranno altri sopravvissuti o dei centri commerciali che non sono stati saccheggiati, ma ho troppa paura. La settimana scorsa – o forse era quella prima – ho visto uno di quei mostri arrampicarsi su una grondaia per raggiungere non so bene cosa. La scia di sangue e interiora è ancora lì sulla facciata dell’edificio di fronte.
E dei vivi mi fido ancora meno, ci vuole un attimo a tirare fuori il peggio dalle persone. Nessuno degli infermieri o dei medici che se la sono data a gambe è tornato a controllare come ce la stavamo cavando qui. Bastava anche solo una telefonata, almeno in quei primi giorni in cui le linee telefoniche ancora funzionavano. Ormai è tardi. Bisognerebbe usare i segnali di fumo o i piccioni viaggiatori.
No, niente piccioni, che quelli sono cattivi impestati già da vivi, figuriamoci da zombi!
“Leo!” Pinuccio mi chiama dalla camera da letto. “Muoviti, corri! Vin a seinter!”
Lascio la scopa appoggiata alla credenza e mi affaccio nella zona notte. Che c’è, l’ennesima mazurka che devo assolutamente ascoltare?
Una lama di luce sbuca dalla sua camera e taglia in due il pavimento piastrellato del corridoio. Spero non abbia aperto di nuovo la finestra, non sono stato abbastanza chiaro sul discorso della sicurezza?
“Che succede?” Spingo la porta socchiusa ed entro nella stanza. Pinuccio e proteso alla finestra. Ma che cazzo fa? Agita il braccio, con il culo appoggiato sul davanzale, una chiappa dentro e una sospesa sul vuoto. Lo agguanto e lo tiro dentro.
“No, sa fet!” Si aggancia con le mani al muro esterno, ma non ha abbastanza forza per opporsi. Con lo sguardo osserva qualcosa cadere di sotto. Il rumore dell’oggetto che si infrange sull’asfalto arriva attutito dai tre piani di altezza.
“Ma sei impazzito?” Lo scuoto, e mi pento della foga con cui lo faccio. Non voglio fargli male ed è già così fragile. “Che ti è saltato in testa, volevi buttarti?”
Cajaun, ma secand te?” Mi tira un coppino con la mano rugosa. “Cercavo il segnale.”
Oh no, la radiolina! Beh, forse è un bene che sia volata di sotto, non ne potevo più delle canzoni dell’orchestra Casadei.
“Hanno detto che sta arrivando!” Pinuccio si aggrappa alla mia maglietta sudata e la strattona.
Ecco, ci manca solo che cominci a delirare.
“Chi sta arrivando?” Ginone appoggiato allo stipite prende fiato, suor Maria sbuca da sotto il suo braccio.
Pinuccio li guarda pieno di speranza. “Lo Zombibus!”

***

“Quindi in pratica,” mi passo le dita tra i capelli radi. “Mi stai dicendo che c’è un grosso bus verde che gira per l’Italia alla ricerca di sopravvissuti?”
Pinuccio fa segno di sì con la testa.
“Che si fermerà per la notte a Bologna, per poi salire verso nord lungo la Via Emilia, passando anche da Modena?”
Un altro sì, ancora più deciso.
Beh, alla fine la radiolina ha fatto il suo dovere, anche se questa storia continua a sembrarmi una follia.
“Ragazzi,” amano quando li chiamo così. “Mettiamo anche che noi all’alba usciamo da qui e arriviamo a piedi fino alla Via Emilia senza farci divorare dagli zombi, poi come lo intercettiamo il bus?”
Sempre se hanno posto per farci salire, ma questo discorso meglio non tirarlo fuori.
Ginone borbotta una risposta tra i denti, ma Pinuccio lo zittisce con una delle sue bestemmie.
Suor Maria si massaggia i quattro peletti che le spuntano dal mento e alza indice e medio pronta per il sermone. “Potremmo parcheggiare una macchina di traverso lungo la strada per obbligarli a fermarsi.”
Sì, come no! “E poi usciamo in sella ai nostri cavalli a volto coperto e spariamo a tutto spiano! Non siamo mica nel Far West.”
“Guarda che l’idea della Maria non è mica male!” Ginone le prende la testa tra le mani e le schiocca un bacio bavoso sulla nuca. “Lo dico sempre che sei un genio!”
“Beh certo, sono una donna.”
Ahia, questa brucia.
Pinuccio incrocia le braccia e butta fuori una sfiatata che sa di aglio. Una specie di sospiro alla Garibaldi, fiero dei suoi mille disposti a seguirlo nella sua impresa.
Mi sa che li ho persi. Impossibile fargli cambiare idea ora. “D’accordo, facciamo questa cazzata.” Tanto male che vada ci rimaniamo tutti secchi.

***

Il frinire dei grilli copre il rumore dei miei passi lungo il vialetto d’accesso. In giro non c’è anima viva. E neppure morta. Il sudore mi scende lungo la schiena, un po’ per l’afa, un po’ per la strizza.
Gli ospiti dormono da un paio d’ore, è stata dura metterli a letto. Non li vedevo così eccitati da quando Mirko Casadei in persona ha suonato al capodanno del 2028. Ho gli incubi se ripenso ai vecchietti rugosi che si abbracciavano e strusciavano sulle note di ‘Romagna mia’. Quel tizio riuscirebbe a far ballare pure i morti, un pubblico numerosissimo per come si sono messe le cose ora. E pensare che ha pochi anni più di me… Chissà se gli piace davvero suonare quella robaccia o se lo fa solo per i soldi.
Prima che sorga il sole devo trovare un’auto funzionante, così saremo più al sicuro durante gli spostamenti e avremo già il mezzo per bloccare la Via Emilia.
Mi acquatto dietro al tronco di uno degli ulivi nel cortile antistante la struttura e aspetto che un cane randagio prosegua per la sua strada. A giudicare dalle ossa sporgenti deve essere ancora vivo, anche se non durerà molto se continua così. Si allontana con passo malfermo e sparisce oltre l’angolo di un edificio di mattoni.
I palazzoni qui intorno mi limitano la visuale. Dentro uno qualsiasi di quei vicoli potrebbe esserci uno zombi in attesa del suo pasto. Devo stare attento, i miei vecchietti non ce la possono fare senza di me. Sono l’unica cosa che mi resta in questo mondo allo sbando. L’unica ragione per tirarmi su dal letto ogni mattina.
Supero un palo della luce fulminato per raggiungere la strada principale. Mi aggiro tra le auto parcheggiate, ho bisogno di un modello vecchio, di quelli immortali tipo la mia vecchia Panda che si accendeva anche dopo un mese sepolta dalla neve.
Un rumore sulla destra mi fa quasi pisciare addosso dalla paura. È il cane di prima. Sta ringhiando in direzione di un’ombra. Lascia perdere, non puoi trovarci niente di buono nascosto nel buio.
Vorrei fischiare per farlo scappare via, ma non posso rischiare di attirare l’attenzione su di me.
Il cane indietreggia di qualche passo e tende i muscoli delle zampe posteriori. Dall’ombra esce un gatto nero a cui manca metà della testa, il cranio fracassato sembra budino andato a male. Dallo stomaco gocciolano umori scuri. Il pelo si rizza e si gonfia, non miagola, non soffia, ma è chiaro che è incazzato e che se la prenderà con il cane.
“Fila via!” Batto il piede a terra e il randagio segue il mio consiglio all’istante.
Il gatto zombi no.
Mi fissa con l’unico occhio che gli è rimasto e si lecca il labbro superiore. Mi sa che ho appena fatto una cazzata. Mi metto a correre lungo la strada illuminata da qualche lampione ancora funzionante. Figurati se riesco a scappargli! Quello caccia roba molto più sveglia e veloce di me. L’unica possibilità è nascondermi dentro una macchina e sperare che non abbia voglia di aspettare che esca.
Mi attacco alla maniglia di una station wagon che non si apre. Passo all’Opel parcheggiata subito dopo. Niente, neanche questa, porca vacca!
Dove si è cacciata quella bestia di Satana? Potrebbe essere ovunque e non riuscirei mai a vederla. Mi guardo intorno e il sudore mi pizzica gli occhi. Aspetta, ma quello è un bagagliaio aperto? Sì, sette o otto macchine più avanti c’è la mia salvezza!
Scatto per raggiungerlo. La suola delle scarpe batte all’impazzata sull’asfalto, sto facendo un casino assurdo, ma a questo ci penserò dopo.
Mi mancano solo un paio di metri, ma qualcosa mi si infila tra i piedi e rotolo a terra. Sbatto la mano e dei sassolini mi si conficcano nel palmo, per non parlare delle ginocchia che strisciano sull’asfalto ancora tiepido. Sollevo la testa e il gatto e lì che mi studia con quel suo unico occhietto giallo. Mi alzo in piedi, fa male dappertutto.
“Stai buono, micio.” Muovo un passo indietro. “Buono buonino, e ti prometto una bella scatoletta di cervello di tonno, okay?”
Il gatto si accuccia, pronto a balzare.
Non gli do il tempo, mi volto, due falcate e salto dentro al bagagliaio aperto. Lo so che adesso sentirò il suo peso sulla schiena, che mi morderà il collo, poi l’orecchio e poi il naso! Mai dare le spalle a un gatto zombi!
Sbatto il fianco contro il fondo del bagagliaio, afferro il cordino che sporge sopra la mia testa e chiudo il portellone.
Silenzio, interrotto solo dal mio cuore che batte all’impazzata.
Mi rigiro nel poco spazio a disposizione.
È riuscito a entrare? Sembra di no.
“Porca vacca!” Soffio fuori tutta l’aria che ho trattenuto e mi scappa una risatina isterica. Ce l’ho fatta!
Appoggio la nuca e chiudo gli occhi per un secondo.
Ma cos’è questa puzza? Odore di marcio e sono sicuro di non essere io. Dev’esserci qualcosa di andato a male qui dentro.
Tiro un calcio alla copertura sopra la mia testa e sguscio fino ai seggiolini posteriori. Dev’essere una specie di SUV, nella mia Panda una manovra del genere non sarei mai riuscito a farla.
L’odore qui è ancora peggiore. La luce dei lampioni entra a malapena dai vetri oscurati, una torcia mi farebbe comodo. Muovo a tentoni la mano sui tappetini, se non levo subito quello che provoca questo fetore, passerò le ore che mi separano dall’alba vomitando. Scorro le dita su qualcosa di putrido. Il pollice affonda in una sostanza morbida e la puzza aumenta. Allungo anche l’altra mano per cercare di spostarlo alla luce.
Oh, cazzo! È un braccio, un braccio marcito! Lo sbatto contro il finestrino imbrattandolo di putridume. Spero solo che il proprietario non sia ancora qui…
Sporgo la testa sui sedili anteriori. In quello del passeggero è fissato un seggiolino da neonato. Un nodo mi stringe la gola. Deve essere morto per forza: morto e risvegliato zombi o divorato dal proprietario del braccio.
Scavalco fino al lato del guidatore. La chiave è inserita nel quadro. Una fiammella di speranza mi si accende nel petto. Forse il proprietario del veicolo ha fatto in tempo a slacciare la cintura del bambino e se l’è data a gambe. Potrebbe essere un buon segno, no? Sì, certo. E perché sarebbe dovuto scappare a piedi quando poteva accendere la macchina?
Tiro un pugno contro il volante. Mi sento così impotente, non posso fare nulla per il piccoletto.
Però posso aiutare Ginone, Pinuccio e suor Maria.
Stringo la chiave e la giro nell’accensione. Il motore tossisce due volte e si mette in moto. Grande! Accendo i fanali e guido fino alla RSA.

***

Sorseggio il caffè bollente, appoggiato con i gomiti al tavolo della cucina.
Ginone ha riempito una sporta di patatine e merendine, per arrivare all’ora di pranzo, dice.
Suor Maria ha tirato fuori da uno scatolone i suoi bastoni da trekking nonostante le abbia ripetuto dieci volte che l’auto è posteggiata qui sotto e che non ci sarà da camminare.
Pinuccio invece, dove si è cacciato? Dobbiamo andare.
Lascio la tazzina sul tavolo e vado verso la sua camera. L’uscio è aperto e lui se ne sta in ginocchio davanti al letto con un crocifisso stretto tra le mani. E chi l’avrebbe mai detto che un bestemmiatore scafato come lui fosse anche l’unico ad avere ancora fede?
Busso con le nocche sullo stipite. “Sei pronto, Pino?”
Lo aiuto a tirarsi su e raggiungiamo gli altri.
RSA degli Ulivi... Sei stata molto più di una casa per tanti, tanti anni, ma se non saliamo su quel bus sarai anche il nostro cimitero. Quindi addio.
Mi appoggio l’indice sulle labbra e scendiamo le scale.
L’auto è dove l’ho lasciata stanotte, accanto a un cassonetto ribaltato. Aiuto Pinuccio a salire davanti e gli altri due si infilano nei seggiolini posteriori. L’odore di ammoniaca copre ogni sentore di marciume e morte. Non potevo caricarli in un immondezzaio. Deformazione professionale, immagino.
Metto in moto e partiamo, nessuno apre bocca per tutto il tragitto.
Ci immettiamo su Via Emilia che l’alba ha già terminato il suo spettacolo di colori e fermo l’auto con il muso per metà nella corsia opposta.
Ginone batte sul finestrino con un dito. “Avete visto là in fondo?”
A circa duecento metri da noi, un gruppo di zombi è ammassato al centro della strada.
Boiaduncanleder” Pinuccio si tira uno schiaffo sulla coscia “Adesa sa fammia?”
Eh, che si fa? Il bus non si fermerà mai con quel gruppo di zombi così vicino, sarebbe troppo pericoloso per i passeggeri.
Suor Maria sbuca dai sedili dietro. “Dobbiamo attirarli via dalla strada.”
“No, è troppo pericoloso,” sbotto.
“Leo,” Pinuccio mi stringe il polso. “Ha ragione lei, è l’unico modo.”
Lo so, ma significa che qualcuno deve fare da esca e non mi piace per nulla.
Oltre una curva, sulla strada deserta, spunta il bus verde. È già qui, non c’è molto tempo.
Come faccio a scegliere, però?
Suor Maria non me la sento di mandarla a rischiare di morire senza aver mai trombato in tutta la sua vita. Pinuccio con il problema alle articolazioni che si ritrova non riuscirebbe a far allontanare abbastanza gli zombi, e di certo Ginone non è un maratoneta.
Io sono l’unico che può sperare di farcela.
Apro la portiera e scendo dall’auto. “Mi raccomando, ragazzi, fate a modo!”
Prima che qualcuno possa farmi cambiare idea mi metto a correre verso il branco di zombi per attirare la loro attenzione. Corpi marcescenti in giacca e cravatta, salopette da lavoro e tute da ginnastica. Cadaveri che hanno ancora qualcosa da fare in questo mondo, fosse anche solo rompere i coglioni a me.
Alzo le braccia e le agito. “Ehi, che ne dite di una colazione tipica Emiliana?”
Sollevano da terra orbite vuote e sguardi marciti, e cominciano a trascinarsi verso di me.
Potendo scegliere forse avrei preferito diventare cibo per il gatto nero.
Il bus rallenta fino a fermarsi con uno stridio di freni. La portiera si apre e una donna con una treccia salta giù e fa segno di avvicinarsi. Suor Maria le va subito incontro, mentre Ginone apre lo sportello del lato passeggero e aiuta Pinuccio a scendere dal SUV.
Devo guadagnare ancora qualche istante.
Gli zombi si muovono come un’onda e puntano su di me. Mi fermo a bordo strada, devo convincerli che sono una preda facile. Si avvicinano, le gambe mi tremano, stringo i pugni per non scappare come un idiota e rovinare tutto.
Uno stronzo con gli intestini penzolanti però si stacca dal gruppo e si dirige verso il bus.
Dove pensa di andare? “Sono qui! Dove cazzo guardi?” Niente da fare. Non mi dà retta.
Devo fermarlo, a costo di passare in mezzo al branco di morti.
Finto verso destra e balzo dal lato opposto, ma dita smaltate di nero mi agguantano il braccio. Spingo via la ragazzina vestita da goth, la mano rimane stretta su di me, ma la spalla si strappa dal corpo in putrefazione. Un vecchio con il gilet spalanca la bocca sdentata e si fa avanti per azzannarmi. Gli rifilo un manrovescio e me lo scrollo di dosso.
Maria e Pinuccio sono spariti all’interno del bus, manca solo Ginone.
Lo zombi con gli intestini di fuori però lo ha quasi raggiunto.
“Lascialo in pace!” Supero altri due zombi che procedono affiancati con il bacino fuso in una poltiglia di sangue e membra e carico con una spallata quello che sta puntando Ginone. Il mostro si schianta a terra con un rumore di minestrone vomitato nel cesso.
Il povero Ginone ricoperto di sudore salta sul gradino del bus e viene tirato all’interno.
Manco solo io.
Da dietro il finestrino Pinuccio batte il pugno e urla qualcosa che non riesco a sentire.
Uno dei morti mi ghermisce le spalle e mi tira a terra. Cazzo, mi sono già addosso! Colpisco l’asfalto con la schiena e mi si spezza il fiato. Gli zombi mi assalgono, mordono, graffiano e mugugnano. Cerco di rotolare di lato, ma sono troppi, non riesco a farmi spazio. La puzza dolciastra della decomposizione mi serra la gola e il dolore mi costringe a gridare.
Il motore del bus ruggisce. Le ruote cominciano a muoversi sull’asfalto.
Se non se ne vanno subito gli zombi bloccheranno la strada...
Decine di facce, vecchie e giovani, guardano la scena inorridite.
Ci sono anche Maria e gli altri ragazzi, qualcuno li sta trattenendo, forse vorrebbero scendere a salvarmi.
Teneteli al sicuro voi, ora, che qua fuori è un brutto mondo.



Traduzione del dialetto:
“Catvenagninta, Ginone!”: Ti venisse niente, Ginone.
“Zugher teg l’è un suplizzio!” Giocare con te è un supplizio.
“A m'è beli paseda la voja ed zugher.”: Mi è già passata la voglia di giocare.
“A vag in dla me cambra.”: Vado nella mia camera.
“Muoviti, corri! Vin a seinter!”: Muoviti, corri! Vieni a sentire!
“No, sa fet!”: No, cosa fai!
“Cajaun, ma secand te?”: Coglione, ma secondo te?
“Boiaduncanleder”: Boia di un cane ladro, esclamazione colorita.
“Adesa sa fammia?”: Adesso cosa facciamo?

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M.M
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Re: Finalissima!

Messaggio#3 » venerdì 14 febbraio 2025, 9:35

Versione leggermente rivista.

IL POTERE LIBERATORIO DEL TAFANO
di M. Maponi

Frankie, che poi si chiama solo Francesco, ne è sicuro. Il caldo ci salverà.

Io ho i miei dubbi. Soprattutto visto che mi tocca il turno di guardia di Porta Montana all’una spaccata di un lunedì d’Agosto. Lato positivo: è il punto più fortificato del perimetro.
Lato negativo: la mia razione d’acqua sa di brodo e sto sudando come un animale.

Gli Z il sudore lo sentono. Si affannano sulle mura inclinate di Macerata, scivolano nel loro stesso liquame, mugolano. Mugolano constantemente.

