Commenti di Francesco Troccoli ai finalisti

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Commenti di Francesco Troccoli ai finalisti

Messaggio#1 » lunedì 12 dicembre 2016, 22:03

Ecco a voi i commenti di Francesco Troccoli. Noterete che nel rivolgersi agli autori mantiene il doppio genere... Non sapeva infatti chi avesse scritto cosa, ci ha tenuto a rimanere fino all'ultimo all'oscuro dell'identita degli autori per mantenere la massima neutralità. Le sue parole: Fosse stato per me ci sarebbero stati tre o quattro primi classificati, tre o quattro secondi e tre terzi. Il livello era mediamente alto. Per questo i giudizi sono tutti abbastanza positivi, e decidere è stato faticosissimo. E anche NB NB NB ho valutato NON avendo idea di chi abbia scritto cosa, rispettando l'anonimato con cui l'Antico mi ha spedito tutto e senza andare a sbirciare nel forum.

Punti di vista
Qual è il sogno che fa da elemento chiave per la decisione cruciale nel finale di questo racconto? Quello raccontato da un padre al figlio in una sola notte difficile, o un’intera narrazione di notti difficili di un’infanzia perduta fra le pieghe di un pigiama zuppo d’incubi? Mi piace interpretare come prevalente la seconda ipotesi. Ottima scelta, usare il corsivo, che ha la non trascurabile conseguenza di facilitare la lettura. L’emozionante incipit della narrazione del passato ci fa affacciare alla porta di una stanza da letto di un’infanzia triste. Seduto su quel letto, ci aspettiamo un padre valido, rassicurante, protettivo. E invece il suo sogno, raccontato al piccolo, è una stilettata malamente travestita da affetto: costruire la pace anche a costo della violenza. Appare un po’ forzata la scelta di fare di questo consiglio paterno un “sogno”. Un marchio indelebile, comunque, che resterà impresso nel protagonista. Il pregio del racconto è, a mio avviso, la ricerca sull’origine della violenza umana, che non è innata, sembra suggerire l’autrice/autore, ma conseguenza di un vissuto esistenziale di rapporti patogeni, come quello con questo padre pericolosamente ambiguo, apparentemente umano, ma in realtà glaciale. Al punto di fare di suo figlio un genocida. Benché strumentale a descrivere la devastazione che si è così prodotta nel protagonista, risulta forse un po’ troppo facile la scivolata nel catastrofismo nucleare del finale.


Lo spettacolo più grande
Il “sogno” è in questo racconto una visione esistenziale, un’aspirazione che guida ostinatamente la storia di una vita intera, purtroppo senza mai conseguire la realizzazione.
Coinvolgente la modalità narrativa: il ciclico ripetersi dell’incontro con il circense sempre giovane a scandire le fasi di una vita che passa in fretta, il tendone rosso sempre sullo sfondo, generano un’atmosfera alla Buzzati. Un’atmosfera onirica. La scrittura sobria ha un suono efficace, elegante; il ritmo della narrazione genera sospensione e attesa. Nel finale, attraverso un capovolgimento del punto di vista, l’apparente fallimento della vita si trasforma in un successo “patriarcale”. Ma l’autrice/autore ha l’abilità di non svelarci se questo sia anche il vissuto emotivo del protagonista. “Ninuccio si guarda intorno mentre si leva l’applauso”, ma non è dato sapere se la sua realizzazione d’identità umana (padre, nonno, patriarca) sia davvero tale da compensare la sua eternamente insoddisfatta aspirazione a “viaggiare, stupire il mondo, ricevere applausi”. Mi aspettavo forse un finale più all’altezza delle attese ingenerate, e mi piace pensare che Ninuccio, anche sul letto di morte, continuerà a cercare quel tendone e a tentare di tenere la sedia in equilibrio sul naso. Magari ci riuscirà proprio in un sogno, e così morirà felice.


