“Il grande botto” - di Adriano Muzzi
Inviato: domenica 25 settembre 2016, 16:29
Mi sforzo, ma non riesco a ricordare bene. Un pezzetto prima, un pezzetto dopo, in mezzo il nulla. Prima: la mia splendida bici gialla fosforescente, me la ricordo come se ce l’avessi davanti: ruote maggiorate, freni a disco, ammortizzatori sulla ruota anteriore, 18 marce.
Del dopo ho delle fotografie nella testa molto chiare: la camera bianca, la puzza di disinfettante, il tubo in gola che mi faceva deglutire continuamente, la mamma e il papà con la mascherina. Non vedevo la loro bocca, ma dai loro occhi capivo che sorridevano con lo sguardo triste, come quando si dice una bugia per far piacere a qualcuno.
Mi raccontano che il furgoncino rosso non si è fermato dopo avermi colpito, e che una bambina è stata la prima a soccorrermi. Il suo nome è Giulia, abita vicino a casa mia.
Mi è venuta a trovare varie volte. Mi racconta sempre del “grande botto”, del mio grido strozzato e del mio sguardo da pesce rosso; sì, è così che mi chiama adesso: pesce rosso. Per mesi abbiamo giocato insieme a nomi, città, professioni, l’unico passatempo che avevo quando ero allettato in ospedale, e poi a casa.
Poi un giorno la mamma è uscita per una commissione, lasciandomi solo con la mia nuova amica e io le ho chiesto quello che non avevo mai avuto il coraggio di chiedere ai miei genitori:
- Giulia, mi aiuteresti a uscire in giardino?
- Ma, non penso che possiamo, aspettiamo che rientri tua madre; no?
- Per favore! Sei mia amica o no?
- Ok, non fare la faccia da pesce rosso però.
Giulia ha preso la sedia a rotelle nell’armadio e l’ha avvicinata al mio letto. Con uno sforzo incredibile sono riuscito a sedermi su quel trabiccolo, le mie gambe sembravano due stecchini tenuti insieme con la colla di pesce. Lei mi ha spinto fino al giardino; un raggio di sole ha baciato la mia fronte cinerea, per la prima volta dopo un periodo che pareva infinito. L’aria era frizzante, respiravo il profumo dei fiori e del cielo blu guarnito di nuvole di panna. La sedia si è piantata su un sasso e io sono caduto a faccia in avanti. Steli d’erba giganti si paravano davanti al mio viso. C’era anche una fila di formiche rosse enormi che sembravano non curarsi di me: stavano lavorando duramente per trascinare dei semi verso il formicaio. Era bello vederle: ognuna sapeva cosa fare, lo faceva bene, al meglio delle sue possibilità, e per questo sembrava felice. Forse il segreto della felicità era tutto lì.
Sono scoppiato a ridere insieme alla mia amica Giulia per la prima volta dopo il “grande botto”, come lo chiamava lei. Lacrime mi bagnavano gli occhi e annaffiavano le margherite.
Oggi è un bel giorno: sono finalmente ritornato in classe dai mie compagni. Baci, abbracci e risate.
La maestra ci chiede di descrivere in una frase cos’è la felicità per noi:
- Una playstation nuova al compleanno!
- Uno smartphone alla mia comunione!
- Un viaggio alle Maldive con la mia famiglia!
- Un vestito con gli strass!
Tocca a te, mi dice la maestra. Esito un attimo, poi le dico:
- La felicità è una formica rossa.
Del dopo ho delle fotografie nella testa molto chiare: la camera bianca, la puzza di disinfettante, il tubo in gola che mi faceva deglutire continuamente, la mamma e il papà con la mascherina. Non vedevo la loro bocca, ma dai loro occhi capivo che sorridevano con lo sguardo triste, come quando si dice una bugia per far piacere a qualcuno.
Mi raccontano che il furgoncino rosso non si è fermato dopo avermi colpito, e che una bambina è stata la prima a soccorrermi. Il suo nome è Giulia, abita vicino a casa mia.
Mi è venuta a trovare varie volte. Mi racconta sempre del “grande botto”, del mio grido strozzato e del mio sguardo da pesce rosso; sì, è così che mi chiama adesso: pesce rosso. Per mesi abbiamo giocato insieme a nomi, città, professioni, l’unico passatempo che avevo quando ero allettato in ospedale, e poi a casa.
Poi un giorno la mamma è uscita per una commissione, lasciandomi solo con la mia nuova amica e io le ho chiesto quello che non avevo mai avuto il coraggio di chiedere ai miei genitori:
- Giulia, mi aiuteresti a uscire in giardino?
- Ma, non penso che possiamo, aspettiamo che rientri tua madre; no?
- Per favore! Sei mia amica o no?
- Ok, non fare la faccia da pesce rosso però.
Giulia ha preso la sedia a rotelle nell’armadio e l’ha avvicinata al mio letto. Con uno sforzo incredibile sono riuscito a sedermi su quel trabiccolo, le mie gambe sembravano due stecchini tenuti insieme con la colla di pesce. Lei mi ha spinto fino al giardino; un raggio di sole ha baciato la mia fronte cinerea, per la prima volta dopo un periodo che pareva infinito. L’aria era frizzante, respiravo il profumo dei fiori e del cielo blu guarnito di nuvole di panna. La sedia si è piantata su un sasso e io sono caduto a faccia in avanti. Steli d’erba giganti si paravano davanti al mio viso. C’era anche una fila di formiche rosse enormi che sembravano non curarsi di me: stavano lavorando duramente per trascinare dei semi verso il formicaio. Era bello vederle: ognuna sapeva cosa fare, lo faceva bene, al meglio delle sue possibilità, e per questo sembrava felice. Forse il segreto della felicità era tutto lì.
Sono scoppiato a ridere insieme alla mia amica Giulia per la prima volta dopo il “grande botto”, come lo chiamava lei. Lacrime mi bagnavano gli occhi e annaffiavano le margherite.
Oggi è un bel giorno: sono finalmente ritornato in classe dai mie compagni. Baci, abbracci e risate.
La maestra ci chiede di descrivere in una frase cos’è la felicità per noi:
- Una playstation nuova al compleanno!
- Uno smartphone alla mia comunione!
- Un viaggio alle Maldive con la mia famiglia!
- Un vestito con gli strass!
Tocca a te, mi dice la maestra. Esito un attimo, poi le dico:
- La felicità è una formica rossa.