La puzza di carne marcia sulle mura permea tutto. Ricordo quando mia madre si dimenticò una fettina di manzo sul tavolo della cucina e dopo due ore tutta la stanza era piena di quel puzzo molle. Ora quella fettina ce l’ho sempre nel naso.
Lato positivo: questo fatto dell’odore ti fa passare la voglia di mangiare carne. A dirla tutta ti fa passare la fame. Ed è un bel life hack considerando che Just Eat non funziona più tanto bene.

Mi appoggio su un merlo di pietra per guardare di sotto. C’è una signora coi capelli platinati in testa al gruppo. Le sue mani grige trovano un appiglio su un mattone, e per un attimo sembra che riuscirà a issarsi, poi i muscoli putridi si sfanno e il braccio si lacera sotto il peso della carne marcia. Gli altri Z la tirano giù nel tentativo di scavalcarla. Per un attimo il braccio rimane attaccato al muro, poi cade anche quello.
Non sono proprio un collaborativi, gli Z.

Faccio una conta delle teste. Trenta, trentacinque… la tanica di benzina rimane lì a guardarmi. Il collettivo universitario è stato chiaro: per meno di cinquanta Z, niente grigliate. Torno al mio piccolo spazio fresco sotto l’ombrello di Peppa Pig che ho saldato a uno dei merli di Porta Montana. Non piove da due settimane. I barili di raccolta se lo sono scordati, com’é fatta l’acqua. Al Roxy Bar si puntano scommesse su quando inizieranno i temporali estivi: io ho puntato una scatola di preservativi su Agosto ventitrè. Mi rendo conto che sono un pessimo giocatore d'azzardo. Invece di usare il cervello mi sono fatto fregare dalla mia speranza di un acquazzone.

Siamo al diciotto Agosto. Il cielo è terso come in uno spot Algida. Mi bollono i piedi nelle scarpe e ho nostalgia di quei tormentoni dell’estate e delle ragazze in infradito a Rimini.

Frankie, che la sa lunga, ha puntato sul dieci Settembre. Dice di fidarsi, che i temporali arrivano dopo. E che è meglio se il riscaldamento climatico li sposta ancora più in là. Dobbiamo dire grazie, dice. Dobbiamo dire grazie a questo caldo boia.

Perchè la carne si sfascia e le mosche sono felici. In effetti molti degli Z là sotto sono pieni di vermi. La signora che ha tentato la scalata doveva essere un bel po’ fraccica, per perdere il braccio così. Quindi, dice Frankie, l'estate è una manna, dobbiamo solo aspettare che l’orda marcisca del tutto.

Una mosca mi si posa sul braccio e lappa freneticamente il mio sudore con quella piccola proboscide. La schiaccio con una manata senza neanche provare a sorprenderla. Non si sposta. Non frinisce nemmeno mentre la spappolo. Eccolo, il problema nella grande predizione di Frankie. Almeno metà di queste mosche sono già morte, e le uova non le fanno.

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Se fossimo ancora in gloria di dio diremmo che è una fortuna trovarci in una città con delle mura. Io e gli altri studenti fuorisede che non siamo tornati a casa, che dovevamo rimanere per la sessione estiva, prima che scoppiasse sto casino.
Se fossimo ancora in gloria di dio, non ci riuniremmo in chiesa solo perché ha le pareti spesse e dentro c’è quell’aria da cripta che fa star freschi.

La cattedrale di San Giovanni Battista è ancora bianca dentro, pulita, la puzza la portiamo dentro noi. Io sono venuto diretto da Porta Montana, con tanto di sudore e lancia improvvisata: un manico di scopa con uno dei coltelli presi dal negozio di armi di Piazza Mazzini. Regole nuove: non si gira disarmati. Alice presidia la riunione con i suoi delicati occhiali rotondi a cui manca una lente. Vicino a lei la tutor dell’accademia di belle arti che traduce in cinese per i sopravvissuti ancora più fuorisede di me. Sparsi per le panche le varie teste dei nostri compagni di sopravvivenza, o almeno quelli che non sono impegnati nella ronda sulle mura. Abbiamo pure due preti. Don Pablo che ancora porta la tonaca e Don Pino, in pantaloncini e birkenstock, ormai indistinguibile da un bidello e con la stessa spocchia. E ovviamente c’è Frankie, spatasciato in prima linea con una mazza da baseball tra le gambe.
Un anno fa quand'eravamo matricole mi parlava, ubriaco, del futuro che il padre aveva deciso per lui al calzaturificio. L'università era l'ultimo trienno di libertà.

Ma l'epidemia ci costringe a un periodo sabbatico, eccolo lì a lanciare occhiatine a due studentesse di Lettere. Frankie ci sguazza, nell’apocalisse.

Alice fa finta di non vederlo. Legge la lista delle provviste con la stessa sobrietà con cui contiamo i morti. La camicia di lino che indossa è ingiallita sul collo. Fossimo in gloria di dio, saremmo in una città con un fiume. Invece dobbiamo discutere ciclicamente di una possibile spedizione all’acquedotto che non si farà, non si può fare, perchè vorrebbe dire correre per un’ora in salita con l’orda attaccata alle chiappe.

Ho una forte sensazione di déjà vu. Senza il collettivo universitario a organizzare queste riunioni cadenzate saremmo tutti animali, ci scanneremmo a vicenda per dividerci i resti dei supermercati. E invece abbiamo l’ordine, l’ordine che centellina le preziosissime bottiglie rimaste e gli spaghetti da ammorbidire nella saliva. L’odore in chiesa è quello della calce, dell’incenso e del salato dei corpi vivi. Mi viene quasi da addormentarmi, tanto è rilassante questa routine.

Ma Alice si schiarisce la gola e questo sa di pericolo.

«Ora, passiamo alle novità... c'è una notizia importante.» La parola "importante" passa come una scossa elettrica nella navata quasi deserta. Mi alzo e mi vado a sedere vicino a Frankie, che ha rinunciato a puntare le studentesse e fa cerchi con il dito sul pomello della mazza. «Il punto di comunicazione al comando dei carabinieri ha ricevuto un messaggio radio, stamattina.»

Frankie mi guarda e fa, a voce bassa ma non così bassa: «C’é ancora l’ordine costituito. Semo salvi.»

«Era una frequenza amatoriale. Da Rimini. Diceva che sta passando un bus di sopravvissuti. Dovrebbero arrivare domani.»

C’é tanto silenzio che posso sentire un moscone impazzito battere contro una vetrata.

«Provviste, ne hanno?» fa Don Pino. «C’è da aprirgli i cancelli?»

«No. Dicono di non voler entrare.» Alice si passa la lingua sulle labbra nel tentativo inutile di inumidirle. «Chiedono se qualcuno vuole unirsi a loro.»

Non ho mai superato Analisi, ma le operazioni basilari le so fare ancora. Nel centro di Macerata ci sono cento sopravvissuti, alla conta attuale. Il bus dovrebbe essere guidato da un fantasma per farceli stare dentro tutti. Ma forse questi di Rimini lo sanno già. Alzo la mano.

«Cos’é, una gita fuori porta?» Reazione abbastanza arida, nemmeno una risatina. Pubblico difficile.

«No, è una possibilità per chi vuole andarsene.»

«Andarsene dove?»

Da Alice riesco solo a ottenere un silenzio greve. Si alza don Pablo con un fruscio pesante di tonaca. «Questa è una notizia bellissima,» dice, nel suo accento sudamericano. «Vuol dire che ci sono ancora persone vive, che vogliono vivere.»

Penso alla mia postazione su Porta Montana con l’ombrello di Peppa Pig e non so se valga davvero la pena scambiarla per il sedile incancrenito di un bus.

«In ogni caso, il collettivo vuole che ognuno si senta libero di scegliere se andare o restare. Il bus passerà lungo i viali domani pomeriggio, sopra ai giardini Diaz. Se qualcuno vorrà salire...»

Se qualcuno vuole salire, dice il sottotesto, ci toglie dai coglioni un po’ di bocche.

Ma forse questo lo penso solo io. Me lo dicevano sempre, alle superiori, che sono uno stronzo. La verità è che un commento del genere me lo aspetto da Frankie, ma è immobile, non gioca nemmeno più con la mazza, non si concede un sorrisetto nemmeno quando l’interprete cinese smette di tradurre e se ne va con le studentesse di Lettere. Trasfigurato, come uno di questi cristi appesi alle pareti. Vederlo riflettere per più di cinque secondi mi fa uno strano effetto d'irrealtà.

Gli dò uno spintone con la spalla, aiutato dalla panca di legno liscia. «Che c'hai, una paresi?»

Lui grugnisce qualcosa sui generis, tipo non rompere i coglioni. Due minuti fa scherzava sull'ordine costituito, ora questo. La mia preoccupazione si concretizza.

«Oh, non vorrai mica andare.»

«Se hanno benza, si può arrivare ad Ancona,» Sussurra lui.

«E dopo che vai ad Ancona?»

«Si prende una barca.»

Si alza e si allontana, trascinandosi dietro la mazza senza troppa convinzione.

Bravo coglione, vorrei dirgli. Così invece di crepare di sete qui, puoi farlo in mezzo al mare e ridere di quanto sia ironico. Ma forse è meglio non dargli troppo peso. Frankie è così, questa è come la sua idea sulle mosche, sono cose che dice e non pensa davvero; però lo dice in un modo, si comporta in un modo, che ti fa sembrare tutto possibile.

Alice mi guarda fisso per un po’ e le rispondo con un cenno del capo, lento.

#

Quella sera trasporto un carico di tesi di laurea ai ragazzi che fanno il turno di notte ai cancelli. Anche a voler risparmiare, c’é bisogno di fuoco e di luce, per assicurarsi che gli Z non si infilino tra le sbarre di ghisa della cancellata stile liberty. Le copertine in brossura delle tesi bruciano bene. Questa notte tocca alla sezione di economia, anni 1996-1997; il primo titolo a implorarmi con misericordia è “Analisi dell’impennata del dot com in vista del modello inflazionistico”, scritto da un certo E. Bernardini. Bernardini, se solo sapessi che la bolla del dot com è scoppiata del tutto. Dopo ci troviamo, con Alice.

Non so perché ma finiamo sempre per incontrarci sulle mura, ma dalla parte di Via Garibaldi. Anche con la puzza di carne marcia c’é qualcosa di romantico a vedere l’orizzonte dei colli tingersi di rosso e poi di nero. Alice ha una bottiglietta d’acqua da mezzolitro e due fazzoletti. Ne bagna uno con cura, se lo passa attorno al collo, poi mi offre la bottiglia così che possa fare lo stesso.

Ho appena il tempo di grattarmi via il peggio dalla nuca che lei si toglie il peso dal cuore.

«Ci hai pensato?»

Appoggio la lancia improvvisata contro il parapetto, poi mi siedo sul muro. Uno Z in ciabatte, sotto di noi, barcolla tra le macchine rivoltate e mugula come un gatto triste. «Sarebbe meglio portare il bus fino a Piediripa e fare provviste al centro commerciale. Ma mettersi in strada per andare più lontano…»

«Roba da pazzi.» La sua mano trova la mia sul cornicione.

#

Le notizie girano in fretta a Macerata. Sarà che siamo rimasti in cento. Sta di fatto che nel caldo torrido delle tre di pomeriggio ci sono venti persone lungo il tratto di mura che dà sui viali. Il rumore di motore che si sente in lontananza è come una promessa, ma è anche un cazzo di problema.

Lo sentiamo noi come lo sentono gli Z. Mi cade la mano sulla tanica di benzina. Don Pablo mi ferma prima che possa innaffiare un po’ di teste marce per la grigliata. «Aspetta.»

La strada è libera, se non fosse per la valanga di carne morta. Di aprire la barricata di Porta Montana per far passare gente non se ne parla, oggi. C’è ancora un accesso a scalinata che abbiamo bloccato con tre credenze. Con tutti gli Z sbavanti là sotto, scendere è come comprare un abbonamento alla morte.
Lo so io come lo sanno tutti, ma comunque gli spettatori rimangono a guardare, ondeggiando come cipressi. Tolgo la mano dalla tanica.

Finalmente si vede il bus. Del colore verde acceso originario sono rimasti solo alcuni sprazzi di vernice; il resto è metallo grigio e rinforzi improvvisati tenuti insieme da saldature d’occasione e giri su giri di corda elastica. Lo vedo entrare in derapata per infilarsi tra un pulmino Iveco e il cadavere di una moto arrugginita, tirare sotto due vecchi già marci, e sfrecciare tra gli schizzi di carne putrida. La folla sugli spalti si agita. Riusciamo a malapena a vedere il guidatore, un uomo brizzolato in cannottiera. Non può fermarsi. Se il bus perdesse inerzia, non riuscirebbe più a ripartire. L’orda di Z, attratta dal rumore, si lancia contro le ruote con convinzione. Male che vada ci avran fatto un gran favore a ripulire questo pezzo di città.

Veloce com’é arrivato, il bus scompare oltre la curva che porta ai cancelli. Anche quelli li troveranno chiusi.

«Faranno il giro.» Don Pablo ha una sicurezza che può solo avergli dato dio. «Chi vuole salire deve farsi trovare giù…»

«C’è il sottopassaggio degli ascensori.» lo dico quasi senza riflettere. «Porta al tunnel che sbuca ai giardini Diaz. Da lì c’é la vecchia stazione degli autobus, magari c’é più spazio per fermarsi.»

Il vano degli ascensori è chiuso solo dalle porte tagliafuoco. Ovviamente gli ascensori non funzionano più, ma ci sono le scale. L’abbiamo lasciato libero come uscita d’emergenza, anche perché il tunnel che passa sotto la città non ha odore e gli Z non riescono a fiutarci a distanza di due porte e quattro rampe di scale. Ma la situazione ai giardini non ho idea di come sia.

Una ragazza dell’accademia mi fissa come se dovessi guidarla io in quella scarpinata. Alzo le mani: io non voglio andarmene da qui. «Ma a quelli del bus chi glielo dice, di andare ai giardini?»

Non abbiamo ancora risolto che torna a sentirsi il rombo del motore. Siamo sul gran premio di Monza, solo che a competere c’é solo un bus rappezzato. Neanche il tempo di formulare il pensiero che vedo Frankie salire sul cornicione del muro. Mi guarda fisso, indica la mazza da baseball che ha lasciato lì a terra, poi annuisce.

«Frankie, che cazzo fai!»

«Li avviso io.»

Scosto Don Pablo e scendo giù dalla torretta di Porta Montana. Il rombo del bus si fa più vicino. Per strada sono costretto a fare slalom tra i fuggitivi, tutti a indecisi tra guardare le mura e raggiungere gli ascensori. Arrivo allo spiazzo del parcheggio, vedo Frankie da dietro, le ginocchia piegate, una specie di santo osservato dai suoi fedeli. Non l’hanno tirato giù. Allungo la mano proprio quando si sente un fischio di gomme.

Frankie salta.

Si sente un tonfo metallico, poi uno stridio. Sbatto contro il muro e mi tiro su per vedere. Frankie è sul soffitto del bus, è rotolato di schiena, e ora si tiene per miracolo all’antenna radio. Le gambe gli slittano via pericolosamente quando il mezzo sterza di nuovo verso i cancelli. Dagli spettatori si leva un coro di preoccupazione mista a sollievo.

«Testa di cazzo. Andate ai giardini, in fretta!» Sento che sto urlando e spingendo persone che neanche vedo in volto. Li conduco all’entrata degli ascensori, poi mi fermo, con il cuore in gola, di fronte alla porta tagliafuoco che si richiude.

Ho lasciato tutto sulla torretta di Porta Montana. La mia lancia, la benzina, Peppa Pig. E Alice. Alice, che coordina i sopravvissuti da Piazza della Libertà.

Torno a Porta Montana. Don Pablo è sparito. Mi sporgo oltre il parapetto, ma il parcheggio dei giardini non lo vedo bene, ci sono troppi alberi in mezzo. Dovrei salire sulla torre dell’orologio ma non farei mai in tempo. Il bus non ritorna. L’orda è ancora in frenesia, e gli Z che possono ancora camminare stanno defluendo. Alcuni invece allenano le mascelle sulla poltiglia informe che il bus si è lasciato dietro. Cinque minuti dopo sento di nuovo il suono di un motore in lontananza, ma non lo vedo passare.

Ormai sotto le mura ci sono solo poche teste marce. Non vale nemmeno la pena grigliarle. Raccolgo la mazza da baseball di metallo, ne sento il peso; cerco di immaginare Frankie che scivola dal tetto e si infila in un finestrino aperto del bus in corsa, come una specie di supereroe. O forse ha solo aspettato che gli aprissero le porte.

Devo crederlo lì, a guidare quelli di Rimini con la sua artistica nochalance. Lui è andato, e noi rimaniamo qui, ad aspettare il potere liberatorio del tafano.
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Daniele_picciuti
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Re: Finalissima!