Utopia di verdure in salsa astratta
Saper descrivere un sogno non è facile: il linguaggio del sogno, anche se preciso, è irrazionale e fantasioso. Ma l’autrice/autore ci è riuscita/o in modo credibile. Il metodo narrativo in prima persona, il cosiddetto “flusso di coscienza” si trasforma qui in un “flusso del non cosciente”, l’io-sognante, efficace nel descrivere le emozioni attraverso aggettivi, colori (il “giallo Van Gogh”, di cui proprio in questi giorni si parla per una ricerca scientifica sulla riduzione chimica del Cromo esavalente), prodotti DOP, sensazioni che sono gustative solo in apparenza. Persino l’aroma di fantascienza resta sullo sfondo, ma sa farsi avvertire. Tutto concorre a creare un sogno bonario, accogliente, che invece si trasforma in un incubo in un solo istante. A produrre la metamorfosi è un piccolo insetto immondo. “Finto come tutto il resto”. Forse è a questa idea di finzione che il sognante si ribella? Perché sa che i sogni contengono la verità. Sia quando è intuita che, al contrario, quando è negata. È l’istante in cui “la verzura sintetica si anima” e tutto si risolve infine in una pulsione d’annullamento “vegetale” (virgolettato mio, stavolta) che ingloba a fa sparire ogni cosa, probabilmente persino il sognatore/la sognatrice. Come conseguenza, nel piano della realtà, la vita cambia per sempre. E dietro il banale mutamento dello stile di vita, rifiuto neo-ambientalista del surgelato e del surrogato industriali, si nasconde il recupero di un rapporto con una madre che “se n’è andata”, in modo forse drammatico, di certo ancora irrisolto fino a questo sogno, che si configura, in ultima analisi, come l’elaborazione di una separazione. Una nota sul titolo: ben riuscito, intrigante. Dal sapore pittorico, invita all’assaggio.


Nave colonia IT-152
Non c’è che dire, è un bel racconto di fantascienza. In poche righe c’è lo spaccato di un’intera società organizzata, con le sue usanze, tabù e leggi, all’interno di una flotta coloniale in fuga attraverso l’universo. Classi sociali, avveniristiche regole non scritte sul rapporto fra i sessi, ferree leggi sulla proliferazione della specie, dispositivi bio-elettronici corporei più o meno post-umani; tutto è appena tratteggiato in modo da suggerire un intero universo immaginario che riporta a classici come Robert Heinlein o il meno noto Edwin Tubb, e forse anche all’insuperata serie TV “Battlestar Galactica”. Intrigante il modo in cui l’autrice/autore sviluppa l’immagine futura del rapporto fra generi: viene davvero voglia di vederla, questa “echantocheiros di ventitré anni”, centimane dal nome biblico che lavora con droni d’attacco come fossero caramelle, in preda a una crisi di gelosia quasi maschile per il suo compagno-escort, invece così femmineo nella macchinazione seduttiva. A valle di tanta fervida fantasia, però, l’inserimento del “chip di ipnosi” sembra una forzatura delle ultime righe per restare, a dire il vero un po’ a fatica, nei termini del tema della competizione. Fra l’altro, rompendo l’incanto di qualcosa che sembrava aver orgogliosamente superato i millenni: la spontaneità dell’amore. Ho la sensazione che l’autrice/autore non fosse realmente convinta/o fino in fondo di voler ridurre il così intenso futuristico rapporto fra sessi a innamoramento programmabile, indotto da un chip “oniroide”, e che vi si sia sentita/o costretta/o da esigenze di copione.


