L'Arte di Mangiar Bene

La Sfida a Italian Way of Cooking è un Super Speciale di MC finalizzato al componimento di un e-book prodotto da Minuti Contati!
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L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#1 » mercoledì 15 giugno 2016, 17:19

Forlimpopoli, 25 gennaio 1851
Si apre il sipario.
Nello stanzone che fa da camerino all’orchestra, il direttore smette di pulirsi gli occhiali e guarda il primo violino. Possibile che in questi teatrini ne deve sempre capitare una, pensa. Leva gli occhi al cielo e sbuffa.
Il violinista sorride, scuote le spalle e continua a mettere in ordine lo spartito. Oboe e flauto fanno cenno di entrare a quelli che sono fuori a fumare. Qualcuno butta la cicca, qualcun altro se ne frega.
Massì, hanno ragione loro. Luci in sala ancora accese, non ci dicono niente e già stanno aprendo il sipario. Almeno darci i cinque minuti… basta, è l’ultima volta che faccio ‘ste recite in provincia.
Due coristi incuriositi fanno capolino da una quinta, arriva anche Figaro con in mano un panino mezzo mangiato. Il suggeritore si affaccia dalla sua buca, li guarda e allarga le braccia. In platea, qualcuno del pubblico ha visto che il sipario è aperto ma non vi bada, si continua a chiacchierare, seduti o in piedi. Una donna ride forte alla battuta di un suo pretendente, lui coglie l’occasione per avvicinarsi un po’ di più e sfiorarle la mano, lei si ritrae ma continua a ridere, ammiccando da dietro il ventaglio.
Il tuono di uno sparo e un urlo di dolore squarciano l'aria.
Dal foyer irrompono in sala una decina di briganti, schioppo spianato e faccia coperta. Stanno lì, fermi davanti alle porte.
– Ma cosa…? – Un giovane sui trent’anni, il volto severo e regolare, si alza e si guarda intorno.
– Fermo, l’è ‘l Stuvané! – gli sussurra il padre, tenendolo per un braccio. Alcuni ripetono quel nome a bassa voce, spaventati. Una signora si fa il segno della croce.
– Signore e signori, questa sera niente Barbiere di Siviglia! – Il Passatore è al centro del palco, la faccia bene in vista e sbarbata di fresco. Non è imponente, ma tiene la scena come un grande attore. – Adesso gli uomini mi fanno il piacere di dare orologi e portafogli ai miei amici che sono lì sotto con voi, e le donne tutti i gioielli, poi vedremo. – Intanto, altri cinque uomini mascherati spingono come bestiame la piccola orchestra, i cantanti e i macchinisti sul palco. Non appena vede il Passatore, Rosina perde i sensi. Bartolo e il Conte la sorreggono, anche loro bianchi come fazzoletti.
– Non vi preoccupate, voi. Si sa che non sono contro la povera gente, no? – Il bandito sorride agli artisti, gli occhi cattivi gli tirano il sorriso in un ghigno. – A meno che qualcuno non faccia il furbo… Portatelo dentro!
Sotto, due uomini buttano a terra in mezzo alla platea il cassiere, una gamba squarciata dai pallettoni.
– Come questo qua. Ci ha visto e ha tentato di portarsi via la cassa, invece che dividerla da buon compagno – il Passatore scende dal palco e gli si avvicina. – È proprio una brutta cosa, amico mio. Adesso sono arrabbiato. E guardami negli occhi, quando ti parlo! – ringhia.
Un cenno e due uomini tirano su il ferito. Il ghigno del Passatore si fa più ampio, la lama della sua saracca scatta con un richiamo di morte. Socchiude gli occhi, accarezza assorto il manico di corno biondo del serramanico, afferra la mano destra del cassiere e d’un colpo gli mozza tre dita. L’uomo urla, con uno spasmo si libera ma subito cade, il sangue sprizza intorno lordando marsine e vestiti. Alcune donne gridano e svengono, i briganti ridacchiano mentre l’uomo si contorce a terra.
– E quando sono arrabbiato, divento cattivo. Capita a tutti, non è vero, signori? – Con un calcio, fa girare il cassiere a pancia in su e gli mette lo schioppo a pochi centimetri dalla faccia. Spara, carne e cervello si spargono attorno. Nessuno ha più il coraggio di fiatare.
Il Passatore riattraversa la platea e va a sedersi sulla sedia dove avrebbe dovuto stare il primo violino, sotto il palco. – Gnéro, quanto abbiamo fatto? – Un omaccione, rosso di capelli e con la barba che spunta da sotto il drappo sul volto, gli porta una borsa e la rovescia in terra. Il capo allarga il bottino con un piede, prende una collana e un orologio con la catena d’oro, ne saggia la consistenza coi denti. – Mmh, questo è oro buono… ma non è molto. Dove la tenete, la roba, dentro il materasso? Cosa volete, farmi arrabbiare di nuovo? – alza la voce, si gira verso il palco. – E voi, siete davvero così poveri o nascondete i soldi? Maledetti bastardi!
Il direttore si fa piccolo, e con un filo di voce – Signor Stuvané – dice, – ci creda, chi lavora in questi teatri così piccoli fa la fame…
– Chi ti ha detto di parlare? – il Passatore è paonazzo, urla e agita la saracca ancora sporca di sangue. – Diobòia, adesso basta! Tutti giù!
Vengono ammassati a spintoni e calci in platea, musicisti e pubblico. I briganti si schierano come un plotone d’esecuzione. – Non va bene, signori – sibila. – Pregate qualche vostro dio inutile, perché se i miei non mi portano buone notizie in fretta…
Si sente una voce nel foyer – Chép, siamo qui! – e subito un’altra decina di banditi entra in sala. Ognuno lascia un sacco ai piedi del Passatore, poi saluta i compagni e si mette in attesa. Lui dà un’occhiata alla roba dentro ai sacchi, il ghigno riappare e si fa più largo.
– Bel colpo, bravi. Fagòt, problemi?
– Tutto liscio, Chép. Anzi, il Mérico si è anche divertito! – Ripete due o tre volte un gesto verso il basso col pugno chiuso e il braccio teso. I briganti sogghignano e spintonano il Mérico, un ragazzo sui vent’anni con la faccia ebete e lunga, da cavallo.
– Ah, sì? E come? – Anche il Passatore è pronto alla risata.
– Sopra il droghiere c’era una bella ragazza, una brunetta, il Mérico l’ha vista e non ha capito più niente. Mi sa che non è più ‘signorino’, adesso! – Il ragazzo arrossisce e ride, tutti sghignazzano e gli battono sulle spalle. – Bravo! Era ora! – gridano. Lui alza le mani in segno di vittoria, goffo e sgraziato.
Bastérd! – urla il giovane dal volto severo, in mezzo alla gente ammucchiata vicino al muro. Si fa largo e gli si butta addosso. Ruzzolano a terra, il Mérico è più veloce e gli molla un pugno in faccia, ma l’altro resiste e lo prende per il collo. Gnéro fa un passo avanti e solleva il giovane con una mano sola, poi lo abbraccia nella stretta dell’orso. – Lo ammazzo? Eh, lo ammazzo?
Il Passatore si avvicina. – No, prima ci divertiamo. – Già la lama della saracca si avvicina al volto del giovane, i briganti assaporano altro sangue. – Per pietà, no! – grida il padre, facendosi largo. – Sono Agostino Artusi, il droghiere. Quella ragazza che avete trovato è… – deglutisce, stringe le labbra – è una mia serva e mio figlio, qui, se n’è innamorato, allora quando ha sentito che il vostro uomo… ma non voleva mancarvi di rispetto, Stuvané. È scattato senza pensare. È… è giovane.
– Ah. Quindi sarebbe una questione d’onore? – Il Passatore ripiega la la lama nel manico di corno, fissa negli occhi il giovane ancora nella stretta del Gnéro. Acconsente fra sé. – Hai fegato. Per oggi, non muori. Uomini, è ora di andare!
Il Gnéro lascia il giovane, Mérico sogghigna e gli abbatte il calcio dello schioppo sulla testa. Pochi istanti e i briganti sono tutti fuori, inghiottiti dalla nebbia fredda di gennaio.