Messaggio#4 » venerdì 14 febbraio 2025, 10:56

Linea 99

Nerone

Mi chiamano Nerone per un motivo.
Un paio di anni fa, pochi mesi dopo che l'epidemia è iniziata, incendiai una scuola elementare per bruciare tutti quei maledetti piedilenti che vi erano stati rinchiusi. Non ero stato io a imprigionarli, ma mi accorsi che le porte stavano per cedere, mentre fuori le strade erano pressoché deserte, e quindi sicure. Era una scuola di periferia e, si sa, gli zombie preferiscono appestare i grandi centri urbani, dove si concentra la maggior parte dei rifugiati. Così preparai una dozzina di molotov, una roba semplice da mettere insieme se non si ha paura di giocare con alcol e fuoco, e le tirai dentro le finestre.
Al mattino la struttura era ridotta a un rudere carbonizzato e quattro piedilenti in croce si aggiravano
per le strade bruciando come torce.
I compagni che mi aiutarono nell'impresa mi chiamarono Nerone, poi uno di loro mi parlò degli autobus verdi: gli zombiebus.
«Cumpà, manca ancora molto?»
La voce proviene da un tizio barbuto seduto ai primi posti del bus. È grosso e indossa una giacca blu con una camicia bianca infilata nei jeans, la pancia prominente sbalzata al di sopra della cintura. Ha una faccia che mi sembra di aver già visto. Ma dove?
«Circa mezzora» rispondo, imperturbabile.
Mi hanno insegnato a mantenere sempre la calma coi passeggeri. Salvarli è un conto, ti amano per questo, ma poi subentra l'ansia di arrivare in un posto sicuro, e quella è più difficile da trattare.
«Ma è davvero sicuro il posto dove siamo diretti?» domanda una donna seduta dietro di lui. È bionda, addosso ha un paio di pantaloni eleganti e una giacca beige. Ha pure una collana di perle al collo. Nonostante abbia il viso coperto di fuliggine, si vede che sotto è truccata. Dio, quanto è strana la gente! Pensava forse di dover andare a un ricevimento quando è uscita di casa stamattina?
Sospiro, squadrandola dallo specchietto centrale. «Stia tranquilla, è sicuro».
Davanti a me, in strada, si aggira qualche zombie, ma non è una minaccia. Difficilmente si avvicinano all'autobus, ormai hanno capito di non poter fermare un veicolo così grande. Non li vedi mai attaccare gli autobus, a meno che non si tratti di una mandria. Quelle fanno davvero paura.
Attraverso lo specchietto vedo un ragazzino con la felpa rossa alzarsi dal sedile e venire verso di me. Sto per rimproverarlo, ma Sadira mi anticipa e gli si piazza davanti.
«Seduto» gli ordina in tono pacato, come sempre. «Corri pericolo in piedi».
Il ragazzino si ferma e intuisco che vorrebbe opporsi, ma io so bene che effetto fa la giovane iraniana, con il suo look total black. Veste una maglia attillata e una lunga gonna entrambe di colore nero, indossa un hijab ed è un'esule. In Iran era perseguitata per motivi politici, ma la verità è che difendeva i diritti delle donne come tante altre nel suo paese. Condannata a morte, ha trovato rifugio in Italia pochi mesi prima che scoppiasse l'epidemia. Non parla benissimo la mia lingua, ma impara in fretta.
«Voglio parlare col conducente» fa il ragazzino con aria di sfida.
«Non si parla al conducente» risponde Sadira, gelida come un ghiacciolo. Le risposte automatiche le ha imparate tutte a memoria.
«Io voglio sapere dove stiamo andando!»
«Al sicuro». Sadira indica il sedile. «Ora siedi».
«Io...» ma il giovane non può finire la frase, perché qualcosa esplode – letteralmente – accanto all'autobus, o forse addosso all'autobus, e tutto inizia a tremare mentre vengo sbalzato di lato e tutto inizia a girare. E capisco che è il bus che gira. Qualcosa ci ha spostato.
Le urla dei passeggeri risuonano in mezzo a un caos fatto di vetri rotti, ruote che fischiano e l'autobus che gira su se stesso.
Guardo oltre il vetro per capire che sta succedendo e scorgo un'auto in fiamme. È quella che ci è venuta addosso? Dal modo in cui brucia, però, direi che non si è trattato di un incidente. Qualcuno ce l'ha spedita dritta addosso con un carico infiammabile all'interno. È un agguato.
Mentre l'autobus finalmente si ferma, mi rendo conto che il motore si è spento. Provo a rimettere in moto, ma l'accensione fa cilecca. Provo di nuovo, ma niente.
«Merda!»
I passeggeri hanno iniziato a urlare e a fare domande, e sento Sadira rispondere con le solite frasi di circostanza: andrà tutto bene, è tutto sotto controllo, mantenete la calma.
Puttanate, in realtà, ma fa parte dell'addestramento che abbiamo ricevuto.
La Grazie Roma Autolinee, altrimenti detta GRA, è solo una delle tante che sono nate sul territorio italiano dopo l'epidemia, ma a differenza di molte ha una direttiva primaria: formare autisti e controllori in cinque discipline fondamentali, ovvero la guida esperta, il pronto soccorso, la meccanica, il combattimento corpo a corpo e l'uso di armi da fuoco.
Per questo afferro il fucile da sotto il sedile e mi slaccio la cintura di sicurezza.
«Ascoltate tutti!» esclamo, piazzandomi in mezzo al corridoio.
Ottengo immediatamente il silenzio che volevo e gli sguardi di tutti si concentrano su di me.
«L'autobus non parte, devo scendere a controllare il motore. Ho bisogno che ora manteniate la calma. Sadira» con un gesto della mano indico la mia collega «scenderà con me, per coprirmi le spalle. La porta si chiuderà dietro di noi, voi rimanete seduti e calmi».
«Non vi serve una mano?» fa il tipo con la barba, prolungando la “o” finale. «Se avete un'arma in più, io posso sparare». Lo fisso senza rispondere. Dov'è che ho già sentito quella parlata?
«È tutto sotto controllo» ripete Sadira, come un mantra.
I passeggeri iniziano a mormorare, ma sono abbastanza spaventati da obbedire.
Do un'ultima occhiata all'esterno per sincerarmi di quali siano i pericoli e scorgo immediatamente i primi piedilenti che si avvicinano. Ma nessun essere vivente.
Apro le porte e Sadira esce per prima. Si è già armata con una pistola e un'accetta.
Fuori, la macchina che ci ha colpiti brucia sollevando calore e una gran quantità di fumo, che in parte copre la nostra visuale su quel tratto di strada. Sta anche attirando i piedilenti nella zona e presto qui pullulerà di creature affamate e puzzolenti.
Giro dietro all'autobus, mentre Sadira mi copre le spalle, e subito noto che tutto il lato destro della parte posteriore è rientrata e annerita dal fuoco.
«Brutta situazione» mormora lei.
Apro il cofano e le gambe mi diventano di gelatina. «Davvero brutta» confermo. Il motore ha subito troppi danni per poter essere riparato. Di certo, non ora e non qui.
«Protocollo evacuazione?» fa Sadira, notando il mio sgomento.
«Eh, cazzo, sì».
Lei estrae la ricetrasmittente dalla borsa che porta a tracolla. «Caserma, qui Linea 51, mi sentite?»
Nessuna risposta.
Le riservo uno sguardo rassicurante. «Riprova».
«Caserma, qui Linea 51, mi sentite?»
Ancora niente.
«Dai a me». Quasi le strappo l'apparecchio di mano, cosa che la fa trasalire. Non ama essere toccata, per via del suo passato di abusi, perciò mi scuso con lo sguardo. «Caserma, sono Nerone! Cazzo, rispondete! È urgente!»
Solo il ronzio di fondo.
«Strano» mormora lei «nessuno risponde».
Provo ancora, ma dall'altra parte si ode solo il ronzio di fondo.
«E ora?» fa lei. Nonostante non lo sembri, so che è preoccupata.
«Non mi piace per niente». Vengono a galla nella mia testa mille assurde teorie circa un complotto organizzato e mirato alla distruzione delle Autolinee GRA. Forse le voci erano vere, dopotutto. D'altronde nei parcheggi della Caserma sono fermi in sosta almeno cinque autobus e altrettanti sono in giro per Roma in questo momento. Se qualcuno riuscisse a conquistare la Caserma, metterebbe le mani sull'intera città. Comunicazioni, commercio, sicurezza... tutto ciò che conta insomma.
Restituisco l''apparecchio a Sadira, che lo ripone nella borsa.
«La linea più vicina?» mi chiede.
Faccio mente locale. Siamo in Corso Vittorio Emanuele II e Largo Argentina non è distante, ma la linea 37 ormai avrà già chiuso il suo giro.
«La 99».
Lei sgrana gli occhi. «La 99 è oltre fiume?»
«Sul Lungotevere, sì. Dobbiamo dirigerci verso Campo de' Fiori, arrivare fino a Ponte Sisto e poi attraversarlo».
«Linea più pericolosa. No altre?»
«No, purtroppo». Alzo lo sguardo al cielo, che a ovest inizia a tingersi d'arancio. «Noi e la 99 siamo gli unici a rientrare al tramonto. Abbiamo più o meno un'ora per arrivare alla fermata. Possiamo farcela».
Sadira non sembra convinta.«Se noi chiudiamo dentro bus e muoviamo alba?»
«Dimmelo tu». Mi guardo intorno. I piedilenti si stanno moltiplicando e tra poco saranno troppo vicini per scappare. Chiunque ci abbia teso l'imboscata, ora si starà godendo lo spettacolo. Forse pensano di poter risparmiare i proiettili lasciando a questi zombie il piacere di farci a pezzi.
Sadira aggrotta la fronte, poi il suo sguardo si allarga. «Tu pensi che macchina esplosa era trappola» realizza.
«Già».
«Pensi a Squadrone Nero?»
Annuisco. È esattamente ciò che penso. I maledetti Squadroni Neri sono gruppi armati di gente fuori di testa che depreda e uccide gli altri gruppi di sopravvissuti, specie se in numero ridotto o male armati. Non assaltano quasi mai le autolinee, ma se lo hanno fatto e se anche la Caserma è fuori gioco, allora è chiaro cosa abbiano in mente.
Lei fa un sospiro. «Evacuiamo».
Torniamo sui nostri passi e riapro le porte azionando la leva d'emergenza.
Com'era prevedibile, quando do la notizia ai passeggeri si scatena il panico. Ripeto che il motore è andato, che non posso ripararlo e che probabilmente saremo attaccati da squadre di gente armata da un momento all'altro. Il caos aumenta.
Ci sono sedici passeggeri a bordo, davvero un piccolo record in termini di salvataggio, ma che tutto potesse finire in malora non l'avevo proprio considerato.
«Signori, per favore!» grido, cercando di sovrastare il clamore. «Attirerete i piedilenti! Dobbiamo andare via, adesso!».
«I piediche?» fa il barbuto, arricciando un labbro in una specie di smorfia.
«I fottuti zombie» ripeto, in modo più chiaro. Eppure la sua faccia, la sua voce... io le conosco.
«Chiudiamoci dentro!» protesta la signora elegante. «Chiamate aiuto! Non avete una ricetrasmittente?»
Ecco il tasto dolente.
«Signora, purtroppo non risponde nessuno. Riproveremo più tardi, ma per ora dobbiamo muoverci».
«Col cavolo!» fa il ragazzino con la felpa rossa.
Prima che io possa davvero incazzarmi, una raffica di colpi si abbatte sui finestrini, mandando i vetri in frantumi. Vedo cadere quasi tutti i passeggeri che sono sul lato sbagliato del bus, altri si gettano a terra in mezzo al corridoio, altri ancora si arrampicano sui sedili davanti ma vengono falciati lo stesso.
Lo sguardo scende sul cadavere vestito di rosso in mezzo al corridoio. Il giovane ha la testa spappolata.
«Via, adesso!» grido, ma quel punto decido che ognuno sarà responsabile per sé. Mi precipito verso l'uscita e mi fiondo all'esterno col fucile spianato, perché i primi zombie sono già davanti a noi.
Apro il fuoco, così come fa Sadira, che esce subito dopo di me.
Conosco bene la zona, quindi so esattamente dove dobbiamo passare.
Nei film, in situazioni del genere, c'è sempre il leader carismatico pronto a vender cara la pelle pur di portare tutti al sicuro. Be', su quel dannato autobus, vi potete giocare il culo che Nerone è quel leader carismatico. Ma qui fuori, a piedi, tra i piedilenti affamati e i pazzi armati in vena di farci la pelle, Nerone è solo uno dei tanti.
Quindi scappo, senza nemmeno voltarmi.
Mentre corro, mi accerto solo che Sadira sia dietro di me, ed è così. Svolto per le viuzze che conosco, saltando i cumuli di spazzatura e facendo lo slalom tra le carcasse di vecchie auto e cassonetti bruciati. Correre sui sampietrini non è una passeggiata, ci sono fessure e buchi dappertutto, e inciampare è più facile che respirare.
Dopo un tempo indefinito sbuchiamo a Campo de' Fiori. Qui, un tempo c'era un mercato variopinto pieno di turisti e spazzatura ammucchiata in sacchi dietro ai banchi di vendita. Ora ci sono piedilenti ammassati in pile di cadaveri bruciate e altri che vi si aggirano attorno con fare sperduto. A quel punto mi fermo, decidendo di guardarmi indietro.
Resto basito nel rendermi conto che, oltre a me e Sadira, ci sono solo altre cinque persone, tra cui l'uomo con la barba e la donna elegante. Gli altri tre sono una famiglia: padre, madre e un figlio dodicenne che non ti guarda mai in faccia e non parla. A naso direi che ha qualche problema, forse è nello spettro, o ha un leggero ritardo. Nella mia vita precedente ero un insegnante, ne ho visti di ragazzi come lui. È incredibile che sia sopravvissuto fino a oggi.
«Lei sa dove andare?» fa il padre con l'aria smarrita.
«Alla Linea 99» spiego, in fretta «ma dobbiamo attraversare Ponte Sisto prima del tramonto».
«Ma chi ci ha sparato?» domanda la donna elegante. Ha il fiatone, ma questo non le impedisce di parlare, né di guardarmi storto, come se fossi stato io a premere il grilletto.
«Della brutta gente» rispondo, mentre il tizio barbuto, accanto a me, prende lunghe boccate di ossigeno. Nonostante la mole, ha tenuto il passo. Vedo che si guarda intorno con fare disgustato.
«Uagliò, ma vi rendete conto?» fa con la sua calata napoletana «qua un tempo potevi comprare verdura fresca, carne di quella buona, alta, gustosa... ci facevi dei piatti che... mwa!» fa il gesto del bacio con le mani.
«Cannavacciuolo!» esclamo a un tratto, illuminato.
Una raffica taglia l'aria e fitte lancinanti mi squassano l'addome. Crollo al suolo con il sangue che mi invade la gola e mi ritrovo a fissare gli occhi vacui dello chef stellato, stramazzato a terra accanto a me. Maledetti Squadroni Neri...

Elena

Sono figlia di un industriale e nella vita ho sempre avuto tutto, cosa che mi ha causato non pochi problemi, dal momento che non avevo bisogno di lavorare. Cene eleganti, ricevimenti in antichi palazzi d'epoca, viaggi all'esterno nei migliori hotel, estati in Costa Smeralda o a Maiorca, e insomma, capirete quanto può essere difficile per me essere riuscita ad adattarmi a questo nuovo mondo, fatto di morte e di terrore.
Papà non era in Italia quando l'epidemia è esplosa, ma a Dubai per un viaggio d'affari. Non so dire, perciò, se sia ancora vivo, dal momento che questi mangiacervelli sono stati circoscritti alla sola penisola italiana.
Buffo, vero?
Francia, Austria, Svizzera e Slovenia hanno chiuso i confini, letteralmente, costruendo muri e altre strutture di sicurezza. Non c'è strada che possa portare qualcuno fuori dall'Italia e ovviamente porti e aeroporti sono stati blindati dal governo. So che alcuni hanno tentato di valicare le montagne, ma ci sono ronde militari Nato lungo tutto il confine settentrionale. Se qualcuno è mai riuscito a scappare, non ci è dato saperlo. Le comunicazioni nazionali sono andate, i cellulari non funzionano e internet è ormai solo un ricordo.
Così i superstiti si sono organizzati in altri modi. Io, ad esempio, sono rimasta chiusa nella mia villa ai Parioli per quasi tre anni. Vivevo con Lorenzo, il mio personal trainer, il mio dolce chihuahua Poppy e Ilda, una domestica tedesca efficiente come un robot e simpatica come un'endometriosi.
Non mi serviva altro.
Poi, non so come, da un giorno all'altro Ilda si è trasformata. Lei ha preso Lorenzo, che si è divorato Poppy, e io sono stata costretta a lasciare il mio luogo sicuro.
Ed eccomi qui, a correre alla disperata attraverso Campo de' Fiori, seguendo un'immigrata vestita di nero, mentre il nostro autista, che sembrava così preparato, si è fatto crivellare di colpi davanti ai nostri occhi insieme ad Antonino Cannavacciuolo. Insomma, io l'avevo riconosciuto subito, ma da quando i social sono morti, farsi un selfie insieme a un vip è diventato inutile...
Siamo ormai nei pressi del Tevere e l'immigrata che ora guida il gruppo continua a dire che la fermata non è lontana, ma che non possiamo rallentare, dal momento che gli uomini armati ci stanno inseguendo.
«Ma chi sono quelli?» grida l'altra donna, più giovane di me ma meno bella e di certo con meno stile. Suo marito ha il fisico da impiegato d'ufficio, due occhiali quadrati da ragioniere e la pelata. Il figlio non parla, e sono certa di averlo sentito mugolare qualcosa. Ha problemi seri, proprio non capisco perché se lo tirino dietro. Per carità, si dice che un figlio ti cambi la vita, ma quello gliel'ha cambiata in peggio e di sicuro uno di questi giorni li farà ammazzare entrambi.
A un tratto, ecco un rombo di motore, in lontananza.
«È l'autobus?» domanda l'altra donna, con la speranza nella voce.
L'immigrata fa no con la testa, poi si porta un indice davanti alle labbra e ci fa accucciare tutti dietro alcune vecchie auto parcheggiate lungo il marciapiede.
Immobili, attendiamo che il veicolo – che non riesco a vedere – passi.
E se fosse l'autobus? In fondo quella che ci ha detto di no è un'immigrata, e nel suo Paese probabilmente nemmeno esistono gli autobus! E se a causa sua perdessimo la corsa?
Alzo leggermente la testa e provo a sbirciare attraversi il vetro dell'auto parcheggiata.
Uno sparo, poi il finestrino scoppia in mille pezzi...

Amedeo

Sapevo che l'elegantona sarebbe finita così.
Che idiota. La puzza sotto al naso non ti salva se sei una decerebrata.
Mentre il camion passava ha alzato la testa! Perciò, non solo si è fatta ammazzare, ma ci ha esposti tutti! E come ha fatto a non sentire la puzza di spazzatura? Quello che è arrivato è un dannato camion dell'AMA guidato da quei pazzi armati che ci danno la caccia.
Purtroppo non sono mai stato un uomo d'azione, né uno sportivo. Nella vita di prima ero un ragioniere, ho sposato la mia segretaria e abbiamo avuto Paolo, un ragazzo con un disturbo dello spettro autistico. Anche se non sembra, capisce tutto ciò che succede ed è molto intelligente, solo che non sa comunicare con gli altri, o forse, come sostiene lo psicologo che lo segue, sono gli altri a non saper comunicare con lui.
Erika, mia moglie, è la persona che ci riesce meglio. Anche ora, i due sono mano nella mano.
Le raffiche di colpi mi riportano alla cruda realtà. La donna in nero balza in piedi col fucile spianato e apre il fuoco.
«Al ponte!» urla, indicando un punto in mezzo al Tevere. Tra i platani e il muretto di pietra, scorgo il profilo di Ponte Sisto. Saranno duecento metri. Se corriamo veloce...
Sssquiiit...
Sgrano gli occhi: dal muretto lungo il Tevere sono emersi dei ratti... hanno il pelo arruffato, chiazzato da brandelli di pelle e carne putrefatta, gli occhietti sono piccoli e lattiginosi e il loro verso ripugnante mi paralizza. Un attimo dopo me li ritrovo addosso, le boccucce fameliche iniziano a mordere, a strappare, e io urlo...

Erika

Tengo mio figlio per mano, mentre corriamo assieme alla donna asiatica verso Dio sa dove.
Nelle orecchie ho ancora le urla di Amedeo, nella mente la sua espressione d'orrore mentre i ratti zombie lo divorano. Guardo Paolo, ma nei suoi occhi scorgo solo un'espressione vuota, come se tutto ciò che ci accade intorno non lo toccasse davvero, come se aver visto il suo papà morire in un modo tanto atroce non fosse mai successo. In questo nuovo, maledetto mondo, la sua condizione sembra quasi un dono.
Quando mettiamo il piede su Ponte Sisto, per un momento penso che possiamo farcela. Forse dopotutto c'è una speranza. Io e Paolo possiamo sopravvivere, prendendoci cura l'una dell'altro. Possiamo...
Una raffica taglia l'aria e vengo sbalzata a terra in un lampo doloroso. Guardo Paolo, che osserva la sua mano libera dalla mia con lo sguardo perso. Le forze mi abbandonano...

Sadira

Afferro la mano del ragazzino e corro con lui sul ponte. Gli uomini in nero hanno smesso di sparare, ma ci sono alle calcagna. Devono colmare la distanza se vogliono averci di nuovo a tiro.
Il sole è scomparso dietro i palazzi, la luce sta scemando e l'oscurità in questo momento è nostra alleata.
Siamo quasi alla fine del ponte, quando due fari compaiono di fronte a noi.
Lo zombiebus 99 si dispone su un fianco e una Browning M2 compare da un finestrino. Poi apre il fuoco verso i nostri inseguitori, falciando ogni cosa, morta o vivente, alle nostre spalle.
Quando tutto si fa silenzio, guardo il ragazzino: ha gli occhi fissi sulla mitragliatrice e, per la prima volta, lo vedo sorridere.
Il mondo che ho creato non è solo parte di me, ma esiste, come esiste la fede.

