Il nostro addio- Live Dragon Fest 2016- Nicola Gambadoro
Inviato: domenica 2 ottobre 2016, 14:25
“Non esistono i draghi”.
Glielo dicevo sempre ogni volta che cercava di convincermi del contrario. Succedeva spesso quando dopo una giornata nei campi bevevamo insieme un boccale di birra, ma mio padre non voleva sentire ragioni e continuava a dire che lui una volta ne aveva visto uno. Io gli rispondevo che erano solo favole per bambini e a quel punto lui tirava fuori dalla tasca quel piccolo flauto annerito e spezzato.
“Se davvero non ci credi prova a suonare questo. Nel giro di pochi minuti ne vedrai arrivare uno dal cielo”.
Anche se non ci credevo non ho mai avuto il coraggio di farlo. Una volta lo portai addirittura alla bocca sfidandolo con gli occhi, ma il suo sorriso beffardo non si smorzò minimamente e quando glie lo porsi nuovamente lo rimise in tasca senza dire nulla.
Ripensai a quel momento la mia prima notte di guardia come arciere scelto della Cinta Sud. Avrei voluto lanciare in alto una freccia infuocata per fargli vedere dalla nostra piccola casa nelle campagne che ce l’avevo fatta, e lui sarebbe stato contento e fiero di me anche se era sempre stato più bravo coi silenzi che con le parole.
Quello che però rimase nel mio cuore fu solo il senso di colpa per averlo lasciato solo e vecchio nella nostra casa ormai in rovina per inseguire i miei sogni. Avrei dovuto leggere nei suoi occhi quello che stava per fare, adesso che dopo mia madre anche io lo lasciavo per un’altra vita. Ma un giorno di permesso dagli addestramenti, due settimane prima, ero tornato a casa e l’avevo ritrovato così, a terra, con un pugnale infisso nel petto in un lago di sangue ormai vecchio, divorato dalle larve e dalle mosche.
Scacciai via i ricordi e tirai fuori il flauto, lo portai alla bocca e soffiai con tutta la mia forza. Soffiai via tutto, i nostri silenzi, le nostre risate insieme, i sacrifici che fece per comprarmi quel primo arco sbilenco, l’addio che non ci demmo mai. Soffiai a pieni polmoni mentre la piccola nota stonata vibrava e le mura sotto i miei piedi iniziavano a tremare. Il cielo si squarciò di fronte ai miei occhi e lo vidi. Si avvicinò lentamente col suo volo sinuoso ed il terrore iniziò a montarmi dentro con la furia di una tempesta di ghiaccio.
“Al Drago! Al Drago!”
Le urla dei miei compagni fendevano il silenzio della notte insieme al rumore di centinaia di stivali d’acciaio e armature di soldati in corsa. Tutto intorno a me i fuochi di segnalazione si accendevano uno dopo l’altro mentre io restavo lì, immobile, con il flauto tra le labbra. Si avvicinò a me, maestoso e terrificante, fermandosi a mezz’aria a pochi passi dal mio volto mentre le frecce infuocate cominciavano a piovergli addosso e i miei compagni urlavano il mio nome sperando che mi togliessi di lì, che imbracciassi l’arco, che gli piantassi una freccia negli occhi, che facessi qualcosa, qualunque cosa…
Ma non feci nulla.
Lo guardai e lui guardò me. Mi persi nel verde iridescente dei suoi occhi, grandi quanto il rosone di un tempio, e lui bevve per un breve istante il misero castano dei miei. Capii subito cosa voleva. Tolsi il flauto annerito dalle labbra, lo spezzai e lo gettai giù dalle mura.
“Adesso sei libero” dissi con un filo di voce.” Salutamelo… e digli che presto ci rivedremo”.
Una tiepida lingua di fuoco lambì i miei capelli. Il Drago si voltò ed in un lampo volò via sparendo dietro i monti in un bagliore rosso come le fiamme che esalavano dalle sue fauci, mentre cadevo in ginocchio con il cuore che mi batteva nel petto come un tamburo da guerra.
Quello fu il primo e ultimo Drago mai visto nella nostra storia. Da allora, non ho più detto che qualcosa non esiste se prima non ho provato a cercarla.