Firenze, 31 marzo 1911
Marietta si alzò che non era ancora l’alba. Col brodo già fatto, sgrassato e rappreso, bisognava prima di tutto preparare la gelatina, chiarificarla e metterla negli stampi. Poi tutto il resto per il pranzo: crostini misti di tartufo bianco e nero, cappelletti di Romagna, pernici alla senape, tramezzi, salse…
Scese le scale, sentì il padrone gemere nel sonno. Scosse la testa ed entrò in cucina.

Forlimpopoli, 26 gennaio 1851
Sgnör, l’è dést! – chiama la domestica. Agostino Artusi lascia i conti e corre su.
– Pellegrino, come stai? Sei rimasto svenuto quasi dodici ore…
– Io… bene, credo. Mi fa male la testa – la mano va alla fasciatura sul capo. Si mette a sedere di scatto. – Geltrude!
– Stai tranquillo, è di là con la mamma. Ora sta meglio. – Agostino si passa la mano sul volto, sulla barba non rasata. – Quando siamo arrivati, lei era raggomitolata sul tetto, fradicia. Non ci riconosceva, abbiamo avuto paura che si buttasse giù – sospira. – Ora è nel suo letto, il dottore dice che ha avuto un crollo nervoso – la voce si rompe, l’uomo mette la testa fra le mani. – Povera figlia mia.
Pellegrino si alza dal letto, la stanza comincia a girargli intorno, si regge alla parete per non cadere. Sbatte gli occhi umidi. – E io… – nasconde il volto nel gomito, al muro.
Il padre lo guarda, capisce. – Tu cosa? Che potevi fare? – gli occhi si perdono lontano. – Morire, potevi. Questo sì. Sai, l’avevo sentito dire, che Stuvané era fissato per certe cose. L’onore, le donne… mi sono inventata quella storia della cameriera per salvarti. Era di buon umore, siamo stati fortunati.
Pellegrino stringe le labbra, da dentro gli sale un grido ma lo ricaccia giù in qualche maniera. Si stacca dalla parete, cerca di stare in piedi. – Mi accompagni da lei?
I pochi passi verso la stanza di Geltrude durano una vita, e quando si siede accanto a quel letto capisce che lei non sarà mai più com’era, che la sua mente adesso è in un luogo in cui il ricordo della notte precedente non esiste e non esisterà mai. Le stringe la mano, anche se lei non è più lì. E in quell’istante prende la sua decisione.