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Re: Finalissima!

Messaggio#5 » venerdì 14 febbraio 2025, 12:39

Il rivolo rosso zampilla ai miei piedi, alcuni schizzi escono dal secchio e macchiano di cremisi le piastrelle immacolate: sangue nelle urine.
Non è possibile. La rubedo è arrivata troppo presto, siamo solo in agosto!
Scrollatina all’attrezzo, risciacquo veloce le dita nella bacinella insaponata e corro via dal cesso verso la sala di lettura.
Giois muove le ali nere e si appoggia al mio avambraccio fasciato, le zampe pizzicano sulla ferita. Povero corvo, ha perso altre piume, ormai la pelle secca è visibile a chiazze dappertutto. «Un po’ più in qua, Giois.» Gli do una spintarella gentile sul petto e si sposta sulla spalla, non senza un versaccio col becco spezzato. Mi fissa con un occhio velato dalla cataratta, una carezzina sulla sua testolina e mi siedo alla scrivania.
Il quaderno degli appunti è dove l’ho lasciato, una leccata all’indice e le pagine scorrono veloci. Mi pareva di aver preso nota di tutto, com’è possibile che ci sia qualcosa di diverso rispetto ai piani originari?
Ecco qua, citazione presa dalla Clavis Artis: la pietra filosofale si ottiene se il rosso segue al giallo, che viene dopo il bianco, quando tutto inizia col nero.
Lo scorso inverno il ciclo era iniziato col nero della nigredo, la cancrena al braccio, poi i capelli mi sono diventati tutti bianchi, ed ecco l'albedo. Adesso sarebbe il turno della citrinitas: in estate l’umore dominante è la bile gialla, e la trasformazione deve partire dalla milza. Il rosso della rubedo doveva invece comparire in autunno, e l’organo interessato doveva appunto essere il fegato, che contribuisce alla formazione dell'urina.
«Giois, dove ho sbagliato?» Il corvo gracchia una risposta incomprensibile.
Alzo lo sguardo sulle travi del tetto della biblioteca. Devo tornare alla fonte e trovare una soluzione.
Lascio il quaderno e mi trascino verso lo scaffale impolverato con la trascrizioni delle opere dell’alchimista Al-Razi, le ricette per gli elisir sono nel Sirr al-Asrār, il libro de I Segreti dei Segreti. Ecco, c’è ancora il segno a matita che ho tracciato un anno fa. «Giois, leggi qua: userai una sostanza per ogni umore; sangue, bile nera, bile gialla, flegma. Solo così si può avere l'elisir che porta alla Pietra Filosofale.» Bene, e da qui sono partito: avevo preparato l’elisir con una zampa di gabbiano, sangue di pesce, urina di topo, muschio e altre dodici erbe del Carso1, così da ottenere una perfetta mescolanza dei quattro umori. Forse non era la combinazione giusta? Che ci sia bisogno di una sostanza stabilizzante? Sfoglio ancora il testo di Al-Razi: in fondo ci sono elenchi di sostanze e proposte di elisir per far iniziare la trasmutazione.
«Che sia questo?» Leggo le parole incredulo. «Se la rubedo arriva prima del segno della Bilancia, aggiungi latte materno di una donna che ha appena partorito e otterrai subito la pietra filosofale.»
Mi viene da ridere. Latte materno, e dove lo trovo?
La boccetta con l’elisir svuotata per metà è ancora lì, accanto al mortaio e ai coltelli. «Quasi un anno che ne bevo una goccia al giorno, e scopro adesso che manca un ingrediente!» Il corvo gracchia, lo accarezzo sotto la testa. Povera bestia.
Fitta dal braccio fasciato, la nigredo duole da morire. No, non voglio buttare tutto all’aria: se devo recuperare questo nuovo ingrediente, allora sia! «C’è una sola persona viva, qui a Trieste, che ci può aiutare a recuperare il latte materno.» Giois annuisce, come se capisse: dobbiamo andare a trovare il furlanaccio2.

I chiavistelli della biblioteca fischiano come locomotive a vapore mentre li faccio scorrere di lato. La serratura è dura come le vecchie ossa pietrificate di un dinosauro, il sole penetra nell’atrio e abbaglia gli occhi.
Una manata veloce al telo di cera appallottolato all'interno del carrello arrugginito e stringo il manubrio con ambo le mani. La statua di Italo Svevo, che una volta decorava la piazza, giace rovesciata accanto a un mucchio di ossa: un giorno o l’altro devo mantenere la promessa e tirarlo su.
Liscio col pollice la cinghia del fucile che porto in spalla e sospiro. «Coraggio: andiamo, Giois.»
Il corvo sta ritto sulla mia spalla e osserva l’immondizia mossa dal vento in piazza Hortis, la porta sbatte dietro di me. Una spinta e il carrello cigola in avanti, il braccio con la nigredo duole. Un passo dopo l’altro entriamo in via Cavana, le vetrine sfondate celano antri oscuri dove i cadaveri degli uccelli si ammucchiano in un turbinio di piume sporche. Se hanno fame siamo fregati.
Giois gracchia inquieto, gli batto le zampe con un dito. «Buono, buono, siamo quasi arrivati.»
Pochi metri e il segno logoro della farmacia indica la nostra destinazione. Allungo la mano e busso alla porta di ferro.
Si apre lo spioncino. «Chi è?»
«Apri, imbecille.»
La voce si fa stridula. «Ah, sei tu, Saba.»
Il furlano compare oltre la soglia, gli occhietti porcini ammiccano sopra la mascherina chirurgica. Si strofina il palmo sulla panciona e lo alza in segno di saluto. Spingo dentro il carrello senza rispondere.
L’altro si porta una mano davanti alla faccia. «Sento la tua puzza anche da sotto la mascherina, ma che ti è successo?»
Mi appoggio al bancone liscio della farmacia, intorno a me scaffali pieni di ogni porcheria espongono vasi sporchi di terra, bottiglie più o meno intatte di Slivovitz e di Pelinkovac, scatolette di carta colorata e anche resti di frutta secca. «E quello?» Indico il barattolo di crauti.
«Ah, li vuoi? Dovrebbero essere scaduti solo da due anni.»
In effetti sono anche un po’ stufo di mangiare solo carne di piccione bollita, ma non ho tempo da perdere. «Senti, dammi qualcosa per il braccio, e poi ho bisogno di un’informazione.»
Il ciccione cerca di toccare la fasciatura, ma ritrae subito le dita quando Giois tenta di beccarlo. «Ah, bestiaccia!»
Tiro fuori il libro dal carrello. «Ecco, per il tuo disturbo.»
Il furlano prende il volume e scuote la testa. «Senti, è vero: ci si annoia a morte senza TV e senza internet, ma non tanto da sorbirsi Guerra e Pace
«Leggilo, pezzo di merda! Tolstoj è uno dei più grandi scrittori della storia: non dobbiamo solo salvare il mondo, ma anche la cultura.»
L’altro scuote la testa. «Una volta mi piaceva Paulo Coelho. Hai niente di lui?»
«Libri che ho usato come carta da cesso.» Indico il braccio con la nigredo. «Allora, ce l’hai dell’antibiotico sì o no?»
Il ciccione fa un lento sospiro, la mascherina si solleva a rivelare peli di barba bianca mal rasata. «Se capisco dalla puzza, ormai sei del gatto3…»
«Non mi interessa guarire, solo tirare avanti ancora un po’.»
Alza il mento. «Allora sì. Ti prendo tutto l’occorrente.»
Sparisce nella stanza dietro al bancone. Giois gracchia, annuisco di rimando. Mi schiarisco la gola e urlo. «Pezzo di merda, mica ti è venuto qua qualcuno a prendere qualcosa per una donna partoriente?»
«Ho la faccia da ostetrica?» Sbatte una borsa di plastica sul bancone. «C’è una siringa quasi nuova, mettici dell’alcol sopra sennò l’infezione ti entra nel sangue.»
Annuisco e faccio sparire l’involto nel carrello. «Allora, c’è stato qualcuno che aveva bisogno di medicine per una donna che ha appena partorito, o no?»
L’altro accarezza col pollice unto di grasso il dorso di Guerra e Pace. «Sicuro che ne vale la pena?»
Stringo le labbra. «Sì o no?»
Il ciccione sbuffa. «'scolte: folchetitrai!4»
Scatto in avanti e lo tiro per la maglia sudicia. «Parla, lurido furlano!» Accarezzo col dito dell’altra mano la cinghia del fucile, giusto per sottolineare chi comanda.
Il miserabile afferra il mio braccio sano senza stringere troppo, la voce balbetta. «Uno della corte della Duchessa, diceva che era per sua moglie. Di più non so, lo giuro.»
La corte della Duchessa; che mi stia infilando in una trappola? «Se mi stai fregando, tornerò a vendicarmi.»
Il barile di merda scuote la testa senza dir nulla. Lo mollo. «Andiamo, Giois.»

Il carrello pesa da matti mentre lo spingo su per la salita di via Cologna; è stato un miracolo non trovare nessuno in viale XX Settembre, oggi i morti devono essere particolarmente stanchi. Sarà il caldo? Un rivolo di sudore scorre sotto l’ascella, il braccio con la nigredo pulsa e fa male da morire.
«Ancora poco, Giois, ancora poco. Siamo quasi arrivati, coraggio.»
Il corvo gracchia all’impazzata: alzo lo sguardo.
Eccolo lì, finalmente: un morto vivente che barcolla verso di noi.
Si tratta di un ragazzo sulla ventina, cappellone, forse un ex universitario che si è trasformato da poco. Appoggio il carrello a ridosso del muretto e imbraccio il fucile. Carico. Punto.
I versi dei cocai5 mi interrompono. Alzo lo sguardo: sono almeno cinque.
«Merda!» Allungo il braccio e prendo la tela cerata dal carrello. «Sotto, Giois!»
Il tessuto pesante ci copre, rimaniamo al buio. Dove sono i buchi per gli occhi? Muovo il telone fino a quando trovo le fessure per guardare fuori.
I gabbiani sono scheletrici, le ali avranno un paio di piume al massimo: solo il Cielo sa come fanno ancora a volare. I loro versi erano già orrendi da vivi, adesso sono come la risata di una strega. Staccano brandelli di carne putrida dal corpo del morto vivente, le cui braccia si muovono per difendersi, ma senza successo: pochi secondi e cade a terra.
Mi viene da vomitare, quelle bestie schifose mangiano tutto anche dopo la morte. Giois è tra le mie gambe, muove la testa come ipnotizzato. «Non guardare, meglio se non guardi.» Gli copro la testa con la mano.
Il tutto dura alcuni minuti, poi rimangono solo le ossa e i vestiti laceri. I cocai si rimettono in volo, ma uno si avvicina a noi. «Merda, merda.» Alzo il fucile quel poco che posso senza muovere la cerata. Il teschio dell’uccello mi fissa con le sue orbite vuote. Carico il grilletto.
Si rimette in volo.
Tiro un sospiro di sollievo. «Per poco, Giois.»
Mi tolgo la cerata di dosso e respiro di nuovo l’aria calda di Trieste. Ai miei piedi una pozzanghera di sudore: avrò perso dieci chili in pochi minuti. Altro che capelli bianchi!
Ricarico il carrello e metto giù il fucile. «Andiamo.»

L’atrio del Regno della Duchessa dovrebbe essere qui, nelle gallerie post-belliche sotto alla collina dell’Università. L’ingresso è chiuso da un catenaccio arrugginito, un cassonetto rovesciato riversa la sua immondizia tutt’intorno. Per fortuna posso rifugiarmi sotto l’ombra di un albero e riprendere fiato. «Ehilà, c’è nessuno?»
Silenzio. Non mi aspettavo un’accoglienza con fanfara e donne nude, ma nemmeno un posto così deserto. «Voglio parlare di affari, c’è la Duchessa?»
Rumore di passi, una mano compare dalla fessura tra i due battenti e armeggia con la catena: la porta si apre a rivelare un ingresso più serio, con cancello di ferro e guardie armate di kalashnikov. Un tizio grosso con la testa decorata da piume di piccione mi viene incontro. «Te go già visto, te son il bibliotecario?6»
«Posso parlare con la tua regina o prima vuoi vedere un documento?»
«Un documento?»
«Insomma, devo recuperare un propusnica7 in Ambasciata o mi fai passare senza?»
Lo scimmione grugnisce. «Non fare lo spiritoso, entra, e lascia il carrello fuori.»
Scuoto la testa. «C’è roba mia, lì dentro.»
«Nessuno la toccherà.» Mi fa cenno con la mano. «Muoviti.»
Sospiro e lo seguo all’interno della galleria.
L’illuminazione elettrica non c’è da anni, le lampade al neon spente ne sono la testimonianza. Alcune fiaccole ardono sulle pareti a rivelare un suolo di cemento umido e pieno di sporcizia. L’odore fognario mi arriva alle narici e mi fa starnutire. «Coraggio, Giois.» Il corvo si appallottola sulla mia spalla.
La guardia percorre un dedalo di gallerie, alcune guardie gli fanno un cenno mentre passiamo. Arriviamo a un ampio salone illuminato da innumerevoli candele, mi chiedo dove le prendano. Una donna vecchia e grassa ride in mezzo a un gruppetto di ragazzi sui vent’anni vestiti solo con un triangolo di stoffa attorno alla vita. Eccola lì: la sovrana delle fogne di Trieste e di quello che rimane della civiltà.
La guardia mi dà una spinta e mi costringe a mettermi in ginocchio. «Altezza, c’è qui Saba il Bibliotecario, vuole parlare di affari.»
Sento su di me lo sguardo appiccicoso della vecchia. «Allora sei tu! Benvenuto nel mio regno.»
Alzo lo sguardo e la fisso negli occhi. I capelli radi e grigi sono tenuti insieme da un’orrenda acconciatura di piume di gabbiano e piccione, le tette flosce penzolano come sacchi di letame, il corpo informe e tumefatto si trascina sul pavimento sudicio come un Jabba versione femminile.
Abbasso lo sguardo. «Sono onorato di conoscerti.»
«Posso offrirti un capo in b8
Stringo i denti. Cosa devo rispondere? «Grazie, con tanta special9
Tutti ridono. Ecco, come volevasi dimostrare: mi stavano perculando.
La vecchia sputa per terra. «Cosa vuoi?»
Dritta al punto, tanto meglio. Sospiro, la puzza di fogna mi riempie i polmoni. «Offro libri in cambio di una cosa… un po’ particolare.»
La Duchessa allunga la mano ad accarezzare uno dei ragazzetti, gli sorride in modo lascivo evidenziando una fila di denti neri. Tira fuori la lingua, il bamboccio si sporge e apre la bocca.
Distolgo lo sguardo da quell’orrore e mi fisso la punta dei piedi.
«Cosa vuoi? Spara, Saba.»
Faccio un respiro profondo. «Mi hanno detto che una donna della tua corte ha appena avuto un bambino, vorrei un po’ del suo latte materno.»
Silenzio.
La vecchia fa qualche passo verso di me, alzo lo sguardo. Il suo viso è attraente come quello di una statua di cera che si scioglie al sole. «A cosa ti serve?»
Mi mordo il labbro. «Ce l’hai?»
La guardia mi dà un pugno proprio sulla spina dorsale. «Mostra rispetto, o te mando a sburtar radicio10
Reprimo un gemito di dolore, Giois gracchia e apre le ali per apparire più minaccioso. Lo calmo con una carezza. «Tranquilli, adesso vi spiego tutto.»
Da dove iniziare? Guardo il soffitto sporco e coperto di pipistrelli appesi a testa in giù. Tanto vale vuotare il sacco. «Da quando è iniziata la pandemia, dato che la medicina moderna ha fallito, ho studiato la scienza antica. Un alchimista del Duecento, Raimondo Lullo, nel suo trattato sulla quintessenza, ha dimostrato che la Grande Opera può curare i segni dell’arrivo dell’Apocalisse.» La sto stufando? La vecchia non dà segno di impazienza, continuo il mio resoconto. «Ho scoperto nei testi dell’alchimia araba che il corpo umano è l’agente per raggiungere la perfezione della Pietra Filosofale, vale a dire che con le giuste pozioni, o elisir, una persona può trasformarsi in un agente perfetto che può curare ogni malattia solo col suo contatto.» Sorrido, devo ammettere che è divertente condividere la propria conoscenza con altri. «Ho iniziato il trattamento su di me un anno fa, sul mio corpo si sono mostrate le prime fasi, identificate dai quattro colori della Grande Opera.» Tendo il braccio malato e scosto leggermente le bende. «Mi sono ferito accidentalmente con un chiodo: putrefazione, nero, nigredo.» Indico i miei capelli. «Ho avuto un grosso spavento quando uno stormo di cocai ha assaltato la biblioteca un mese fa: bianco, albedo.» Sospiro. «Stamattina ho avuto il quarto segno, quello del rosso, ma manca uno stadio intermedio: il giallo. Credo sia perché devo correggere la pozione di cui bevo una goccia al giorno da mesi: una ricetta del libro de I Segreti dei Segreti dice che devo usare latte materno, ed eccomi qua.» Apro le mani in segno di resa. «Se mi aiuti, insieme troveremo la pozione curativa che cancellerà questa Apocalisse. Che dici?»
Silenzio.
La Duchessa storce la bocca, tutti rimangono in attesa di una sua reazione: i ragazzetti sono come impalati, la guardia mi fissa imbambolato.
La vecchia si lascia andare una potente scorreggia, tutti si mettono a ridere e ad applaudire: deve essere uno spettacolo frequente. «A me frega ‘n cazzo di quello che ci fai, dirò alla mia femmina che ha partorito di mettertene via un po’, chissene.» Si strofina indice e pollice. «Cos te ga da darme
Deglutisco. «Ho un’ampia scelta di grandi classici: Tolstoj, Joyce, Dostoevskij, Proust…»
La Duchessa sputa per terra. «Fanculo. Hai qualcosa di Erin Doom, o di Moccia?»
Mi si aggrovigliano le viscere. «Di chi?»
«Oppure di Stephenie Meyer.»
Stringo i pugni. «Che ne dici Camilleri?» Scuoto la testa, siamo arrivati a questo? «Avrei anche Harry Potter.»
La vecchia mi mostra il medio. «Fabio Volo.» Aggrotta le sopracciglia. «Ultima offerta.»
Mi viene da piangere. Chiudo gli occhi e annuisco. «Qualcosa mi è rimasto.» Mi sforzo di sorridere.