Mai più.
Glielo dicevo sempre ogni volta che cercava di convincermi del contrario. Succedeva spesso quando dopo una giornata nei campi bevevamo insieme un boccale di birra, ma mio padre non voleva sentire ragioni e continuava a dire che lui una volta ne aveva visto uno. Io gli rispondevo che erano solo favole per bambini e a quel punto lui tirava fuori dalla tasca quel piccolo flauto annerito e spezzato.
“Se davvero non ci credi prova a suonare questo. Nel giro di pochi minuti ne vedrai arrivare uno dal cielo”.
Anche se non ci credevo non ho mai avuto il coraggio di farlo. Una volta lo portai addirittura alla bocca sfidandolo con gli occhi, ma il suo sorriso beffardo non si smorzò minimamente e quando glie lo porsi nuovamente lo rimise in tasca senza dire nulla.
Ripensai a quel momento la mia prima notte di guardia come arciere scelto della Cinta Sud. Avrei voluto lanciare in alto una freccia infuocata per fargli vedere dalla nostra piccola casa nelle campagne che ce l’avevo fatta, e lui sarebbe stato contento e fiero di me anche se era sempre stato più bravo coi silenzi che con le parole.
Quello che però rimase nel mio cuore fu solo il senso di colpa per averlo lasciato solo e vecchio nella nostra casa ormai in rovina per inseguire i miei sogni. Avrei dovuto leggere nei suoi occhi quello che stava per fare, adesso che dopo mia madre anche io lo lasciavo per un’altra vita. Ma un giorno di permesso dagli addestramenti, due settimane prima, ero tornato a casa e l’avevo ritrovato così, a terra, con un pugnale infisso nel petto in un lago di sangue ormai vecchio, divorato dalle larve e dalle mosche.
Scacciai via i ricordi e tirai fuori il flauto, lo portai alla bocca e soffiai con tutta la mia forza. Soffiai via tutto, i nostri silenzi, le nostre risate insieme, i sacrifici che fece per comprarmi quel primo arco sbilenco, l’addio che non ci demmo mai. Soffiai a pieni polmoni mentre la piccola nota stonata vibrava e le mura sotto i miei piedi iniziavano a tremare. Il cielo si squarciò di fronte ai miei occhi e lo vidi. Si avvicinò lentamente col suo volo sinuoso ed il terrore iniziò a montarmi dentro con la furia di una tempesta di ghiaccio.
“Al Drago! Al Drago!”
Le urla dei miei compagni fendevano il silenzio della notte insieme al rumore di centinaia di stivali d’acciaio e armature di soldati in corsa. Tutto intorno a me i fuochi di segnalazione si accendevano uno dopo l’altro mentre io restavo lì, immobile, con il flauto tra le labbra. Si avvicinò a me, maestoso e terrificante, fermandosi a mezz’aria a pochi passi dal mio volto mentre le frecce infuocate cominciavano a piovergli addosso e i miei compagni urlavano il mio nome sperando che mi togliessi di lì, che imbracciassi l’arco, che gli piantassi una freccia negli occhi, che facessi qualcosa, qualunque cosa…
Ma non feci nulla.
Lo guardai e lui guardò me. Mi persi nel verde iridescente dei suoi occhi, grandi quanto il rosone di un tempio, e lui bevve per un breve istante il misero castano dei miei. Capii subito cosa voleva. Tolsi il flauto annerito dalle labbra, lo spezzai e lo gettai giù dalle mura.
“Adesso sei libero” dissi con un filo di voce.” Salutamelo… e digli che presto ci rivedremo”.
Una tiepida lingua di fuoco lambì i miei capelli. Il Drago si voltò ed in un lampo volò via sparendo dietro i monti in un bagliore rosso come le fiamme che esalavano dalle sue fauci, mentre cadevo in ginocchio con il cuore che mi batteva nel petto come un tamburo da guerra.
Quello fu il primo e ultimo Drago mai visto nella nostra storia. Da allora, non ho più detto che qualcosa non esiste se prima non ho provato a cercarla.
Mai più.