Firenze, 31 marzo 1911
– Marietta, come vanno le cose?
La donna si voltò, sorrise e si pulì le mani sul grembiule. – Tutto bene, signore. Siamo in perfetto orario. Si siede di là che le porto il caffellatte?
– Sì, grazie. E ricordati che il Bue alla California lo faccio io – Ridacchiò. – Che nome! Ma ormai l’ho pubblicato così, mica me lo posso… rimangiare.
Marietta seguì con gli occhi il padrone e mise il bricco del latte sulla stufa. Si era svegliato allegro, magari di quei maledetti sogni non si ricordava neanche più.
Un uomo basso e dagli occhi simpatici entrò dalla porta sul cortile. – Ecco qua le pernici frollate a puntino. Faremo un figurone!
– Oh! Bravo, Francesco. Proprio al momento giusto. Dai, inizia a spennarle che arrivo.

Forlimpopoli, 22 marzo 1851
– Allora?
Il medico si toglie gli occhiali e sospira. – Vedi, Agostino, Geltrude sta bene, fisicamente. Ma queste scosse convulsive continuano, non c’è modo di fermarle o prevederle. È come una smania, un sovraccarico dei nervi. Ho chiesto anche un consulto e per ora, tranne ricoverarla…
– Per l’amor di Dio!
– Sì, hai ragione – il tono della voce si abbassa, diventa intimo. – Sai, tante volte la scienza è impotente. Però, io credo che ora che respirerà aria nuova, lontano da luoghi che le rimandano il ricordo di quella notte, potrebbe anche dimenticare. Il tempo, si sa…
Pellegrino smette di ascoltare e riporta lo sguardo sulla sorella, vuota e ferita. Poi si scusa, saluta e scende.
Una carrozza lo aspetta. Mentre si lascia Forlimpopoli alle spalle, le parole sentite mille volte in casa in quei due mesi gli ronzano in testa. Poteva morire qualcuno. Potevamo perdere casa e negozio. Invece, pochi soldi e sì, l’incidente a Geltrude - così lo chiamavano, come fosse una fatalità. - Ma fra poco nella nuova casa si rimetterà e non ci penseremo più. Siamo stati fortunati.
Come potevano essere così superficiali? Solo lui vedeva che Geltrude era spezzata, e che non si sarebbe mai più ripresa? Forse. O forse, per qualche strana ragione, solo lui aveva il coraggio e la sventura di non negare l’evidenza.
Per questo andava a Firenze. Qualche parola con un amico commerciante per incaricarlo di trovare la nuova casa per la famiglia e poi avrebbe visto Felice Orsini. Era un amico, fautore dell’Unità d’Italia, delegato alla Repubblica Romana per Forlì e poi fuggito all’arrivo delle truppe francesi accorse in aiuto del Papa Re. Adesso viaggiava per le città del Nord e del Granducato di Toscana come rappresentante della ditta dello zio di Nizza, e in questo modo manteneva i contatti con gli insurrezionalisti di tutta la penisola e con spie, informatori, gentaglia al soldo di chi la pagava di più ma che sapeva molte cose. Anche quelle che servono a me.
La carrozza sale verso l’Appennino, comincia a vedersi la neve. Lui si stringe nel cappotto. Ripensa ancora una volta a quanto ha deciso di fare, e ancora una volta la ragione gli pone mille domande cui non sa rispondere.
Ma gli occhi spenti di Geltrude mettono a tacere ogni dubbio.

Firenze, 31 marzo 1911
– Marietta, la tavola è a posto?
– Ma certo. Tutto pronto.
– Ah, bene, bene – Pellegrino ripose il grembiule che usava sempre per cucinare. – Saranno qui fra un’oretta, io mi siedo un po’ nello studio, vicino al fuoco, eh? Non ho più vent’anni… e nemmeno cinquanta, se è per questo. – Sorrise.
– Vada tranquillo, padrone – disse Francesco, aprendogli la porta. – Qui ormai bisogna solo aspettare. La vengo a chiamare io dieci minuti prima di mezzogiorno.