Piove, per fortuna. Lascio che l’acqua mi inzuppi gli abiti sporchi e pulisca il sudiciume sul mio corpo.
Piazza Unità è deserta, il cielo grigio è solcato da saette che lo passano da parte a parte come punti di sutura cuciti da un ago etereo. Soffia la bora11.
Giois entra nel cerchio magico che ho tracciato per terra seguendo le istruzioni della Piccola Chiave di Salomone. L’ampolla con l’elisir corretto dal latte materno trema nella mia mano, tendo il braccio verso il cielo.
Un tuono.
Il cuore mi martella i timpani. «Giois, se tutto funziona, l’elisir mi darà il potere di cancellare la malattia di questo mondo.»
Il mio amico gracchia soddisfatto.
Rumore dal cielo. Arrivano i cocai.
Sento il sangue ribollire nelle vene, sorrido e urlo esultante. «Molṑn labé!12»
Un gabbiano si libra a pochi metri da me. Con uno scatto mi porto l’ampolla alla bocca e inghiotto tutto. Il sapore di marcio scende verso lo stomaco.
Tossisco.
Risale.
Il fiotto di vomito colpisce il cocal e lo fa sbandare.
Arrivano altri gabbiani morti e mi circondano, che sia la fine?
Mi accascio a terra e attendo la prima beccata.
Qualcuno spara: spari, spari da tutte le parti.
I fari di una macchina mi abbagliano, chiudo gli occhi.
Gli uccelli urlano e scappano nel cielo in tempesta.
La pioggia mi sferza il viso.
Un motore romba, un autobus scalcinato si ferma a pochi passi dal centro della piazza. Uomini armati puntano i fucili al cielo e fanno a tiro a segno con i gabbiani. Piume e ossa cadono insieme ai chicchi di grandine.
Fitta allo stomaco. Vomito ancora.
Non funziona. L’elisir non funziona! Perché? Ho seguito tutte le istruzioni alla lettera!
Un uomo mi porge la mano. «Ehi, amico, salta sullo zombiebus e tagliamo la corda!»
Mi pulisco il viso e osservo meglio l’autobus: è corazzato con lastre di ferro, spuntoni e rostri decorano il cofano. Lascio che lo sconosciuto mi aiuti ad alzarmi. «Cos'è quella corriera? Dove state andando?»
«Troveremo La Strada Verso Casa.» Sorride. «Seguendo Le Prime Luci del Mattino arriveremo al nostro Posto nel Mondo
Ma che cazzo dice? Lo guardo meglio: capelli diradati, pizzetto incolto, sorriso accattivante. Quella faccia! Ecco dov’era, c'era la sua foto nel retro dei libri che ho dato alla Duchessa: è l'autore di quel mucchio di letame! «Io ti ammazzo!» Mi butto in avanti per strozzarlo, ma mi esce un altro fiotto di vomito. Fabio Volo mi prende per le spalle. «Tranquillo, adesso passa tutto, vieni.»
Mi trascina nell’autobus.
«Giois!» Tendo il braccio. «Giois!» Il corvo svolazza e atterra sulla mia spalla. Saliamo nel mezzo che si mette subito in moto. Mi divincolo dalla stretta, ma la porta scorrevole del bus ormai è chiusa: non posso scappare.
Un tuono, un fulmine cade sull’asta della bandiera sgualcita di Trieste che si erge sulla piazza, incendiandola. Scintille si riversano sull’autobus, che procede spedito senza nemmeno sbandare.
«Stai calmo, nonnetto, ora sei fuori pericolo.»
Mi metto a sedere, massaggio il braccio con la cancrena. Altro che nigredo!
Giois mi si appallottola in grembo, poveretto, è spaventatissimo.
Gli altri passeggeri mi lanciano sguardi pieni di pena e repulsione. Uno si porta la mano al viso per coprire il naso.
Fabio Volo si siede in prima fila, si volta verso di noi, prende un microfono e inizia a blaterare. «Bene, cari signori, dove eravamo rimasti?» Alza uno dei suoi libri e sfoglia le pagine. «Ah, ecco. Riprendiamo da qui…»
Voglio morire. Fatemi morire.
«Amo le labbra: le amo perché sono costrette a non toccarsi se vogliono dire "Ti odio" e obbligate a unirsi se vogliono dire "Ti amo".»
Un nuovo fiotto di vomito insozza il sedile. Mi premo le mani sulle orecchie, chiudo gli occhi e piango.



1Carso. Altopiano roccioso calcareo che si estende a cavallo tra Venezia Giulia (provincia di Gorizia e Trieste), Slovenia e Croazia.
2Furlanaccio. Termine dispregiativo in triestino (variante del veneto) per indicare i friulani.
3Sei del gatto. "Appartieni al gatto", modo di dire friulano per: "sei spacciato".
4'Scolte, folchetitrai. In lingua friulana significa: "senti un po', che ti colpisca un fulmine!"
5Cocai. Plurale di "cocal", che in triestino significa sia "gabbiano" che "imbecille".
6Te go già visto, te son il Bibliotecario?. Triestino: "ti ho già visto, sei il Bibliotecario?"
7Propusnica. Pronunciato "propusniza", significa "lasciapassare" in lingua croata. Termine usato a Trieste durante tempi della cortina di ferro per indicare i documenti necessari a passare il confine con la Jugoslavia.
8 Capo in b. Un caffè macchiato servito in bicchierino da liquore: dal gergo triestino usato per le ordinazioni nei bar.
9Con tanta special. Con molta schiuma e spolverato di cacao. Ibidem.
10Te mando a sburtar radicio. In triestino significa letteralmente: "ti mando a spingere il radicchio", gergo usato per alludere alla sepoltura.
11Bora. Vento tipico del Carso e della città di Trieste, costituito da forti raffiche molto fredde provenienti da direzione Nord-Est/Est-Nord-Est.
12Molṑn labé. "Venite a prenderle", secondo la tradizione è la frase iconica di sfida lanciata dal re Leonida in persona durante le guerre coi Persiani
Ultima modifica di MatteoMantoani il sabato 15 febbraio 2025, 15:28, modificato 1 volta in totale.

Gaia Peruzzo
Messaggi: 377

Re: Finalissima!

Messaggio#6 » sabato 15 febbraio 2025, 13:30

(Questa è proprio una seconda versione, revisionata grazie ai commenti degli altri partecipanti. Grazie per i caratteri in più! Dovrei essere nel limite.)

La piastrella magica
di Gaia Peruzzo


Mi strofino con la lingua le labbra secche e il sapore cremoso del rossetto mi finisce sul palato. Lo straniero indossa al collo così tante croci che non mi stupisce creda davvero nelle storie religiose… Sbuffo. «È un suicidio. E poi si basa tutto sulla leggenda di una donna che ha visto la Vergine Maria.»
Ho segnato il sotoportego della Corte Nova con una X rossa sulla cartina. La strada non è molta se si arriva dal mare, ma quella è la parte pericolosa di Venezia.
«È quello che gli ho detto anch'io. Dopo che avrai superato i cancelli per gli zombi, non troverai nessuno a proteggerti.» L’agente Moro si strofina le palpebre, stanco. «Potresti stare qui, integrarti nella nostra comunità. Cannaregio è un posto sicuro.»
Lo straniero incrocia le braccia sul petto. «Non posso.» Si appoggia allo schienale. «La piastrella rossa ha sconfitto la peste in passato, magari potrebbe salvarci anche da questa epidemia. Dobbiamo fare qualcosa!»
È testardo. O forse è solo da molto tempo, ed è diventato un pazzo che crede alle favole. Forse dovrei presentargli Agata, così potrebbero fare i matti insieme…
«Mi digo che sto bocia ga da tornar a casa sua! Sti cinesi ga za portà un contagio na volta.» Bepi sputacchia saliva sul tavolino. Tiro verso di me la cartina di Venezia. «Ghe xe na roba pi importante. El vin xe drio finir.»
Don Alvise fa un passo in avanti. Apre le braccia e la tunica bianca si allarga come ali. «Vuole il vino che uso per la messa!»
«Zitti.» Moro sbatte un pugno sul tavolo, «Una cosa per volta o mi fate diventare pazzo.»
«Per favore.» Lo straniero afferra un angolo della cartina, come se avesse paura che gliela portassi via. «Fatemi provare!»
Un sospiro esasperato esce dalla bocca dell'agente. «Se ci tieni tanto a fare l’eroe… Però noi ti abbiamo avvisato, potresti non tornare indietro.»
«Tornerò, invece.»
Deglutisco, sì è decisamente pazzo. Alzo gli occhi al soffitto… Ascoltare le storie sul turista russo della Marisa è molto meglio che stare qui. Ma non poteva spiegargli Moro la direzione per il sotoportego?
Bepi agita il suo bastone da passeggio. «Desso podemo pensar al vin?»
«E va bene.» Moro mi fissa. «Signorina Visentin, accompagni il nostro ospite fino alla stazione, avviserò uno dei miei agenti di portarlo con un taxi alla fermata dell'ospedale.»
Vorrei dirgli che non sono la sua segretaria, ma ci penseranno già Bepi e Don Alvise a innervosirlo ancora di più. Non sarà solo il vino, tra le nostre scorte, a terminare… E forse, un giorno, nuovi zombi attraverseranno il Ponte della Libertà, spinti dalla fame, proprio come ha fatto questo ragazzo.
Lui si alza di scatto. «Oh grazie! Grazie!» Ha gli occhi lucidi, ma sorride. A quanto pare non ha capito che sta andando a morire.

ooo

Fuori è un forno. L’aria tremola sollevandosi dal cemento di Campo San Geremia. Il bacaro di fronte alla chiesa è vuoto. Sotto le tendine parasole c'è la lavagnetta nera con gli stessi piatti del giorno da ormai da tre mesi. Sarde in saor, risi e bisi, e tiramisù. Ero seduta a uno di quei tavolini quando ho conosciuto Marco. Dovevamo laurearci insieme e adesso non lo faremo mai. Vorrei tanto sapere se sta bene, se la mia famiglia sta bene. Ma l’agente Moro e la sua banda non ci permettono né di uscire, né di avere contatti con l'esterno. Ci hanno sempre detto che siamo gli ultimi sopravvissuti, ma non è vero. Quel ragazzo con gli occhi a mandorla non è un contagiato…
Il metallo nell’ombrello che mi ripara dal sole pesa il doppio rispetto al solito. Stringo il manico con due mani, il mio sudore ha reso il legno scivoloso.
E ho il culo bagnato come se me la fossi fatta addosso. Odio l’estate! Sono stanca di tutto questo caldo! Sono stanca delle loro bugie… Moro è così ossessionato dal tenerci al sicuro che…
«Eccomi!»
Sussulto. Mi giro. Il ragazzo straniero si ripara gli occhi dalla luce con le mani.
«È meglio se vieni qui.» Mi avvicino e gli faccio scudo con l’ombrello. «Se non hai messo la crema solare, questo sole ti farà venire delle ustioni spaventose. E poi i piccioni sono pericolosi, sono zombi anche loro.»
«Grazie.»
«A-andiamo?» La voce mi esce incerta, ma lui annuisce serio. Forse non è contento di dovermi stare così vicino. O forse è solo stanco. «Come hai detto che ti chiami?»
«Luca.»
«Non sembra un nome orientale.»
«Ti aspettavi un Takumi, o roba del genere?» Sorride, «Sono veneto, anche se mia madre è giapponese. E tu? Come ti chiami?»
«Caterina. Ma puoi chiamarmi Cat.»
«Come… Gatto?»
«Come gatto.» Non vedo l’ora di togliermi dalla strada. Anche le vecchie mura delle case e dei negozi di souvenirs sembrano sudare per il caldo, ma prima devo chiederglielo. «Com’è…» Mi trema la voce, «Com’è lì fuori?»
«Un inferno. C’è più gente zombi che viva, ormai.»
No… Il cuore mi diventa pesante. È come se la sua risposta lo avesse riempito di sassolini appuntiti.
«Qui siete in tanti.»
«In realtà siamo solo cinquantatré anime.»
«Siete comunque di più che a Mestre.»
«Ah.» Chissà chi ha perso, a chi ha detto addio. Mi mordo l'interno della guancia, a disagio. Le lacrime mi sfocano la vista. Anche la mia famiglia è morta? O sono diventati dei mostri?
Si alza sulle punte e protende le nocche verso l'interno grigio dell'ombrello.
«Attento! Ora scotta!» Lo sollevo più in alto.
«Davvero? E perché è così strano?»
Deglutisco. Devo darmi un contegno, non voglio piangere di fronte a lui. «È in alluminio e acciaio. Ce li ha fatti un artigiano di Murano.»
«Non lavoravano il vetro lì?»
«Sì, ma questi non sono decorativi, servono a proteggerci anche dagli attacchi di piccioni e gabbiani, e poi…»
«Cate!»
Inclino un po’ l’ombrello e guardo verso l’alto. Chi mi cerca? La Marisa si affaccia dalla sua stanza d’hotel, qualche passo più avanti. Ha la testa piena di bigodini e sta bevendo uno spritz. Sporge un braccio per passarlo tra i quadrati della rete antiuccelli-zombi e fare “ciao”. «Ma ti ga trovà el moroso?»
«Noooo!» Ci nascondo sotto l’ombrello. Le guance mi vanno a fuoco e sono sicura di star guardando Luca come se fosse diventato uno zombi. «Non risponderle. Altrimenti non finisce più.»
Cammino più veloce e lui mi segue.
Tin. Tin. Tin. Qualcosa ha colpito l’ombrello. Il sudore mi cola lungo le braccia. Che succede?
«Ostrega!» Impreca la Marisa, «Tosi! Correte! Mi son cascati i bagigi!»
«Oh no! Presto!» Afferro il braccio di Luca e lo tiro in avanti. Dobbiamo muoverci! L'ombrello mi scivola e lo lascio cadere a terra. Svoltiamo l’angolo. I garriti dei gabbiani riempiono la strada. Quanti sono? Sembrano tanti… Sporgo appena la faccia oltre il muro dell'hotel e Luca mi imita. Sei, no, otto gabbiani zombi stanno becchettando gli arachidi della Marisa, spanti sulla pietra come perline di una collana rotta. Uno di loro calpesta con la zampa scheletrica la ciotola che li ha contenuti, spaccandola del tutto. Un altro perde grossi vermi bianchi da rimasugli di carne sull’ala e viene attaccato da quello di fianco.
«Credevo mangiassero solo le persone.»
«A volte si credono ancora vivi.» Mi ritraggo. Un sapore acido mi sale in bocca e mi gira la testa. Che fine del cavolo, morire per colpa di stupidi arachidi…
«Devo chiederti una cosa…» Luca mi posa le mani sulle spalle, bloccandomi contro il muro ruvido. «Ho bisogno di una guida.»
«Una guida? Non ti basta la cartina? Io sono soltanto una studentessa di storia dell'arte, o meglio, lo ero.»
Un piccolo sorriso gli incurva gli angoli della bocca. Qualcosa mi preme contro il fianco destro. «Penso che mi accompagnerai di persona.»
Abbasso lo sguardo. È una cazzo di pistola! «Che… Che stai facendo?» È questo quello che gli hanno dato per proteggersi dagli zombi? E perché ora mi vuole uccidere?
Mi afferra un gomito e mi costringe a staccarmi dal muro. «Ma mi hai vista? Ho la velocità di una tartaruga. Davvero, mi mangerebbero subito, io… Io…»
«Tu sai come muoverti, e se farai la brava ti rivelerò un segreto.» Il suo alito caldo mi entra nell'orecchio, «Il vostro benvenuto è stato così orribile, mi avete perquisito, legato come un salame, e interrogato… Però se mi aiuti, farò un'eccezione, e te lo dirò.»
Che sta dicendo? «Sei pazzo!»
«Pensala come vuoi, allora sarà la pazzia a salvare il mondo!»

