[V] EDO
Inviato: lunedì 20 luglio 2015, 23:16
EDO
di Barbara Comeles
Conobbi Edo nel luglio del 2003. Era un’estate molto calda e quella mattina era particolarmente afosa.
Edo sarebbe mio padre. È il mio padre naturale. E basta.
Sono le nove del mattino. Questo autobus è troppo affollato. La stazione, scendo, non ce la faccio più, c’è puzza di sudore e io non sopporto gli odori sgradevoli. Mi sento circondata da questi olezzi che vogliono contaminarmi. Non posso lavarmi di nuovo, ho un appuntamento. Devo incontrare mio padre.
Mi sento inspiegabilmente colpevole.
Lo riconoscerò. Che stupida. Come puoi riconoscere una persona che non hai mai visto? Al telefono ha detto di avere una Smart grigia. Che auto è la Smart? Dio mio non capisco più nulla! Ma tu vedi se devo stare così di schifo per uno che non mi ha voluta e che mi vuole incontrare solo perché… Perché?
Non sono colpevole di nulla. Voglio capire perché ha abbandonato mia madre e me.
Non mi ero resa conto di quante Smart ci fossero in giro, mi fermo sulla strada. Gli ho dato appuntamento in un posto che lui conosce. Stare ferma qui mi fa sembrare una prostituta anche se sono le nove del mattino.
Ho messo la collana che aveva regalato a mia madre. Inconsciamente spero che se ne ricordi. Sto fantasticando. Devo smetterla.
Mamma non ha mai voluto dirmi il suo nome. Sapevo che parlarne le faceva male. Rimestare dolore, abbandono, le lacerava il cuore, la mente, il corpo. Quando credevo di aver metabolizzato l’abbandono ha detto: è giusto che tu sappia.
Rintracciarlo è stato semplice, decidere di chiamarlo difficile.
Pronto? Edo?
Chi parla?
Non so quanto tempo sono stata zitta. Troppo. Ho riattaccato.
Pronto? Edo?
Chi parla?
Sono la figlia di Marta, si ricorda?
Ha capito. Ci siamo scambiati poche telefonate come amanti clandestini, quelle necessarie per un incontro.
Una Smart si ferma. C’è un bar con dei tavoli esterni sotto un ombrellone. Ci sediamo.
Cosa prendi?
Un caffè.
Ho lo stomaco serrato.
Non vuoi mangiare qualcosa? Io non ho fatto colazione, prendo un cornetto e lo mangiamo insieme.
Restiamo lì fino a mezzogiorno. Ogni tanto risponde al telefono, è la moglie.
Sai dopo Marta non sono più riuscito ad avere una relazione stabile. Mia moglie è una brava donna ma mi ossessiona. Fortuna ci sono i ragazzi!
Due figli maschi, lo dice con orgoglio. Il suo sguardo è fisso su un punto indefinito davanti a lui. Distrattamente mi lancia un’occhiata, e arriva alla conclusione che sì, ho molti tratti della sua famiglia.
Mi chiede cosa faccio ed un sacco di cose insulse.
Quest’uomo non ha interesse per me. Se ne sta seduto in modo educato, mi parla ma non mi guarda mai, non mi chiede della mia vita, chi sono, perché l’ho cercato.
Sapevo che prima o poi sarebbe successo.
Solo questo ha detto, forse per far tacere la sua coscienza o per compiacere la mia.
E’ finita.
Edo, avrei voluto dirti come ci sente ad essere abbandonati, gridare tutto il mio dolore perché ancora una volta mi avevi dimenticata. Non me lo hai permesso. A che serve urlare? Tu non mi vuoi.
di Barbara Comeles
Conobbi Edo nel luglio del 2003. Era un’estate molto calda e quella mattina era particolarmente afosa.
Edo sarebbe mio padre. È il mio padre naturale. E basta.
Sono le nove del mattino. Questo autobus è troppo affollato. La stazione, scendo, non ce la faccio più, c’è puzza di sudore e io non sopporto gli odori sgradevoli. Mi sento circondata da questi olezzi che vogliono contaminarmi. Non posso lavarmi di nuovo, ho un appuntamento. Devo incontrare mio padre.
Mi sento inspiegabilmente colpevole.
Lo riconoscerò. Che stupida. Come puoi riconoscere una persona che non hai mai visto? Al telefono ha detto di avere una Smart grigia. Che auto è la Smart? Dio mio non capisco più nulla! Ma tu vedi se devo stare così di schifo per uno che non mi ha voluta e che mi vuole incontrare solo perché… Perché?
Non sono colpevole di nulla. Voglio capire perché ha abbandonato mia madre e me.
Non mi ero resa conto di quante Smart ci fossero in giro, mi fermo sulla strada. Gli ho dato appuntamento in un posto che lui conosce. Stare ferma qui mi fa sembrare una prostituta anche se sono le nove del mattino.
Ho messo la collana che aveva regalato a mia madre. Inconsciamente spero che se ne ricordi. Sto fantasticando. Devo smetterla.
Mamma non ha mai voluto dirmi il suo nome. Sapevo che parlarne le faceva male. Rimestare dolore, abbandono, le lacerava il cuore, la mente, il corpo. Quando credevo di aver metabolizzato l’abbandono ha detto: è giusto che tu sappia.
Rintracciarlo è stato semplice, decidere di chiamarlo difficile.
Pronto? Edo?
Chi parla?
Non so quanto tempo sono stata zitta. Troppo. Ho riattaccato.
Pronto? Edo?
Chi parla?
Sono la figlia di Marta, si ricorda?
Ha capito. Ci siamo scambiati poche telefonate come amanti clandestini, quelle necessarie per un incontro.
Una Smart si ferma. C’è un bar con dei tavoli esterni sotto un ombrellone. Ci sediamo.
Cosa prendi?
Un caffè.
Ho lo stomaco serrato.
Non vuoi mangiare qualcosa? Io non ho fatto colazione, prendo un cornetto e lo mangiamo insieme.
Restiamo lì fino a mezzogiorno. Ogni tanto risponde al telefono, è la moglie.
Sai dopo Marta non sono più riuscito ad avere una relazione stabile. Mia moglie è una brava donna ma mi ossessiona. Fortuna ci sono i ragazzi!
Due figli maschi, lo dice con orgoglio. Il suo sguardo è fisso su un punto indefinito davanti a lui. Distrattamente mi lancia un’occhiata, e arriva alla conclusione che sì, ho molti tratti della sua famiglia.
Mi chiede cosa faccio ed un sacco di cose insulse.
Quest’uomo non ha interesse per me. Se ne sta seduto in modo educato, mi parla ma non mi guarda mai, non mi chiede della mia vita, chi sono, perché l’ho cercato.
Sapevo che prima o poi sarebbe successo.
Solo questo ha detto, forse per far tacere la sua coscienza o per compiacere la mia.
E’ finita.
Edo, avrei voluto dirti come ci sente ad essere abbandonati, gridare tutto il mio dolore perché ancora una volta mi avevi dimenticata. Non me lo hai permesso. A che serve urlare? Tu non mi vuoi.