Firenze, 23 marzo 1855
– Pellegrino! – grida Felice Orsini dall’altra parte del corso. Attraversa e gli stringe la mano con forza. – Allora, come stai? Sei dimagrito.
– Felice, che piacere – Pellegrino sorride. – Mah, dimagrito non so, forse. Tu stai bene? Come si sta a Nizza?
– Che vuoi, si lavora. Sono finiti i bei tempi di Bologna… Ah! E la servetta dei Tre Re che ti faceva gli occhi dolci? L’hai più rivista? – Ridono.
– Ma cosa vai a ricordare… andiamo a pranzo, piuttosto?
– Come no! È da stamattina all’alba che non mangio.
Entrano in un’osteria e si mettono a un tavolo discosto dagli altri. Felice si guarda intorno, ordina due bianchi. Scambia qualche parola con l’oste e con uno sguardo controlla che nessuno sia entrato subito dopo di loro.
– Sempre all’erta, eh? – gli sussurra Pellegrino, quando lui torna a sedersi.
– Mah, qui nel Granducato per ora si dovrebbe stare tranquilli, però le spie possono essere dappertutto.
Pellegrino subito s’infervora. – Proprio di questo volevo parlarti. Felice, io voglio trovare il Passatore.
Felice lo interrompe, ridendo forte e battendogli la mano sul braccio. – Davvero? Allora alla fine ci sei stato con quella biondina! E il padre?
Ammicca all’oste che porta i bianchi e un piatto di crostini con fegatini di pollo e acciughe. Incerto, anche Pellegrino sorride e abbozza. – Eh, cosa vuoi. Sai… – Felice ride di nuovo, prende un crostino e lo annusa. – Ah, che profumino! Cosa c’è di buono, oggi?
– Abbiamo zuppa di farro e stufato di montone, e per dolce frittelle all’uvetta e vin santo. Anche la salsiccia di cinghiale appena fatta.
– Che bontà! Facciamo così, portaci tutto quanto con una bella bottiglia di Chianti. Va bene, Pellegrino?
– Eh… sì. Bene – risponde, senza sapere cosa dire.
Un’ora e mezza dopo sono sul Lungarno. È un marzo freddo, i passanti sono pochi. Felice non ha smesso di parlare di stoffe, commerci, degli anni dell’università: un fiume che Pellegrino non è riuscito ad arrestare. Ora però di colpo tace e lo guarda negli occhi. – Ecco. Qui non c'è nessuno. Cos'è questa storia del Passatore?
Pellegrino è quasi preso alla sprovvista – Lo… lo devo trovare.
– Ho capito. E secondo te lo troverai andando a chiedere in giro?
– No... solo a te.
– Ah. Che bell’onore! – Felice è stizzito, parla a denti stretti. – Ma non lo sai che lo cercano le polizie di almeno tre Stati? Ci sono informatori dappertutto.
– Sì, ma con i tuoi contatti…
– Certo! Così intanto sollevo un gran polverone e prima o poi beccano anche me! Non capisco cosa ti sia venuto in mente. E perché, poi? –  Stringe i pugni, si controlla, non vuole dare spettacolo. – Guarda, se non ti conoscessi penserei che mi hai teso una trappola.
Pellegrino non credeva andasse così. Si rende confusamente conto che i suoi progetti potrebbero non valere niente, che la frustrazione e la volontà di vendetta potrebbero avergli fatto perdere il senso della realtà. Ma no, non è possibile! Certo, ci sono aspetti cui non avevo pensato, ma ora spiegherò la cosa a Felice e lui mi aiuterà. Deve aiutarmi.
In poche parole gli racconta tutto. L’amico ascolta, poi gli mette una mano sulla spalla. – Povero Pellegrino. Tu che ne sapevi così poco, della vita fuori del tuo negozio…
– Felice, voglio vendicare Geltrude!
– Sì, capisco – parla a bassa voce, comprende il suo dolore. – Ma pensaci per davvero: se io riuscissi a farmi dire dov’è la sua base, ci andresti e li ammazzeresti tutti? Sono un piccolo esercito, l’hai visto coi tuoi occhi. E tu – lo guarda di nuovo negli occhi, – tu non hai mai sparato nemmeno alle beccacce. Lascia stare, non è il tuo destino, quello.
Pellegrino capisce che è la verità, s’insacca nelle spalle e finalmente piange. In quelle ore, nelle campagne di Faenza, la Polizia Pontificia scova e uccide il Passatore.

Firenze, 31 marzo 1911
– Padrone… padrone, fra poco arrivano gli ospiti – Francesco lo scosse dolcemente. Pellegrino aprì gli occhi. - Chi sei? Il Domenici?
– Padrone, sempre a scherzare – rispose, poi lo guardò meglio. Le sue pupille vagavano senza mettere a fuoco, lo sguardo era smarrito. – Marietta. Marietta! Il padrone sta male!
La donna arrivò di corsa. – Come, sta male? Cos’ha? – Si avvicinò, già con le lacrime agli occhi. – Mariavergine santa!
Pellegrino sbatté le palpebre. – È già ora? – mormorò. – Devo essermi addormentato.
– Signore, sta bene? – chiese Marietta
– Sì, solo un po’ stanco… ma che succede? Hai pianto?
– Non è niente, solo che prima lei… è sicuro di stare bene?
– Ma certo. Andiamo, arriveranno a breve. – Fece per alzarsi, ma le gambe non lo ressero. Subito, Francesco lo sostenne e lo portò in camera. Poi andò a chiamare il dottore e mandò un ragazzo ad avvertire gli ospiti di non venire.
Marietta invece stette lì, in camera, tenendo la mano di Pellegrino che lentamente si assopiva.