ooo

Forse dovrei farmi sparare da Luca, almeno morirei subito…
Il motore emette un borbottio e il taxi accelera. Il riflesso del sole si spacca in una miriade di granelli dorati sull'acqua verdastra della laguna. Qui non ha più nemmeno il suo solito odore di sale e alghe, ma più da grigliata bruciata. Le onde che si formano ai lati dello scafo spaventano i pesci zombi che nuotano lontano, come piccoli petali rossi sospinti via dalla corrente. Le parole mi dondolano in bocca. Vorrei dire al sottoposto di Moro che non ho scelto io di accompagnare Luca… Ma se ci sparasse? Se ci uccidesse entrambi? Prima lui e poi me… Deglutisco. Mi rimarrebbe sulla coscienza, anche da morta.
Il taxi si avvicina all'attracco per le barche dietro il muro bianco dell’ospedale.
«Da qui andate a piedi.» Urla l’agente, sovrastando il motore. Ormeggia e Luca scavalca la falchetta della barca.
Mi alzo dal sedile. Non vorrei scendere, ma l'agente mi fa cenno di sbrigarmi dal volante a prua.
Il mosaico di chiese e palazzi sembra formare denti di una bocca pronta a divorarci. Mi concentro sulla scritta “Pronto Soccorso.” Mi tremano le gambe, ma Luca mi porge la mano. La afferro e mi tira con lui sulla banchina.
«Comando io, non te lo dimenticare.» Mi indica la pistola che tiene ferma nell’elastico dei jeans. Spero che si spari per sbaglio nelle palle.
L’agente fischia dalla barca. «Vi aspetterò per mezz’ora, poi me ne andrò via.»
Oddio… Solo mezz'ora? No, devo stare calma, il sotoportego non è lontano. Avanzo per le Fondamenta Nove. Devo rimanere lucida, ci manca solo che svenga per un attacco di panico. «Forse è per di qua.» Indico una calle stretta alla nostra destra che si perde tra gli alti palazzi di mattoni.
«Forse? Vedi di non farci sbagliare strada!»
«E tu vedi di essere un po’ più gentile!» Alzo lo sguardo verso il cielo, per ora non ci sono uccelli zombi. L’agente ci ha consigliato di non portarci dietro l’ombrello, sarebbe un peso se dovessimo correre… E solo il pensiero di correre mi fa venire il mal di pancia.
«Ok, ti dirò adesso quel famoso segreto.» Luca estrae la pistola e mira verso il vuoto nella calle, «C’è un bus verde che raccoglie sopravvissuti, questa domenica passerà a Mestre. Si ferma davanti al McDonald's di Corso del Popolo.»
Cosa? «Non ti credo.»
«Non è una bugia.»
«E allora perché ti sei messo in testa la storia della piastrella rossa?»
«Perché voglio provare a sconfiggere l’epidemia… Quell’autobus mi avrebbe portato in un posto dove avrei potuto ricominciare una nuova vita, certo, ma gli zombi sarebbero ancora esistiti.»
Ecco, è uno di quelli che ha visto troppi cartoni animati. Abbasso lo sguardo. Qui però il cemento è cosparso da cacche d'uccello secche...
«Se lo avessi detto subito, non mi avrebbero lasciato venire fin qua.»
«Dobbiamo stare attenti…»
«Lo so, però dammi retta anche tu. Non dico le cose tanto per dire.»
Possibile che dica la verità? Forse esiste davvero un modo per salvarci tutti. Ma perché Moro dovrebbe tenercelo nascosto? Di sicuro qualche suo sottoposto deve aver saputo qualcosa, quando sono andati a prendere scorte sulla terraferma… Forse? O forse non lo sanno? Mi tiro via il sudore che mi cola sulla fronte. «Senti…»
«Shhh!» Luca si porta l'indice al naso. Dove la calle si allarga ci sono tre zombi. Uno di loro mordicchia una maschera contornata da piume bianche, un altro gioca con una lattina schiacciata, e il terzo li fissa immobile, con le braccia marroncine e bruciate lungo i fianchi.
Ci accucciamo dietro un chioschetto che vende ancora maschere di carnevale tra riviste e giocattoli.
«Usiamo queste.» Ne afferro una con le piume rosse e la passo a Luca. «E camminiamo a scatti come loro, magari ci lasciano passare.»
Lui scuote la testa, ma afferra la sua maschera. «È un'idea di merda, sentiranno il nostro odore.»
«Hai un'idea migliore?» Indosso quella che ho rubato per me. Per ironia della sorte è quella bianca col naso lungo dei medici della peste. «Seguimi.»
Procediamo oltre il chiosco, piano. I tre zombie girano le facce verso di noi. Basterà a confonderli? Uno di loro barcolla verso di me. No, no, no. Allunga la sua mano sudicia con tre dita. La sua puzza mi fa salire il vomito! Apre la bocca, inclina la testa. Uno sparo mi fa piegare in avanti. Mi tappo le orecchie. La faccia dello zombie è aperta a metà. Il suo cervello ha imbrattato di nero e di rosso la vetrina di un negozio di intimo. Gli altri due emettono suoni simili a conati di vomito. Arrivano echi in risposta dalle calli adiacenti. È un richiamo?
«Via! Via!» Urlo e mi metto a correre.
La calle termina in un canale. Una zombi si tira su da una gondola ormeggiata. Un pesce traslucido dimena la coda gonfia di sangue in un buco nel suo collo. Un momento… L’unico ciuffo di capelli biondi che le è rimasto in testa è tenuto fermo da una molletta a forma di coccinella.
«Sofia?»
Lei apre la bocca con i denti marci. Le sue orbite vuote schizzano lacrime di sangue.
Mi ha riconosciuta? «Abitavamo in un appartamento vicino al mercato di Rialto… Ti ricordi? Sono io!»
«Che cazzo fai?» Luca mi afferra la mano e mi scuote, «Torniamo indietro.»
Salire per i ponti è come scalare una montagna. Delle lenzuola ondeggiano appese ai fili tra le case, dimenticate lì da chissà quanto.
Manca poco. Ma stiamo attirando su di noi tutti gli zombie sparpagliati in giro. Superiamo ponte del Fontego ed entriamo in calle degli Zorzi. Non ho mai corso così tanto in vita mia. Mi sembra di avere un acquario nei polmoni e nelle scarpe. Fatico a respirare e vedo tutto annebbiato, ma manca poco. Pochissimo.
«Corri!» Luca si gira e spara di nuovo. I colpi mi rimbombano nelle orecchie e nel petto.
Il sotoportego è proprio lì, alla fine della calle, con il suo arco bianco e inciso. Ci ripariamo nella sua ombra e riprendiamo fiato. I muscoli delle gambe mi bruciano così tanto che vorrei solo stendermi e non rialzarmi più. In bocca ho un sapore burroso misto a quello del sangue. In un altro momento mi sarebbero piaciuti il soffitto a cassettoni oro e blu e i capitelli di marmo. In un altro momento avrei ammirato meglio i quadri con quei personaggi sui toni dell’ocra e del marrone. Ma adesso mi sembra solo tutto così assurdo. Ucciderei per un bicchiere d'acqua…
Luca non perde tempo e calpesta la piastrella rossa. Unica nota di colore in tutto quel grigio del pavimento. Ci batte sopra la scarpa. Una… Due… Tre volte… Ma non succede nulla. I rantoli degli zombi si fanno più vicini. «Cazzo!» Riprova con il piede sinistro. «Perché non funziona? Perché non spariscono?»
«Ma sei idiota?» Mi tiro via la maschera. Il sudore l’ha incollata così bene che mi sembra di tirarmi via la pelle. «Certo che non funziona, è solo una storia. E tu sei solo un disperato di merda. Dobbiamo tornare alla barca!»
Luca si lascia scivolare a terra. Posa la pistola e si prende la testa tra le mani. «E come? È un cazzo di labirinto e siamo accerchiati.» Con quella maschera dorata è ridicolo. Sembra che stia recitando una parte. Le piume rosse che la decorano attorno agli occhi e sulla fronte lo fanno somigliare a un uccellino spaventato.
«Io ci credevo.» Si strofina il naso, sporcandosi di muco il dorso della mano. «Ci credevo veramente!» Stringe una delle croci che gli scendono sul petto.
Oh, beh, poteva accorgersene prima di travolgermi con lui in questa cavolata. Venezia è piena di storie e superstizioni, ma nessuna vera magia. E glielo avevamo detto!
Mi avvicino a lui e recupero la pistola. Bene, ora comando io. Nella calle dietro di noi, gli zombi stanno avanzando. Le braccia tese. Le bocche aperte. I corpi che schioccano come ossa rotte. Urtano le pareti della calle e si colpiscono a vicenda.
«Merda!» Un piccione zombi sta attaccando Luca. Allarga le ali bucate e gli affonda il piccolo becco nel collo. Luca urla, si dimena, tenta di scrollarselo di dosso. «Aiuto! Aiutami!» Allunga una mano verso di me, ma io indietreggio. «No!» Tenta di afferrarlo, ma il piccione sbatte di nuovo le ali. «Diglielo! Digli del bus! Salvali!»
Il piccione gli riaffonda il becco nel collo. Un fiotto rosso schizza verso di me. Questo autobus dev'essere reale, o non sarebbe stato il suo ultimo pensiero… E ora vomito per davvero! Mi tremano le mani, o forse è soltanto il mio cuore che pompa il sangue troppo veloce. Stringo la pistola. Conosco vicoli e passaggi segreti, so come fare, posso tornare al taxi. Evito la piastrella rossa, in realtà si dice che porti soltanto sfortuna, e io di quella ne ho già troppa.
Esco dal sotoportego e qualcosa mi vola addosso. «No! Via! Via!» Agito le braccia sopra la testa. Delle ali ci sbattono contro. «Ti prego…» Avrei dovuto portare uno degli ombrelli… Urlo e il dito mi scivola sul grilletto. Lo sparo rimbomba tra le case. Piccoli pezzi di vetro si schiantano sulla strada. Il piccione si alza in volo e mi lascia in pace. Devo correre… «Ahi!»
Abbasso lo sguardo. Quello che prima ha beccato Luca mi ha colpito alla caviglia. Lo calcio via.
Mi viene da piangere, la ferita inizia già a bruciare e il sangue mi cola giù sulla scarpa, ma non posso fermarmi. Devo correre…

ooo

Gocce d'acqua mi schizzano sul viso, fredde come spilli.
«Sancta Maria, Mater Dei…»
Don Alvise? Spalanco piano le palpebre su piccole luci gialle e tonde. Ho la schiena posata su qualcosa di duro.
«Ora pro nobis-»
«Daghe da bevare un bicier de vin, se non ghe vien mal de stomego, alora no xe una de quele bestie.»
Bepi? Che cosa ci fanno qui?
«Che… Che…» Ho la gola così secca che faccio fatica a parlare, «Che mi è successo?»
«Povera stea.» La Marisa smette di sventolarmi con il libretto dei canti. È seduta a una panca di legno, a fianco di quella dove sono distesa. «Ti ha trovata Davide al cancello sul Ponte delle Guglie.»
Quindi alla fine ci sono riuscita, ho raggiunto un cancello, dato che il taxi se n’era già andato via… Ricordo di aver urlato e chiamato aiuto, di aver scosso le sbarre di ferro invano. Di aver nuotato attraverso il canale, a fianco al ponte, e poi?
«Come ti senti?» Davide abbassa lo sguardo su di me e i suoi ricci gli cadono sulla fronte. «Eri svenuta.»
«E disidratata.» Il dottor Boscolo mi punta la sua piccola pila sugli occhi. Serro le palpebre. «Non ti hanno morso, vero? Devo controllare.»
«Datele aria.» Davide lo blocca allungando una mano, «Lasciatela riprendersi.»
Con l'altra sta tenendo la sacca di una flebo e un tubicino con un liquido trasparente scende fino al mio braccio destro. Un brivido mi pizzica la schiena. Odio gli aghi. Mi puntello sui gomiti e Davide mi aiuta a mettermi seduta. Devo dirgli la verità, devo dirgli che mi ha morsa un piccione zombi. Mi guardo i piedi, qualcuno mi ha tolto le scarpe ma indosso dei calzini troppo larghi, neri, e di sicuro non sono miei.
«Va tutto bene, tranquilla.» Davide… Se mi ha trovata lui, forse i calzini sono suoi.
«Perché siamo in chiesa?»
Don Alvise tossisce. Nasconde l’aspersorio per le benedizioni dietro la schiena. Bepi lo colpisce al fianco con il suo bastone. «I voleva darte l'estrema unzion.»
«Perché sei andata laggiù?» Davide si inginocchia al mio fianco e mi tira a sé. Mi posa il mento sul collo e la sua barba mi fa il solletico. Mi concentro sulla teca con il corpo di Santa Lucia, dietro di lui. Mi borbotta lo stomaco. La pelle dei suoi piedi è marroncina proprio come quella degli zombi. Potrei vomitare… Non voglio diventare così, però… Gli poso le mani sul petto e lo stacco da me. «È una lunga storia, ma devo dirvi una cosa importante.» Prendo un lungo respiro, «C’è un posto più sicuro di questo sestiere.»
Delle note stonate partono dall’organo. Quella matta della signora Agata si è seduta sopra ai tasti. «L’ho visto anch'io.» Muove le dita come se potesse far apparire i suoi tarocchi come per magia, «Nelle mie carte.»
«Un autobus verde che raccoglie sopravvissuti…» Oh no, lo abbiamo detto insieme. Ma quella matta di Agata non può starsene zitta, una buona volta? Li guardo tutti… Mi crederanno? «Passerà a Mestre, questa Domenica.» Muovo il braccio con l’ago, non lo sento, e non mi da fastidio nemmeno la ferita alla caviglia… Un sorriso amaro mi tira le labbra. Ecco perché gli zombi mi hanno lasciata scappare, forse sto già diventando una di loro? Quel bagno nel canale sarebbe stato l'ultimo, loro non sanno nuotare…
Davide mi sfiora la guancia, «Come pensi che faremo ad arrivarci? E a che ora passerà?»
«Non so l’ora precisa, ma se ci organizziamo potremmo provare a salirci. Potremmo andare via da qui, liberarci da Moro e la sua banda.»
Il dottor Boscolo mi posa la mano sulla fronte. «Hai sbattuto la testa, ragazzina?»
Davide lo spinge di nuovo via. L'uomo si liscia il camice e ci rifila un’occhiataccia. «Dovrò pur visitarla! È stata nella zona con gli zombi.»
Stringo i pugni. E quando lo farà capirà che sono stata morsa, che per me è finita… Le lacrime mi pungono dietro gli occhi. Perché ho parlato come se potessi salire su quel bus anch'io?
Agata si avvicina alle panche. «Dice la verità. Il momento è giunto, verde come la speranza.»
«Potrebbe essere la nostra unica possibilità…» Li guardo tutti, ma solo Bepi sta sorridendo, accarezzandosi la pancia.
«Ghe xe el vin su sto bus?»
«Io… Credo di sì.»
«Ghe ndemo?»
«Sì! Dovete andarci, convincete anche Moro se necessario.» Mi fermo a guardare Davide. Ha gli occhi lucidi, ha già capito tutto. «Uniti potete farcela, fatelo per me.»
Loro almeno potranno salvarsi.
Invece io… Beh, io rimarrò a Venezia per sempre.
Tutto per colpa di una stupida piastrella.

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Andrea Furlan
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Re: Finalissima!

Messaggio#7 » sabato 15 febbraio 2025, 17:57

LE MURA DEL MILLE
di Andrea Furlan


Sono in piedi in mezzo alla strada ingombra di macerie. Corpi dimenticati sono sparsi a terra come giochi di un bambino distratto, coperti di mosche voraci.
Il caldo è soffocante, duro. Ho il fiato grosso per la fuga, il sudore che scende sotto le ascelle, mi bagna la maglietta strappata.
L’autobus verde arriva sobbalzando sugli ostacoli. Si ferma di fronte a me, apre la porta con un sibilo. L’autista mi guarda con un sorriso accogliente, facendo cenno di salire. Esito, chiedendomi per la centesima volta se sto facendo la cosa giusta.
Nella memoria, sento di nuovo il suo vocale.
“Sali su uno qualsiasi dei bus, ti porteranno da me.”
Papà, sto arrivando.

L’interno del mezzo è fresco, pulito. Mi ricorda la corriera che mi portava a scuola, prima che finisse tutto.
Ci sono quattro o cinque persone, sporche e spaventate, proprio come me. Mi lanciano uno sguardo veloce, diffidente, senza accennare nessun saluto.
Non mi fido, devo stare attento. Li supero, finché non mi siedo dietro a tutti.
Dal sedile davanti una bimba piccola, forse due anni, si arrampica e mi scruta, regalandomi un sorriso enorme. Gorgheggia, mentre la madre la recupera.
«Stefi, vieni qui. Lascia stare il ragazzo.»
Sulla trentina, occhi verdi e capelli neri, scarmigliati. La sua corporatura è normale, non è magra come i Tossici. Forse era anche stata bella, prima.
«Non si preoccupi, non mi dà fastidio. Sua figlia è carina.» Con uno sforzo sorrido a entrambe. Dopo essere stato solo con la Mamma per mesi è strano parlare con un’estranea così, come se niente fosse.
Il suo sguardo corre sul mio corpo, vede i vestiti sudati, le ferite, lo sporco. Credo che abbia deciso che sono come lei, perché continua a parlare.
«Sono Simona, lei è mia figlia Stefania. Andiamo in città. Dicono che c’è da mangiare.»
«Davide. Anche io vado là. Cerco mio padre, mi aspetta.»
Il bus fa un sobbalzo che non ci aspettiamo, frena all’improvviso. Stefania piagnucola, spaventata.
Siamo arrivati alla Porta.

È un battente unico di ferro arrugginito. Ai lati, le mura sono formate da auto schiacciate di tanti colori diversi, pannelli di metallo, travi di legno. I pezzi sembrano appiccicati alla meglio, ma devono essere abbastanza robuste se resistono alle cariche dei Tossici. In cima ci sono delle persone in mimetica, in mano fucili mitragliatori, pistole. Chissà dove li avranno trovati.
Le Mura del Mille.
Alle elementari mi avevano spiegato che le Mura erano la difesa della Bologna medievale, quando le città-stato erano gli unici posti civilizzati in mezzo a territori selvaggi, pieni di bestie feroci, banditi, malattie.
Oggi, nel 2030, è la stessa cosa, solo che delle mura di allora rimangono solo pochi tratti. Bisogna farle con i rottami, residui della nostra civiltà malata. Mille anni di scoperte e progresso, spazzati via in pochi mesi.
La Porta si apre, entriamo in una strada ampia, pulita, delimitata da palazzi alti. C’è ordine, sembra di essere tornati a prima, quando tutti andavano a scuola e a lavorare.
Il tragitto è breve e finisce in una piazza, dominata da un edificio largo e basso, con una grande cupola: il Palazzo dello sport.
Ci fanno scendere. Dei soldati ci scortano all’interno, dove un ragazzo poco più grande di me ci chiede la carta d’identità, compila qualcosa su un computer, poi spiega.
«Siete in quarantena per una settimana. I sintomi si sviluppano in massimo cinque giorni: se non succede nulla siete i benvenuti nella nostra comunità. Fino ad allora vi daremo da mangiare e da dormire, laggiù ci sono gli spogliatoi e le docce. L’unica regola, tassativa, è che non potete uscire da qui.»
Veniamo scortati in quello che una volta era il campo da gioco: una cinquantina di persone occupano brande sparse dappertutto. Molti di loro stanno usando i telefoni. C’è la rete!
Saluto Simona e Stefania con un sorriso. Le scortano a un posto lontano dal mio.
Appena mi posso sedere sulla mia branda detto subito un vocale.
“Sono nel Palazzo, Papà. Ti aspetto.”

Questa mattina sono arrivato in vista di Bologna dopo avere percorso campi, calanchi e colline. Le strade erano troppo pericolose, meglio andare lento ma senza correre rischi.
Sono sceso per una lunga strada a curve, passando vicino a ville decorate da ampi giardini. Erano quasi tutte sventrate, porte divelte e finestre rotte. Non mi sono azzardato a entrarci per cercare cibo.
I corpi sparsi ai lati della strada erano numerosi: tutti magri, con la pelle tirata. Molti avevano la lingua viola: dovevano avere preso un’ultima dose di Purpanyl prima di andarsene.
È andato tutto bene, finché non sono arrivato davanti alla scuola.
Una folla di Tossici camminava avanti e indietro: tutti piegati a S, come se non potessero tirarsi in piedi, si spostavano senza meta entrando e uscendo dall’edificio. Magri all’inverosimile, molti feriti, ma noncuranti.
Mi sono rifugiato dietro a un’auto, impaurito. Non sapevo come passare, dovevo studiare la situazione. Non ne avevo mai visti così tanti, tutti insieme.
Una ragazza aveva un braccio rotto, piegato all’indietro. Un bambino era in mutande, pieno di graffi e contusioni. Persone anziane si trascinavano, cadevano, poi ripartivano rialzandosi a fatica.
Ormai avevo imparato a distinguere i vivi dai morti. I primi, i veri Tossici, più magri del normale, in caccia di carne, o forse di una nuova dose. I secondi con gli occhi infossati, i muscoli ridotti a corde coriacee sotto alla pelle spaccata. Tutti con labbra e lingua viola.
All’improvviso ho sentito un ringhio, vicino. Un ragazzo alto, la faccia spettrale: indossava una maglietta nera bucata, che lasciava intravedere una ferita grave, con il sangue rappreso. Mi è corso incontro con le braccia alzate.
Sono scappato, ma mi ha afferrato un braccio. Ha fatto quel rumore di quando hanno fame e vogliono solo mordere.
Ho usato il coltello. Uno, due, tre colpi.
Solo la forza fisica con cui l’ho colpito gli ha fatto perdere la presa. Ho visto l’osso, il tendine tagliato, muscoli tirati a brandelli. Ma ha continuato a rincorrermi, senza sentire alcun dolore.
Sono scappato, certo che tutti gli altri mi avrebbero seguito.
Ho saltato una recinzione, scartato degli alberi in un giardino, poi un’altra rete, sono passato attraverso una siepe. L’unico modo per seminarli è rallentarli con gli ostacoli.
Prima di correre lungo una strada vuota, ho guardato indietro. Il ragazzo cercava senza successo di superare l’ultima inferriata, la mano ferita che non gli permetteva di arrampicarsi. Ma altri quattro o cinque stavano arrivando.
“Bologna vi aspetta. Salite sull’autobus. Vi porteremo al sicuro in cambio del vostro lavoro. Bologna vi aspetta…”
Il solito slogan dei bus verdi, in lontananza. Sono scappato in quella direzione, correndo veloce, riuscendo a seminarli.

Sono steso sulla branda, appisolato.
Nessuno mi considera e ho una stanchezza colossale. Combatto col sonno, non sono sicuro di potermi fidare.
È passato molto tempo, quando mi trovo davanti uno sconosciuto.
«Davide, sono qui.»
Giacca e pantaloni grigi, una camicia azzurra stazzonata. È grasso, con la barba lunga, quasi del tutto bianca. Ha pochissimi capelli, lunghi e disordinati. Lo riconosco solo dagli occhi, identici ai miei, e dalla voce.
«Papà. Sei davvero tu?»
«Certo Davide, mi sei mancato così tanto. Finalmente potrò prendermi cura di te.»
Mi abbraccia, lo sento singhiozzare piano, qualcosa mi bagna la guancia.
Non so cosa fare, mi stacco quasi subito, imbarazzato. Calcolo da quanto tempo non lo vedo di persona, sostituito da una serie infinita di messaggi al telefono: almeno cinque anni, decido.
Mi guarda da cima a piedi, come se avesse scoperto qualcosa di prezioso o volesse sincerarsi che stia bene. Sento le guance avvampare.
«Avrai fame. Vorrei portarti a casa, farti fare una doccia, darti dei vestiti puliti. Ma non puoi muoverti da qui, te l’avranno spiegato.»
Un senso di sollievo. Userò questo tempo per ambientarmi, riflettere.
«Non ti preoccupare, sto bene, sono solo stanco. Posso aspettare: fuori da qui non ho nulla da fare.» Un maldestro tentativo di fare una battuta, sorrido amaro, pensando che Mamma per una volta non mi aspetta.

Era già il terzo bus che passava vicino a casa, lanciando il suo messaggio registrato: nonostante fossimo in collina, lontano da Bologna, erano lo stesso frequenti. Lo guardavo nascosto dietro alle siepi del nostro giardino. Quel giorno faceva caldissimo, umido. Zaffate di putrefazione che arrivavano da chissà dove.
Era tutto pronto: avevo preparato lo zaino con cura, le armi che potevo recuperare, il cibo rimasto.
Mi ero girato un’ultima volta verso la nostra casa, fissando la finestra davanti, quella che usavamo per la vedetta.
«Mamma, devo proprio andare. Mi dispiace.» Un cenno di saluto.
Lacrime agli occhi, spaventato, ero uscito in strada.
La prima volta da quando era iniziata quella follia.

Giorni di sonno, noia. Un po’ di ginnastica per stare in forma. Tanti vocali di Papà.
Simona e Stefania sono già partite, le ho salutate con un po’ di dispiacere: siamo entrati in confidenza, abbiamo parlato molto e mi sono divertito a giocare con la piccola.
Ore passate a contare i nuovi arrivi e quelli che se ne vanno alla fine della quarantena. Un giorno, uno di loro si è trasformato: dormiva, poi all’improvviso ha attaccato una delle persone che ci portano da mangiare. Il Servizio d’Ordine, quelli in mimetica, gli hanno sparato sul posto.
Una settimana è stata eterna, ma ormai è finita.
Mi viene a prendere, un sorriso sulle labbra. Sembra felice.
Ripenso alla faccia della Mamma quando parlava di lui, a tutte le cose cattive che gli diceva: erano un sottofondo continuo a cui non facevo più caso. Ricordo bene solo due parole, che ripeteva spesso: bugiardo arrogante.
È l’unico che mi è rimasto, ma ancora quella domanda mi tormenta: posso fidarmi?
Usciamo in un mattino pieno di sole, lo seguo a piedi su marciapiedi vuoti, spettrali. Una folata di vento mi porta una puzza terribile, diversa dall’odore dolciastro dei Tossici in decomposizione. Mi ricorda l’odore che si sentiva in autostrada, quando andavamo in montagna.
Non ci fa caso e continua a camminare. Avrei un sacco di domande, ma parla molto e preferisco ascoltare. Capire meglio, aspettare.
«Siamo circa diecimila, ma potremmo accogliere molte più persone. Se avessimo più gente gestiremmo tutto meglio, gli allevamenti, l’energia, la difesa. Per questo i bus raccolgono gente di continuo, li salviamo e loro ci aiutano. Il cibo non manca per fortuna. Dopo un inizio caotico, il Consiglio si è preso la responsabilità di coordinare la città. Ora le cose vanno abbastanza bene, ma possiamo sempre migliorare.»
Si ferma di fronte a un portone di legno come tanti, sotto a un portico sporco.
La casa è un appartamento con due stanze, un soggiorno ampio con la cucina a vista. L’arredamento è scarso, essenziale, senza personalità. Alle pareti ci sono vecchi quadri scoloriti: me ne ricordo qualcuno da quando ero bambino.
In camera sua, c’è una foto appesa al muro, ricavata dalla copertina di un giornale. Un politico noto, credo si chiamasse Matteo Salvini, in piedi su un palco, sanguinante dalla testa. La mano stretta a pugno, un urlo silenzioso sulla bocca, mentre una decina di persone in abito scuro sembrano trattenerlo.
Ricordo l’episodio, visto alla televisione appena prima che iniziasse tutto. Mi sono sempre detto che le guardie del corpo dovevano avere un gran sangue freddo, per proteggerlo con il loro corpo dopo che avevano tentato di ucciderlo.
Il solito commento di Mamma mi torna in mente: «Che figlio di puttana, si sarà fatto sparare apposta, per vincere le elezioni.»
Le aveva vinte davvero. Poi l’Apocalisse era cominciata, e Salvini aveva istituito le leggi speciali: i militari avevano preso il controllo del paese, mentre i Tossici distruggevano tutto quello che conoscevamo.
Lei lo chiamava “bugiardo arrogante”, proprio come faceva con Papà.
Si accorge che sto fissando la foto, perso nei miei pensieri. Ha un sorriso rassicurante.
«Un momento chiave, che ci ha portato dove siamo ora. Se non avesse preso in mano la situazione sarebbe andato tutto a rotoli. Ormai ogni città si auto gestisce, ma il nostro Consiglio è in contatto con il Governo e applica le sue direttive, soprattutto per la sicurezza.»

Nei primi giorni in cui ci eravamo chiusi in casa, Mamma era strana: dimenticava di fare le pulizie, cucinava poco, svogliata, non controllava più i miei compiti. Un giorno si era tagliata con un coltello mentre preparava qualcosa e non se n’era accorta, le avevo dovuto dire io che stava sporcando tutta la cucina di sangue.
Mi è venuto il dubbio, l’ho osservata. Finché non l’ho vista prendere qualcosa dal suo comodino.
Sono corso, le ho fermato la mano. Aveva due pastiglie viola fra le dita. Purpanyl.
«Mamma, cosa stai facendo?»
«Lasciami stare. Ne ho bisogno.» Una sfumatura viola stava comparendo attorno alla sua bocca.
«Ma sei sicura? Non sarà pericolosa?»
«No, Davide, mi fa bene.» Un sorriso breve, che è sparito subito. «Non ho più mal di testa, sono guarita.»
Soffriva di emicrania da quando Papà era partito. In quel momento sembrava serena, ho pensato che quella roba le potesse fare davvero bene.

Abbiamo sistemato le cose nella mia camera, poi Papà mi ha portato agli allevamenti.
Avvicinandoci al recinto, la puzza è diventata quasi insopportabile. Forti grugniti, sembrano urli che mi fanno paura. Saliamo una scala per vedere meglio: c’è un grande spiazzo dove migliaia di maiali sono in fila, legati a corte catene. Enormi, grassi e muscolosi. Ci sono persone che portano il cibo o puliscono gli stalli, caricando su dei camion le deiezioni.
Papà ha uno sguardo orgoglioso e nessuna fretta di andarsene. Osservo con calma: noto che gli animali sono pieni di ferite, cercano di mordersi fra loro, ma le catene glielo impediscono.
«Questo è il motore della nostra nuova civiltà: ci danno carne per mangiare e biogas per l’energia elettrica. Così Bologna è sicura e possiamo vivere bene, ci manca solo più manodopera per allevarne a sufficienza. Per fortuna ho deciso di non scappare come hanno fatto molti: all’inizio mi sono reso volontario per lavorare qui, e ora sono parte del Consiglio.»
«Ma questa è la zona vicina alla Stazione? Mi ricordo che tanti anni fa venivamo da queste parti il sabato, a comprare delle cose.»
«Esatto. Abbiamo abbattuto gli edifici per fare spazio. È stata una mia idea.» Lo dice con orgoglio.
Noto che gli animali hanno un alone viola sul muso. «Che cos’è quel colore che hanno attorno al naso?»
«Hai un bello spirito di osservazione, bravo. Nel mangime gli diamo piccole quantità di Purpanyl: il medicinale induce una modificazione genetica che li fa ingrassare più in fretta. Senza, non ne avremmo abbastanza per tutti.» Ancora uno di quei sorrisi ambigui. «Ma non ti preoccupare, sappiamo che nelle persone agisce in modo diverso. Abbiamo fatto molti test, ed è chiaro che la loro carne si può mangiare senza problemi.»
Alcuni maiali si muovono in modo strano, mi ricordano i Tossici già morti. Mi fanno impressione.
«Papà, andiamo via, per favore.»

Ho dovuto starle dietro, aiutarla sempre di più.
Ha smesso di lavarsi, di mangiare. Se non ci fossi stato io, sarebbe stata tutto il giorno a letto.
Ogni tanto apriva il cassetto del comodino e prendeva una pastiglia.
«Ne ho bisogno, Davide. Se non lo prendo, il mal di testa mi torna subito.»
Ne aveva una scorta, prescritta come antidolorifico dal nostro medico, prima che il mondo cambiasse.
A un certo punto, ho notato un cambiamento. La pelle si è affossata, tirata sui muscoli. Le sue labbra sono diventate sempre più viola.

Sono passate le settimane, la vita a Bologna con Papà è tranquilla: va alle riunioni del Consiglio o a lavorare agli allevamenti, un posto dove non vado volentieri. Ripensare ai maiali incatenati, feriti, mi mette agitazione.
Mi hanno messo al lavoro nel gruppo che si occupa di costruire e mantenere le Mura. Mi sento utile, anche se a volte è faticoso e preferirei riprendere la scuola.
Come dice Papà, siamo pochi e ognuno deve dare il suo contributo. Non fa altro che parlare dei piani per richiamare più persone in città, che in effetti sembra sempre semi deserta, e anche di come ci sia bisogno di rinforzare le difese. Ci proteggono dalla follia che regna all’esterno.
Il mio rapporto con lui è migliorato: mi fido di più, anche se ho l’impressione che qualcosa mi sfugga. Spesso sparisce senza dirmi dove va e non risponde alle domande. Ma non insisto: ho bisogno di tornare alla normalità, di punti fissi. Anche di lui, che non ho visto per tanti anni.
Oggi pomeriggio mi hanno assegnato a quella che una volta era la Zona Universitaria: non ci sono ancora stato, dicono che da quelle parti le Mura siano ancora quelle originali e si tratta solo di fare manutenzione.
Mi perdo nei dedali del Centro, finché non arrivo in un’ampia via piena di cumuli di foglie e spazzatura.
Una donna mora esce di corsa da un palazzo abbandonato, si avvicina.
«Davide, sei tu?» La sua voce è nota. «Devi aiutarmi, me l’hanno portata via.» Mi abbraccia, disperata, fa cattivo odore come i senza tetto che una volta abitavano i portici della città. Quando alza il viso la riconosco.
«Si…Simona? Cosa ti è successo? Dov’è Stefania?»
«L’hanno presa loro, perché li ho scoperti. Ho parlato con uno che guida i furgoni: li riempiono di quelle pastiglie viola, poi le distribuiscono fuori dalla città, nelle vecchie scuole: sono loro che spandono l’epidemia. L’ho spiegato a tutti quelli che ho incontrato, ma mi hanno portato via la mia bambina per farmi stare zitta. Dobbiamo scappare, ti prego, aiutami!» Ha parlato in fretta, con le lacrime agli occhi, come se non avesse tempo.
All’improvviso un’auto del Servizio d’Ordine esce da una strada laterale. Scendono due uomini in mimetica, con il giubbotto antiproiettile, armati.
Simona scappa.
Sparano, la colpiscono alla schiena.
Poi sento un dolore fortissimo a una gamba.
Cado.
Buio.

Mamma si era addormentata. Da giorni. I muscoli erano diventati corde dure, era magra, pallida, uno spettro.
Mi sembrava che a tratti non respirasse neanche, poi riprendeva. Non riuscivo più a svegliarla: ci avevo provato in ogni modo, l’avevo anche schiaffeggiata, mentre piangevo.
Ero sdraiato senza forze al suo fianco, poi un rumore. Una specie di basso ringhio.
Mi ha aggredito, cercando di mordermi un braccio. L’ho afferrata: aveva le labbra viola tirate in un ghigno, un’espressione avida negli occhi rossi.
Abbiamo lottato, poi l’ho gettata giù dal letto. Sono scappato in cucina, sentendo che mi inseguiva.
Ho fatto in tempo a prendere un coltello, girarmi.
Stava per mordermi, ma la lama le è entrata nel petto con uno schiocco.
Siamo caduti, il suo viso a pochi centimetri dal mio.
Ho visto i suoi lineamenti distendersi. Per un attimo è tornata quella che conoscevo.
Ed è morta la seconda volta.
L’ho seppellita nel giardino lo stesso giorno in cui sono partito, perché nessun Tossico possa mai prenderla.

Mi sveglio intontito, sdraiato su una barella in un posto che sembra un ospedale.
Una ragazza vestita di bianco prepara una flebo piena di liquido viola, infila l’ago nel mio braccio, mi traffica attorno per un po’. Non la conosco, quindi non ha senso dirle qualcosa. Poi arriva lui.
Li vedo come da una certa distanza. Parlano di me, ma sembra che raccontino la storia di un’altra persona.
«Come va?» La voce di Papà sembra preoccupata. Non capisco perché, in fondo non sento dolore, solo un po’ di fastidio alla gamba destra.
«La ferita è brutta, si è infettata. A quanto pare è rimasto a terra per diverse ore: il Servizio d’Ordine credeva che fosse insieme a quella pazza, hanno aspettato troppo. Gli abbiamo dato una dose massiccia. Ora dobbiamo operarlo, forse amputare.»
Stefania, gli spari. Ricordo tutto, come in un film alla televisione.
I segni del sangue di Mamma in tutta la cucina, quando si è ferita col coltello. Amputare? Vuol dire perdere la gamba, ne sono sicuro. Sta davvero succedendo anche a me?
«Certo, tenetelo sedato. Potrebbe avergli detto quello che ha scoperto, meglio non rischiare.»
Papà si accorge che ho gli occhi aperti. Sorride.
«Andrà tutto bene, Davide. So che non senti dolore. Guarirai presto e starai sempre con me: non sarai più solo. E nemmeno io.»
Non rispondo, mi sembra superfluo. Tranquillo Papà, qui mi sento al sicuro.
Dentro alle Mura di Bologna non può succedermi nulla.

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Manuel Marinari
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Re: Finalissima!

Messaggio#8 » sabato 15 febbraio 2025, 22:31

(Ho seguito il suggerimento di chi mi ha commentato e così ho rivisto soprattutto l'incipit. Mi sembra molto migliorato, adesso. Dovrei aver trovato quella coerenza narrativa che mancava con il resto della storia.)

Finché morte non ci separi

Il profumo delle rose e delle orchidee che ricoprono l’altare mi donano una sensazione di freschezza sulla pelle. Ma da quando hanno chiuso il portone e la chiesa si è riempita di tutti gli invitati, l’aria è cambiata. La cosa strana è che la gente sembra puzzare di formaggio. Va bene che siamo in estate e in Sardegna fa anche più caldo rispetto che dalle mie parti, ma questo odore di ascella sudata è insopportabile.
Non parliamo di don Leonardo, in piedi davanti a me e Arianna, che suda come un porceddu sul girarrosto. Ho il naso all’altezza delle sue ascelle pezzate, e puzzano da morire.
Vediamo di finire in fretta questo rito nuziale e usciamo al più presto fuori di qui. Mi manca il respiro, santo cielo!
«Mi scusi» bisbiglio al prete, interrompendo il suo noiosissimo sermone «non è che si potrebbe accelerare un po' tutta la faccenda? C’è un puzzo qua dentro...»
Arianna mi stringe la mano e mi lancia un’occhiataccia.
«Che c’è? Non riesco più a resistere. Tu questo odore non lo senti?»
«Sopporta e stai zitto!»
Sorrido a furbetto a don Leo e gli faccio l’occhiolino. Speriamo abbia capito di darsi una mossa.
Si sgranchisce la voce e riparte. «Carissimi Marco e Arianna, siete disposti ad amarvi e onorarvi l’un l’altro, in salute e in malattia, finché morte non vi separi?»
Bravo, dritto al punto, ma la frase non la dicono più così da un pezzo. «Scusi, don Leonardo, ma non l’avevano cambiata? Ora si dice “per il resto della vostra vita”.» Va bene che il matrimonio è la tomba dell’amore, ma già che ci siamo, mettiamo dei crisantemi al posto delle rose e facciamola finita qui!
«Oh, che sbadato, scusatemi, dev’essere per colpa di questo caldo.» Le sue guance sono rosse come peperoni. Ora il porceddu è bell’e che arrostito! «Siete disposti, quindi, ad amarvi e onorarvi, per il resto della vostra vita?»
Sorrido ad Arianna, lei ricambia e ci rivolgiamo, insieme, al parroco. «Sì.» Una promessa è per sempre.
La mano di Arianna trema così tanto che faccio fatica a infilarle l’anello al dito.
«Marco Ricciardi e Arianna Pinna, io vi dichiaro, marito e moglie. Adesso, può baciare la sposa.»
Uno scroscio di applausi rimbomba nella chiesa e l’organo suona la classica melodia nuziale.
Le labbra di Arianna sono morbide, profumano di vaniglia; i boccoli le cadono sulle clavicole scoperte. Il vestito bianco risalta il colore olivastro della sua pelle.
Ci siamo sposati, non ci credo!
Mi spiace solo che non siano presenti i miei amici e neanche la mia famiglia. Da ieri tutti i trasporti verso la Sardegna sono bloccati, per fortuna che almeno noi abbiamo preso l’aereo appena in tempo. Dicono che sia a causa di un virus molto più letale della pandemia di una decina di anni fa.
Comunque sia, oggi, 23 giugno 2030, è una data che sono sicuro ricorderemo per sempre.

Usciamo dalla chiesa e uno sciame di finissimi chicchi di riso ci investe. Almeno duecento persone si divertono a lanciarcelo in testa. Per la maggior parte sono amici del padre di Arianna, il signor Bastiano Pinna, uno degli imprenditori più ricchi della Sardegna. Anzi, di Porto Cervo, perché ci tiene parecchio a distinguersi con il resto del popolo sardo. Soprattutto con i pastori dell’entroterra.
Aiuto Arianna a togliersi il riso dai capelli e qualcuno mi picchietta la schiena. Un vecchietto si alza gli occhiali da sole sui capelli impomatati color argento rivelando due occhi rosso fuoco. Si tiene la giacca blu, con due dita, dietro la spalla. La camicia bianca è impregnata di sudore e puzza di formaggio ammuffito.
Da come mi squadra deve avere i raggi X, ecco il perché di quel rosso. «Uè, ragazzo, fai un giro su te stesso, dai.»
Come, scusi?»
«Ho detto, girati, fatti vedere come sei conciato.»
Ma che vuole questo? Lo accontento solo perché non voglio essere scortese con gli amici della famiglia di Arianna.
«Ascolta una cosa.» Mi appoggia la mano pesante sulla spalla, ha la pelle oleosa. «Ora che sei sposato con la figlia del mio socio, gli abiti te li vieni a comprare nei miei negozi, che sembri uscito da un outlet per barboni. Capito, testina?»
Le guance mi prendono fuoco. Ma che vuole da me?
Sull’altra spalla si appoggia una mano leggera come una piuma. «E dai, Flavio, non importunare mio marito.» Arianna se la ride. Ma chi è questo qua?
Aspetta un po'... Flavio? Ma certo, questa mummia è Briatore! Quando le persone famose le vedi in TV, tutte truccate, o sui social, mascherati dai filtri di bellezza, fanno un certo effetto. Dal vivo, beh… non è che siano messi tanto bene! Le sue ascelle puzzano di spazzatura abbandonata sull’asfalto. E ha il coraggio di criticare me?
«Ajò, Flavio, lascia in pace i novelli sposi. Oggi la loro festa è!» Ci raggiunge mio suocero, ci fa l’occhiolino. Anche Bastiano ha gli occhi rossi come peperoni. Ma che si sono fumati?
Si fanno una grassa risata e, come niente fosse, spariscono tra gli invitati. Sembrano strafatti.
Arianna mi abbraccia e mi sussurra all’orecchio. «Non te la prendere, amore. Flavio è un gran burlone, è... fatto così.»
«Fatto sembra fatto…»
«E dai, non fare lo scemo.»
Scoppiamo a ridere.
«Ti amo, Arianna»
«Anche io, Marco.» Sbatte le ciglia «Ti aspetterei sull’altare ogni giorno della mia vita.»