Livorno, 2 luglio 1855
Pellegrino vaga fra le banchine, il respiro mozzato e una fitta alla bocca dello stomaco. Il silenzio della notte è rotto soltanto dal berciare lontano di qualche ubriaco e dallo sciabordio del mare.
L’ha visto. Lui è lì, a Livorno.
Il Mérico.
L’ha incontrato qualche ora prima, fa il garzone in un’osteria. – Sono arrivati qualche anno fa, tre fratelli – gli aveva detto l’oste. – Poi due si sono imbarcati e lui è rimasto qui. È un buon lavoratore, anche se ha la testa di un bambino, alla sera non ricorda nemmeno quello che ha mangiato a pranzo. Buon appetito, signore.
È preda di una folle agitazione, non riesce a fermare i pensieri, le tempie gli pulsano. Denunciare il Mérico come compagno del Passatore, ora che nessuno ci pensava più? Il nome della sorella sarebbe venuto fuori, sarebbe stato gettato nel fango… No. Non posso dirlo a nessuno. Diomio, diomio cosa faccio?
Di nuovo, si ritrova nei dintorni di quell’osteria. Ormai è chiusa, lui è tornato mille volte sui suoi passi senza sapere il perché, mentre le strade e i pontili intorno si svuotavano. Una voce lo blocca. – Signore… aiuto.
A Pellegrino sembra di scorgere un’ombra accasciata a terra. È un uomo, forse un ubriaco, dall’odore sembra abbia appena vomitato. – Signore… aiuto. Sto male… – Pellegrino si avvicina.
È lui.
Come se si fosse sbloccato qualcosa, la sua mente riprende a funzionare. Si guarda intorno: non c’è nessuno. Si china verso il Mérico, lo fissa negli occhi ebeti. – Sai chi sono? – gli chiede.
– Il signore dell’osteria… mi aiuti… – biascica. Pellegrino insiste. – Guardami bene. Chi sono?
– Aiuto…
Pellegrino si china, mette le braccia sotto di lui e lo fa rotolare giù dalla banchina. L’acqua nera del porto si chiude sul Mérico per sempre.

Firenze, 31 marzo 1911
– Marietta… sei tu? – sussurrò. Marietta si riscosse. – Sì, signore. Come sta?
– Debole… che peccato che non si siano potuti mangiare i tuoi cappelletti…
– Ma cosa dice? Ci sarà tempo, per mangiarne.
– No. Sono vecchio, ormai. Sarai ricompensata, per essermi stata vicino tutti questi anni… – Marietta avrebbe voluto negare, dare speranza. Riuscì solo a scuotere la testa e piangere.
– Sai, prima fingevo di essere allegro, ma me lo sentivo che era l’ora. Stanotte ho di nuovo rivissuto tutto, ma non come le altre volte. Era davvero come se fossi lì. Il Passatore, Geltrude, Livorno… il mio delitto.
– Signore! Lui sarebbe morto lo stesso di colera. E poi… credo che sua sorella avrebbe approvato.
– Sì, forse… lo saprò fra poco, quando la vedrò. Addio, Marietta.
– Arrivederci, signore.



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Marco Lomonaco - Master
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#2 » venerdì 17 giugno 2016, 21:25

Valter Carignano, L’arte di mangiar bene

Ciao Valter, anche con te credo che non ci conosciamo, quindi molto piacere. :)

Il tuo racconto è, secondo me, da dividere in due parti. Lo spartiacque è il passaggio dall’azione alla riflessione.

Cominciamo con la prima parte, quella più d’azione.
Il brano è godibile, la prosa tutto sommato pulita e scorrevole. Se devo trovare un difetto è che a tratti è un po’frettolosa e poco chiara. Rimane una buona prosa, capiamoci, però ogni tanto sciorini nomi e azioni in modo un pochino confusionario, che rende difficile capire al volo cosa succede a chi, chi fa cosa, chi è chi e chi dice cosa. Questo aspetto si accentua durante le scene veloci (come è anche abbastanza normale che succeda). Un piccolo trucco è quello di semplificare le strutture, invece di fare battuta+inciso+battuta+descrizione+descrizione+battuta punto (che ha il suo perché, restituisce una bella velocità, ma ti fa perdere un po’per strada il lettore), magari togli qualche blocco, vai più a capo, inframezza con dei nuclei a sé stanti, in modo che leggendo si riescano a isolare meglio i diversi blocchi di azione e dialogo e mantenere meglio il filo logico degli avvenimenti. Te lo dico perché in prima stesura capita anche a me di fare la stessa cosa che fai tu, un po’per non perdere il filo dell’azione mentre scrivo, un po’perché a volte banalmente le scene ti escono così, ma in fase di revisione poi (a volte a malincuore), tocca sistemarle. Io sono un estimatore del ritmo alto, mi piace moltissimo, però non al costo della chiarezza, che già io faccio naturalmente fatica a seguire le scene con troppi personaggi (sono un disastro con i nomi e non mi ricordo mai chi è chi anche quando le cose son chiare :P ), quindi questo è un argomento su cui sono abbastanza sensibile.

Poi mozzare in agilità tre dita a un uomo con un serramanico è un po’esagerato, per fortuna (anche mia), staccare un dito a un uomo è cosa tutt’altro che facile, rivedrei magari quel passaggio.