Ci avviciniamo al dolce nuziale, una piramide a cinque strati di mille foglie. Impugno con fatica il manico del coltello, ho la vista annebbiata dal troppo vino. La mano di Arianna si appoggia sopra la mia.
Gli invitati, in cerchio, alzano i calici al cielo. «Viva gli sposi!»
La festa va avanti da ore. È tutto perfetto.
Tranne per quel fetore. Non può essere Briatore, è lontano da me, disteso su un divanetto a bere del vino, con Bastiano e altri uomini d’affari, circondati da un gruppo di modelle. Come fanno a stargli vicino con quel puzzo di ascella che si ritrova? Poi dicono che i soldi non fanno la felicità...
«Vieni, papà!» Grida Arianna. «Tagliamo la torta.»
Bastiano si alza a fatica dal divanetto e barcolla verso di noi. Si fa spazio tra gli invitati per raggiungerci. Non mi pare che abbia un bell’aspetto, ha la pelle del viso quasi grigia. E quegli occhi rossi che sembrano due tizzoni di lava incandescente.
Non sta bene. Per niente.
«Papi, tutto bene?» Arianna mi lascia la mano e corre da lui.
Avrà mica un infarto? Mi affretto verso di loro.
Lui abbassa il capo, il mento appoggiato sul petto. Un filo di bava gli penzola dalla bocca e gli cola sulla cravatta azzurra.
«Papà, che cos’hai?» Arianna trema.
Bastiano non risponde, anzi, borbotta parole incomprensibili, è più un lamento quello che esce dalla sua bocca.
Si accascia sul prato, faccia a terra. Accidenti, che botta!
Una donna urla e tutti gli si fiondano intorno.
Arianna si inginocchia e avvicina l’orecchio alla bocca di suo padre. «Non respira, fate qualcosa!» Due uomini lo voltano supino, gli strappano la camicia e iniziano un massaggio cardiaco.
Dalla bocca di Bastiano esce un getto di sangue che finisce dritto sotto la scollatura del vestito di Arianna. Si porta le mani al viso, le sue urla si propagano per tutto il locale.
«Qualcuno chiami un’ambulanza, cosa state qui a guardare?» Urlo, ma la mia voce è soffocata dall’angoscia che mi preme sul petto. Gli invitati sembrano intontiti, hanno tutti quegli occhi rossi. E poi c’è quel tanfo di marcio nell’aria, sempre più forte.
I due uomini interrompono il massaggio e si allontanano da mio suocero. Si controllano le mani, sono unte, come se il corpo di Bastiano trasudasse grasso, come quando lasci il formaggio fuori dal frigo.
«È morto.» Bisbiglia uno dei due, asciugandosi le mani sui pantaloni.
«No, non può essere! Qualcuno faccia qualcosa!» Arianna si accascia sul corpo di suo padre, lo abbraccia e grida, disperata.
Cala il silenzio.
I piedi di Bastiano si muovono. «Visto? Ve lo avevo detto che era vivo!» Le gambe iniziano a tremargli, ma sono movimenti innaturali, convulsi.
«Cahrtnee» Parole incomprensibili sembrano giungere dall’oltretomba.
«Papà è vivo!»
Eppure c’è qualcosa di strano.
Bastiano spalanca gli occhi, i bulbi oculari si sono ingialliti. Ha gli occhi marci!
«Arianna, allontanati subito.» Non faccio in tempo a dirglielo che Bastiano alza il busto da terra e le stringe le mani al collo.
«CAAARNEEE»
Ha gli occhi spiritati, la mascella rigida. È mostruoso e… puzza di morte.
Alcune persone fuggono via, urlano stridule. Altre, invece, cadono a terra, come Bastiano, una dopo l’altra.
Il prato è una distesa di corpi. Ma cosa sta succedendo?
«Marco, aiutami, ti prego!» Arianna sta soffocando, stretta al collo dalle mani di suo padre.
Riesco soltanto a sfiorarle la mano, ma è troppo tardi. Bastiano le morde il collo, le strappa via pezzi di carne maciullata. Il sangue zampilla come una fontana.
Arianna piega la testa verso di me. Nei suoi occhi, un misto di amore e terrore.
Suo padre la getta a terra, come un fazzoletto usato imbrattato di sangue.
Senza vita.
Cristo santo!
Il mio corpo sembra ricoperto da uno strato di ghiaccio, rigido. Non riesco a muovere un dito.
Un conato di vomito mi risale su e rovescio la cena sulle scarpe.
Inizio a tremare e mi rendo conto soltanto adesso di avere il coltello ancora in mano. Finalmente riesco a sbloccarmi e a reagire. Non ci penso due volte e lo pianto in mezzo al petto di Bastiano. La lama lo trapassa, come fosse burro. Dalla carne lacerata non esce sangue, ma un fluido verdastro.
Sto per vomitare di nuovo.
Bastiano si scuote, non sembra provare dolore. Guarda per un attimo il coltello piantato al centro del petto, poi me. «CAAARNEEE»
È ancora vivo, com’è possibile?
Barcolla con le mani protese in avanti. Sembra uno zombi. Un cazzo di zombi!
Indietreggio, con la testa tra le mani.
Le persone a terra sembrano in preda a convulsioni, le gambe tremanti. Si rialzano. Hanno tutti quegli occhi ammuffiti.
«CAARNEEE»
Devo provare a salvare Arianna, forse è ancora viv… un altro mostro mi si para davanti. È Briatore, mi blocca la via d’uscita. «CAAARNEEEE»
Zoppica. Ha la pelle del viso verdastra e la bava alla bocca. Ecco cos’era quel fetore, i loro corpi si stavano decomponendo!
Non ho più armi ora, cosa posso fare?
Corro verso il tavolo e alzo il vassoio della torta. Cazzo se pesa! Mega farcita di panna, proprio come la voleva Arianna. Briatore ciondola verso di me, dietro di lui Bastiano e un’altra decina di invitati. O quel che rimane di loro.
Si avvicinano, vogliono mangiarmi. «CAARNEEE FREEESCAAA»
Lancio la torta e li prendo in pieno. Cadono uno sopra l’altro. Provano a rialzarsi, ma scivolano sulla panna e finiscono di nuovo a terra.
Devo fuggire, qui è il finimondo.
Corro via, senza voltarmi.
Senza Arianna.

Ho il cuore in gola, il sangue mi ribolle di paura e rabbia.
Mi trovo nel parcheggio. Dove sono finiti tutti gli invitati? Non è uscita neanche una macchina da qui.
Devo allontanarmi, e in fretta anche.
Cosa posso fare? Forza, fatti venire un’idea!
Ma certo! La Mercedes di Bastiano! Apro lo sportello e mi metto alla guida. Le chiavi sono già inserite, nessuno si permetterebbe mai di rubare l’auto di mio suocero.
Metto in moto, faccio retromarcia e sbatto il posteriore su una siepe. Ingrano la prima e schiaccio l’acceleratore a tutto gas nel vialetto alberato che porta al cancello d’uscita.
Una donna anziana, in tailleur fuxia, mi si para davanti. «Si tolga di mezzo!»
Inchiodo, le ruote sgommano sulla ghiaia.
Da dietro le siepi del vialetto spuntano altre persone. Sono gli invitati, si mettono davanti al cancello. Cosa stanno facendo?
«CAAARNEEEE» Il coro è rivoltante, posso sentirli a una cinquantina di metri da me.
Vivi o morti, non mi importa, devo salvarmi il culo.
Pronti, partenza, via! Spingo il piede sull’acceleratore e parto a tutta velocità. La vecchia è la prima a essere investita. Saltano tutti in aria come birilli. Sembra di stare alla guida di uno spazzaneve, soltanto che ai bordi della strada si accumulano corpi putrefatti.
Supero il cancello. Ce l’ho fatta! Sono fuori.
L’apocalisse è scesa in terra, Arianna è morta e adesso, non ho la più pallida idea di dove andare.

Le prime luci dell’alba colorano di arancione il cielo. Da quanto sto guidando senza meta?
E come ho fatto ad abbandonare Arianna? E se fosse stata ancora viva? No, è impossibile.
E se anche lei fosse diventata una di quelli? Mi sembra di vivere un incubo.
Il sole si specchia sul cartello della ss131, una strada piena di buche che fa sobbalzare l’auto ogni poche decine di metri. Lo stomaco era già in subbuglio, ma così non gli do tregua.
La spia della riserva di carburante si è accesa da un pezzo, non posso rischiare che l’auto si fermi in mezzo al nulla. Se rimango a secco sono finito.
Ai lati della strada ci sono soltanto campi interminabili e non vedo anima viva… o morta.
Mi si chiudono gli occhi.
Un altro cartello indica un paese nelle vicinanze.
Lula.
Potrei raggiungerlo e chiedere aiuto. Imbocco l’uscita, attraverso paesaggi in collina. L’adrenalina sta scendendo e la stanchezza mi fa socchiudere gli occhi.
Scuoto la testa. Devo restare sveglio.
Un autobus verde percorre la strada. Finalmente, posso chiedere aiu… le palpebre si abbassano e la testa pure. La fronte preme sul volante in pelle della Mercedes. Com’è morbida, anche meglio del mio cuscino...
Un botto. Rumori metallici che stridono.
Buio.

Sbatto le palpebre, la testa mi gira come se fossi sopra una giostra. Nell’aria c’è ancora quell’odore di formaggio ammuffito.
Sono sdraiato su un letto di paglia, all’interno di un capannone di lamiera, sembrerebbe un fienile. Cosa ci faccio qui?
Devo alzarmi. Piego un braccio per fare leva, ma non si sposta di un centimetro. Ho polsi e caviglie legate. Non possono essere stati gli zombi, a quest’ora avrei la pancia squarciata e le budella srotolate a terra. Allora, chi?
Dalla porta del fienile entra qualcuno. «Ehi, Nicola! Su sposu si è svegliato, finalmente.» Un uomo di bassa statura, dall’accento sardo molto marcato, indossa una camicia a quadri marrone, un gilet e una coppola in testa. Si siede su uno sgabello di legno. Mi fissa.
«Buongiorno! Minca, dormita che hai fatto.» Un altro, più alto, con dei folti baffoni e abbigliamento simile, varca la soglia. Porta con sé una grossa forma di formaggio. Che tanfo! Si siede anche lui di fronte a me. «Casu marzu, ne vuoi?»
«Chi siete? Perché mi avete legato?» Ho il battito accelerato, i muscoli di tutto il corpo intorpiditi. Da quante ore sono sdraiato qui?
«Ajo! Non ti agitare che ora ti raccontiamo.» Quello alto coi baffi sembra il capo qua dentro. «Noi, pastori di Lula siamo. Bertu, quest’uomo qui accanto a me, guidava la corriera mentre andavamo a salvare le persone nel paese qui vicino. Attaccati dagli zombi sono stati. E così, ti abbiamo trovato, in un Mercedes sfasciato contro al muro.»
«Quindi lo sapete anche voi? Li avete visti? Gli zombi hanno ucciso mia...»
Si toglie il cappello e si gratta la pelata. «Eja, tua moglie. Un disco rotto sei. La storia la conosciamo bene. Ti chiami Marco e tuo suocero ha morso ad Arianna. E Briatore… lasciamo stare… meglio che non dico quello che penso di lui.» Sputa a terra.
«Cosa? Ma per quanto tempo ho dormito?»
«Mischinu, sono due settimane che parli nel sonno!»
«Che cosa?» Faccio per sbattermi la mano in fronte ma le corde sono troppo strette. «Perché mi avete legato? Liberatemi!»
I pastori mi guardano con sospetto.
«Prima di slegarti dobbiamo verificare se anche tu sei uno di loro. Tu che dici, Bertu?»
«Uno di loro?» Sto per vomitare. «Di cosa state parlando?»
Quello più basso si gratta il mento. «Mmh, non so. Ho un’idea, Nicola! Perché non gli facciamo il test che abbiamo fatto allo zio Gratzianu?» Il pastore si segna. «Patre fizzu e ispiritu santu
«Ajo! Bravo Bertu, aspetta che vado a prendere la pecora.» Nicola si alza e esce dal fienile a passo svelto.
Bertu tira fuori un coltellaccio e struscia la lama sui pantaloni di stoffa.
Una gocciolina di sudore mi cola dalla tempia. E non scende per il caldo afoso che fa qua dentro. Prima gli zombi, adesso i pastori. Perché tutti quanti vogliono uccidermi?
Il pastore taglia in due la forma di formaggio. Decine di vermetti marroni si dimenano all’interno. Bertu se ne mette in bocca un pezzo, poi risponde con la bocca piena. «Conosci il casu marzu
Inarco le sopracciglia. «Non vorrete mica farmelo mangiare?»
Mi scruta, i suoi occhi scuri si fanno arcigni. «Lo sapevo! Lo dicevo a Nicola che eri uno zombi! Preferiresti mangiare la pecora, eh?»
Nicola fa ritorno nel fienile, seguito da un tanfo nauseabondo. Ancora quell’odore di… «Porca eva! Cos’è quel mostro?»
Nicola tiene al guinzaglio una pecora spelacchiata. Ha la pelle piena di bolle, zoppica, le manca una zampa. Un occhio gli penzola dall’orbita, la pelle del muso sembra liquefarsi.
«È una pecora zombi, poverina.»
«Ragazzo, ascolta bene» Nicola tira fuori il coltello. «Lo zio Gratzianu ha rifiutato il formaggio e ha preferito mangiare la zampa marcia della pecora. Ti rendi conto? Chi rifiuterebbe un pezzo di casu marzu? Bertu ha dovuto abbattere lo zio. Mischinu
«Allora, preferisci il formaggio o la pecora?»
Questi sono pazzi. «Avanti, datemi il formaggio e slegatemi.» Mai avrei pensato di mangiare un formaggio con i vermi dentro.
«Ajo! Tutto lo devi mangiare, altrimenti...» Bertu strofina la lama del coltello sui pantaloni.
Non voglio pensare che lo zio Gratzianu sia stato ucciso con quel… «Se lo mangio, mi slegherete?»
«Parola di pastore.»
Bertu si avvicina col coltello verso di me. Strizzo gli occhi e prego.
«Intanto ti slego le mani, così puoi prendere il formaggio. Se lo mangi ti slego anche i piedi.»
Per ora l’ho scampata.
Una bolla sul collo della pecora scoppia. Del pus verde schizza per aria e per poco non finisce sopra il formaggio. Ci mancava la salsa da spalmare sopra!
Ne prendo un pezzo e lo avvicino alla bocca, il verme mi penzola a pochi centimetri dal naso. E pensare che Arianna, in cinque anni di fidanzamento, non è mai riuscita a farmelo assaggiare. Se solo fosse viva, sarebbe fiera di me, adesso.
Lo infilo in bocca, mastico e butto giù. È forte e pungente, quasi piccante e tutto sommato, non è così male.
I pastori tagliano le corde. Sono libero. E vivo.
Adesso resta soltanto una cosa da fare.

Dopo aver pranzato con porceddu e pecorino insieme ai pastori di Lula, sono pronto per andarmene da qui.
Esco dal fienile, una ventina di pastori, armati di fucili e grossi coltelli, si sono radunati intorno a un bus verde. Mi avvicino a Nicola e Bertu. «Quindi siete in partenza per la caccia agli zombi?»
«Eja, a Porto Cervo andiamo. Si è sparsa la voce di alcuni turisti in fuga dagli zombi. Li prendiamo e li portiamo al traghetto, in continente torneranno. Vieni con noi? Anche tu a casa potrai tornare.»
«Verrò con voi.» Stringo la mano a Nicola. «Ma mi fermo lì, ho un’ultima cosa da fare.»
«A Porto Cervo solo zombi troverai. Minca, sei pazzo?»
«Me la caverò, non vi preoccupate.»
Un pastore trascina una pecora per le orecchie e grida. «Ne è morta un’altra! Tra non molto si sveglierà zombi. L’unico modo è tagliare via la testa.» Sfila il coltello dalla tasca e sgozza la pecora. Si forma un lago di sangue a terra, è ancora rosso.
Ne ho visto talmente tanto ultimamente, che quasi inizio ad abituarmi.
Ho un’idea! «Avete un pennello?»
Bertu corre nel fienile e fa ritorno. Intingo il pennello nel sangue e inizio a scrivere sulla carrozzeria verde dell’autobus.
«Ajo, che stai facendo?»
A caratteri cubitali, la grande scritta rosso sangue non passerà inosservata. «Così salverete tante più persone adesso.» Lascio cadere il pennello sulla terra.
Nicola legge la scritta. «ZOMBIBUS» Poi batte le mani, gli altri pastori lo seguono. «Mi piace. Ajo! Montate sopra lo Zombibus che a Porto Cervo Su Sposu portiamo!»
«Tieni, prendi un po' di casu marzu. Avrai bisogno di forze per quello che vorrai fare.» Nicola mi da una pezza di stoffa. Puzza come un cadavere.
Aspetta un po'...
Salgo sopra e mi siedo da solo, in fondo al bus. Mi voglio godere il paesaggio. Questo sarà il mio ultimo viaggio.
Apro la pezza. Il tanfo di formaggio invade lo Zombibus e i pastori si voltano, sorridenti. Me lo strofino sulle braccia, sul collo e sotto le ascelle.
Sono sicuro che funzionerà.

Non distolgo lo sguardo finché lo Zombibus non sparisce all’orizzonte.
La piazza della chiesa è piena di zombi che si trascinano. Passo in mezzo a loro, ma non si curano di me. Il puzzo di formaggio sulla mia pelle si confonde con il loro odore di putrefazione.
Salgo i gradini della chiesa. Toh, c’è Briatore, accasciato a terra come un mendicante, gli manca pure una gamba. Mi inginocchio davanti a lui e gli sistemo il nodo alla cravatta. Quanto puzza! Mi annusa, ha la faccia deformata, la pelle cadente. Non sembra interessato a mangiarmi. «Chi è il barbone, adesso?»
La porta della chiesa è spalancata. Dentro c’è un silenzio tombale.
Eccola lì, me lo sentivo. C’era soltanto un posto dove poteva aspettare suo marito. Su Sposu, direbbero i pastori.
Arianna è seduta sugli scalini dell’altare, si regge la testa con la mano. Chissà che non le cada!
Si alza in piedi e muove un passo, il vestito lurido di sangue trascinato a terra. Come nel giorno del nostro matrimonio, percorre il corridoio verso di me, ma stavolta nel senso inverso. Lascio che si avvicini, mi annusa, con quello che resta del suo naso. Ha il collo smangiato e la pelle piena di pustole verdastre.
Non capisco se puzza più lei di morte o io di formaggio.
Ce lo siamo promessi, in salute e in malattia, finché morte non ci separi. Don Leonardo, alla fine aveva ragione. Tecnicamente, Arianna, è una non morta. Non potevo abbandonarla sull’altare.
Mia moglie inclina la testa, mi sorride, ha i denti neri, marciti. Mi avrà riconosciuto?
Chiudo gli occhi.
«CAAARNEEE»
Per sempre, finché morte non ci separi.
Manuel Marinari

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