Poi un po’fai attenzione alla punteggiatura, soprattutto quella nei dialoghi. E ai puntini di sospensione, che hanno una funzione specifica, vale a dire di identificare i momenti in cui una frase viene lasciata in sospeso. Non indicano delle pause nel parlato e, anche se ormai sta diventando comune, usarli per quello è un errore.

Altro aspetto un po’sottile è la distanza del narratore, non hai fatto errori espliciti in tal senso, ma non hai neanche tenuto una distanza omogenea. A tratti non fai sentire per niente la voce del personaggio portatore di pdv, a tratti invece torna, poi sparisce ancora, eccetera. Ripeto, non è un errore tipo sbagliare le HA con o senza H, però un occhio abituato lo vede e comunque è una cosa che se non è fatta di proposito e con un intento preciso (che non ho ravvisato nel tuo brano, ma se c’era dimmi pure, ti ascolto volentieri) fa scendere di qualità il brano, son quei tipici casi in cui se non ci fai caso dici “sì, bello, ben scritto, però non so, c’era qualcosa che non andava, non ho empatizzato”, ecco, questo succede spesso sbagliando/gestendo male la distanza del narratore.

Poi attenzione, queste son finezze, in genere a qualcuno che vedo che secondo me ha problemi ancora con le cose di base della narrativa non lo segnalo nemmeno, a te lo dico perché comunque hai una prosa che è chiaramente già stata limata, e dopo che si limano i difetti principali poi bisogna lavorare di fino, e quindi le finezze son quelle da segnalare.

Un aspetto su cui ti invito a riflettere è che chi legge (o, meglio, chi è abituato a leggere) subito dalle prime righe si fa un’idea dello stile del testo, quindi il mio consiglio è quello di mettere subito in chiaro chi è portatore di punto di vista (se c’è, altrimenti mantieniti esterno) e impostare la distanza del narratore in modo subito comprensibile, e poi attenertici. Questo soprattutto se hai dei cambi di punto di vista tra diversi capitoli, se hai sempre lo stesso portatore puoi andarci più leggero, tanto se il portatore non cambia mai il lettore non deve adattarsi ai cambi e mantiene sempre le stesse “impostazioni mentali”.
In questo spesso viene in aiuto la sceneggiatura, che dà, a mio avviso, una buona struttura mentale che torna comoda in parte anche per la narrativa: la scena comincia quasi sempre con un establishing shot per far capire allo spettatore dove sei, quando sei e poi attacca la scena con cui in genere si fa capire anche perché sei lì (ma questo non sempre). Se noti, è tutto orientato a mettere immediatamente lo spettatore nella giusta ottica. In narrativa hai meno elementi per farlo (banalmente non hai le immagini che chiariscono le cose in mezzo secondo), e proprio per questo le primissime battute di un brano in primis ma poi anche degli snodi dove ci sono cambi concettuali (tempo, spazio, pdv, etc) andrebbero rese prima di tutto efficaci per far comprendere il contesto e gli elementi strutturali (sono partito dal pdv ma poi il discorso è stato generico).

Passiamo ora alla parte più prettamente riflessiva e introspettiva.
Le parti lente e più introspettive del brano le ho trovate decisamente meno buone di quelle veloci e d’azione, diverse volte ti sei scordato di specificare chi parlasse e le sequenze dialogiche (comunque sempre abbastanza frammentate), sono diventate un po’più difficili da seguire. Questo aspetto si evidenzia di più andando avanti col brano, in cui questo, assommato alla questione di pdv e distanza, ha reso particolarmente complesso l’empatizzare con le disgrazie e i drammi dei personaggi.

Si nota anche una certa “fretta” di saltare qualche passaggio, forse per lo spazio a disposizione, forse per altro, non so, ma da quando Pellegrino è in camera col dottore il brano dà una virata abbastanza decisa in questo senso.
Passi a un frequente raccontato che restituisce proprio la sensazione della fretta tipo che racconti tutta la storia e poi concludi dicendo “e alla fine è stato il maggiordomo in salotto con il candelabro”.
Da quel punto in poi il brano perde proprio di mordente e scende parecchio di livello, fino ad arrivare al finale che dovrebbe essere “rivelatorio” ed emotivamente coinvolgente, ma non riesce nel suo intento perché non sei, a mio avviso, riuscito a caricare per bene le vicende di quel legame empatico con le scelte del personaggio, quindi poi quando il legame empatico deve fare il suo dovere nel finale, ovviamente poi non lo fa come si dovrebbe.

In definitiva, giudicando solo da questo brano, hai un buon talento per le scene dinamiche e concitate. Lo stile e la gestione sono perfettibili (come è ovvio che siano, lo sono sempre) ma comunque sei una buona penna.
Dove c’è invece da lavorare parecchio di più è nelle parti lente, dove hai, sempre secondo me, mostrato diversi limiti, a partire dallo stile (problemi che non hai mostrato altrove, o almeno non così pronunciati, quindi boh, sono un po’perplesso) per arrivare poi anche alla gestione dei tempi e dei personaggi.
Quello che ipotizzo è che le scene lente non ti coinvolgano e/o non ti piacciano, quindi scriverle ti secca e quindi anche inconsciamente magari ci metti meno impegno o forse non sai bene come metterle, può essere uno di questi fattori, o magari altro, non lo so. Magari ragionaci su e vedi se riesci a capirlo meglio tu, perché il talento e l’occhio secondo me li hai, e varrebbe la pena magari esercitarsi si più su quelli che sono i tuoi punti deboli, perché le storie non sempre possono andare a 300 all’ora (purtroppo!!!!!).

Ultimo appunto che riguarda solo il contest e non il brano in sé, non ho ritrovato molto la specifica. C’è un cuoco, c’è un “mostro” (in senso lato), ma le due cose non sono affatto collegate e soprattutto non sono correlate a Italian Way Of Cooking (che se non hai letto ti consiglio ;) ). A me non interessa molto l’attinenza alle specifiche, le vedo più che altro come una scusa per mettersi a scrivere, però Pellegrino anche se fosse stato un idraulico non sarebbe cambiato nulla ai fini della storia. Capisci cosa intendo?
Avresti sicuramente potuto usarle in modo più creativo e pertinente. Forse verrai penalizzato nella classifica del contest per questo motivo, ma ci tengo a precisare che questa cosa non inficia secondo me il valore assoluto del brano, di cui già ti ho detto prima.

È tutto, alla prossima ;)
Se dici cose senza senso, sarai trattato come un paroliere.
Sbattuto su e giù e ribaltato su un tavolo, fino a che le tue interiora saranno fuoriuscite.
E ci leggerò dentro ciò che mi pare, magari il futuro. [cit.]

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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#3 » venerdì 17 giugno 2016, 23:25

Ciao,

parto subito dal punto più critico. Il tema: non c'è. O meglio non è né motore scatenante né sfondo. E' lì "per caso", sembra quasi che tu abbia preso una storia e poi abbia cercaato un modo per infilarci il tema. E' a caccia nel passato e un cuoco nel futuro. I due "eventi" non si intrecciano, non hanno legami.
La sua caccia termina ben prima che lui diventi cuoco. L'essere cuoco non fa parte della sua vendetta, non lo aiuta, non è un mezzo, non è nemmeno di impiccio.
Sorvolando questo punto cardine, però la storia è in sé bella e interessante, si legge senza problemi e, a parte alcuni momenti in cui butti in mezzo tanti personaggi in cui mi perso, non presenta problemi di comprensione.
La narrazione "futura" non l'ho trovata funzionale, la usi per metterci dentro il cuoco, ma, a parte questo, non ha un vero scopo, se non smorzare un po' gli eventi cardine, anzi, mi danno fastidio: abbiamo una persona che cerca vendetta poche righe sopra e tu mi stai "distraendo" con ricette ed eventi di interesse pressoché nullo.
Le scene sono il ricordo di un anziano in punto di morte, chiare nitide, forse fin troppo. Qualche incertezza, qualche "errore" avrebbe permesso di associare quelle scene al ricordo ed amalgamare meglio le due narrazioni.
In definitiva non trovo il pezzo ben legato nelle sue parti per quanto abbia apprezzato questo "salto" nel passato e una storia, amara, di una vendetta.

valter_carignano
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#4 » venerdì 17 giugno 2016, 23:41

Ciao Marco, Ciao Vastatio, piacere di conoscervi e davvero grazie dell'esame così dettagliato.

Su alcune cose sono senz'altro d'accordo e ci lavorerò, su altre invece non molto, ma credo che questo sia normale in questo campo. Per esempio la questione dei puntini, che personalmente - e fortunatamente non solo io - ritengo molto utili per indicare esitazioni nel parlato e renderlo più naturale e meno libresco, esitazioni che diversamente non potrebbero essere rese se non ricorrendo a continui incisi; e, allo stesso modo, credo che non sia necessario specificare chi parla, quando si possa evincere con chiarezza dal contesto (se poi il problema è che non si evince dal contesto, allora è chiaro che è una mancanza, ma tu parli proprio di 'specificare'). Ovvio che ognuno potrebbe citare cento grandi scrittori per giustificare le proprie scelte, dicendo 'lui fa così e quindi è giusto', ma sono operazioni che lasciano il tempo che trovano.

Sono invece totalmente in disaccordo con entrambi riguardo all'appunto sul tema.
Il 'compito' era 'racconto di ogni genere' e 'cuoco a caccia di'. Non si parlava di mostri (e infatti qui non c'è, a meno di non considerare ogni criminale un mostro, ma il discorso porterebbe troppo lontano), né di scrivere nulla che fosse 'nello stile di' Italian Way of Cooking, romanzo peraltro indubbiamente molto godibile e riuscito (i contest per scrivere 'nello stile di' o 'nel genere di' mi sembra siano quelli ottimi del camaleonte).
Artusi è 'il' cuoco e gastronomo per eccellenza di un'intera epoca, e qui - fra storia e fantasia - è a caccia di un'impossibile vendetta che alla fine gli riesce per caso, c'è quindi il soggetto e l'azione. Tutta la vicenda è basata su fatti reali della vita dell'Artusi. La vita di una persona da sempre appassionato di cucina e che appunto vive metà della sua esistenza in funzione di essa e della pubblicazione del suo libro di cucina e storia della cucina. Che si dica che 'il cuoco (tema) non c'è' mi sembra molto riduttivo, ma giustamente ognuno ha le proprie opinioni e la propria interpretazione del tema.
Poteva essere un idraulico? Non saprei, forse sì, forse no; certo - se lo fosse stato - probabilmente non sarebbe stato in quell'osteria di Livorno (fatto storico, perché era andato per assaggiare un certo minestrone di cui aveva sentito parlare, che poi metterà nel libro; quindi questo fatto è fondamentale per la trama che di conseguenza non 'finisce prima che lui diventi cuoco') e non avrebbe incontrato il Mérico (fatto inventato, chiaramente).

Detto questo, i pareri e le critiche - come mille volte ricordato - sono oro, quindi di nuovo grazie.

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Vastatio
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#5 » sabato 18 giugno 2016, 11:14

Brutta cosa l'ignoranza, ma, a conti fatti, cosa cambia? Che il tuo protagonista fosse un cuoco lo si dava per "buono" vista la narrazione nel 1911. Che lo fosse anche nel 185x da cosa dovrei evincerlo? Dalla pagina wikipedia di Pellegrino Artusi? Non siamo in MC, con soli 3k a disposizione io "pretendo" dal lettore un po' di sforzo nel recuperare elementi che non conosce, ma in 20k, a me, ignorante in materia, non hai instillato il dubbio che fosse un qualcosa di reale.
L'aderenza al tema è FORMALMENTE rispettata, esattamente come lo era alla mia prima lettura (per quanto sapendo che si tratta di eventi reali l'esperimento di scrittura ne giova parecchio). Pe rcome li esponi gli eventi del Cuoco a caccia di vendetta sono disgiunti. Ero già andato a verificare se, per caso, il mestiere del padre fosse cuoco o ristoratore, in modo da associare un legame implicito alla sua professione, ma è un droghiere. Non ci sono elementi che leghino le due cose. Nel racconto sembra che Pellegrino sia in quell'osteria di Livorno per "caso", se non fosse stato per il suo essere "cuoco" non avrebbe compiuto il suo destino... davvero? Dove mi mostri questo collegamento? Hai descritto in un paio di righe un pranzo/cena come un "qualunque" pasto di chi apprezza il cibo poco sopra ma, nel brano di Livorno, zero. Metterà il minestrone assaggiato nel suo libro? Beh, avresti potuto almeno far preparare QUEL minestrone nel 1911, romanzare una rivelazione "non sono mai riuscito a farmelo piacere davvero", "lo preparo sempre e lo lascio raffreddare" qualsiasi cosa che mi portasse ad "amalgamare" le cose.

valter_carignano
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#6 » sabato 18 giugno 2016, 11:56

Allora, intanto chiedo scusa perché avendo scritto ieri sera tardi dopo una giornata molto pesante magari ho dato all'ultima parte del mio commento un tono polemico che non era assolutamente intenzione. Parafrasandoti, brutta cosa la stanchezza.
Detto questo, a un certo punto mi sono sembrato troppo 'didascalico', per cui non ho specificato l'episodio del minestrone. Con ogni probabilità, dato il tuo commento, non è stata una buona scelta e non dovevo dare per scontata o non troppo importante la cosa. In margine, non so se wikipedia italiana riporta l'episodio :-)
Grazie ancora.

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ceranu
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#7 » lunedì 20 giugno 2016, 0:10

Ciao Valter, il tuo racconto mi è piaciuto.
L'ho trovato tecnicamente valido e ben gestito. La storia che hai articolato è bella e hai reso al maglio la rappresentazione storica.
L'inizio è avvincete, la scena all'interno del teatro ha dei colori vividi e si segue alla perfezione. Alla lunga perdi un po' di smalto, ma ci sta.
Devo ammettere che all'inizio ho faticato anch'io a trovarci il tema. È stato tutto chiaro quando hai fatto notare che il protagonista era Pellegrino Atusi. Non so per quale motivo non avevo collegato lui al famoso padre della cucina italiana.
Nel complesso è un ottimo racconto che si legge volentieri.
Ciao e alla prossima.

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Linda De Santi
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#8 » sabato 25 giugno 2016, 14:58

Ciao Valter!
Un racconto ben scritto e con una struttura interessante.
L’inizio mi ha fatto pensare a tutt’altro genere di racconto, forse la parte del teatro e dei briganti è leggermente troppo lunga per la storia che racconti, ma non è una cosa grave.
Bella l’idea di mettere come protagonista l’Artusi (in casa ho una copia de “La Scienza in Cucina e L’arte di Mangiare Bene” del 1960 e la tengo come una reliquia sacra); forse però mi sarebbe piaciuto leggere qualche riferimento in più al fatto che fosse (anche) uno chef, le sue prime esperienze come gastronomo potevano essere più esplicite durante la sua ricerca dei briganti.
In ogni caso, per me si tratta di un’ottima prova. A presto! :)

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antico
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Re: L'Arte di Mangiar Bene

Messaggio#9 » domenica 26 giugno 2016, 14:20

Sì, elementi di folklore ci sono e il racconto può essere manifesto della nostra cultura. Assegno il bonus.

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