Gli altri sognan se stessi
Il titolo di questo racconto è una promessa mantenuta. Proprio come la canzone di Faber, parla di pazzia. Malattia mentale. Ricovero. Il tema del sogno è usato quindi come veicolo ed espressione di tutto questo. Più che cambiarla, il sogno, in questo caso, la vita della protagonista la marchia, all’esordio di un cammino che si preannuncia tragico ed è fatto, come insegnano i manuali di medicina, di coazione a ripetere. Non me ne voglia l’autrice/autore, ma ho un serio problema con l’intero filone narrativo (e in genere culturale) che trova interessante raccontare acriticamente le manifestazioni della malattia mentale, inevitabilmente e negativamente “spettacolari”. Trovo più interessante costruirvi una storia, senza puntare sulla malattia in sé come “la” storia. Perché tutte le malattie mentali si assomigliano e il rischio è perdere in originalità. Come dichiarò una celebre ex schizofrenica (Johanne Greenberg), che divenne scrittrice e raccontò il lungo processo di cura che la portò alla guarigione, “non c’è nulla di romantico nella malattia mentale”. Questo è uno di quei racconti che, per capirli, li devi leggere e rileggere, e comunque ti resta un’incertezza di fondo. Non è detto che questo sia un male, soprattutto quando si parla si sogni, purché, naturalmente, l’autrice/autore non si compiaccia di un simile criptismo. Nulla da dire sulla scrittura, che si avvale di figure efficaci, drastiche, com’è ovvio, visto il tema. Un alone di malattia e morte irradia su ogni dettaglio, fin dal principio. Fino a mascherare l’appartenenza al genere, che diventa sottile, subalterna al dramma. Un racconto che ti lascia che ancora tremi, e storci la bocca, per il sapore amaro.


Sogni da uomo
Anche in questo caso il sogno non è sognato, ma è un’aspirazione esistenziale, combinazione di vocazione alchemica e ricerca d’identità capace di superare discriminazioni di genere tanto radicate da persistere persino in un mondo “fantasy”. Più che un racconto autosufficiente, sembra l’inizio di una storia molto più lunga. La narrazione indugia forse un po’ troppo a lungo sui dettagli della tempesta, che in un’opera dal respiro narrativo così breve risultano ridondanti. Ma sarebbe un buon incipit per una narrazione più complessa e strutturata. Il punto di forza sono i personaggi: la protagonista, la cui tenacia, tutta femminile, assume la forma di una resilienza nella sabbia, e il vecchio menagramo, che si fa detestare amabilmente sin dalla prima imprecazione. Venendo all’ambientazione, tutto è accennato, tratteggiato, tecnicamente bene, ma senza riuscire a catturare subito il lettore (questo lettore, almeno) nella costruzione di questo particolare mondo immaginario. Non perché non ve ne sia la capacità; tutt’altro: a mancare sembra siano le battute di testo. Il marito perduto, la città del sapere, la carovana, il deserto di vetro: tutto mira a creare un’attesa che è stata interrotta sul nascere da un finale prematuro nel quale i tanti fili, volutamente, non si riannodano. Pretendo un seguito!


Sogni carsici
Il sogno come strumento e manifestazione di chiaroveggenza o divinazione è una credenza che proviene dai primordi della maggior parte delle culture. Farne la leva di una narrazione di genere non è per la verità molto originale, ma il contesto drammatico di questa storia funziona da agente di compensazione, spostando l’attenzione su tutt’altro. Quel che ho apprezzato di più è l’idea che la ricerca della verità è un’attività di puro pensiero, e può permettersi di sopportare le più severe limitazioni funzionali del corpo. Il protagonista non soccombe alla tragedia grazie alla capacità di sognare. Una capacità che addirittura gli consente di amplificare sensibilità e intelligenza. L’identità umana risiede insomma nel pensiero e ha in sé tutte le potenzialità per compensare le carenze del corpo. Mi hanno colpito i passaggi nel finale. “Infiniti cammini nascosti dal sonno”. “Il cuore dell’umanità è l’orizzonte delle mie notti”. L’autrice/autore mi perdonerà se mi spingo a ipotizzare che con queste belle sentenze alludesse a molto di più di quanto abbia acconsentito a svelare di sé attraverso questo racconto.


Messaggio nella bottiglia
Un altro racconto che punta sul secondo significato della parola “sogno” nella lingua italiana. Inizio a pensare che con i non pochi autori di questa scelta sarebbe interessante approfondire le motivazioni. Mi piace, di questa storia, la freschezza dal ritmo lento, l’assenza di fretta nel concludere, forse dovuta alla timidezza un po’ ingenua del protagonista. Sullo sfondo dell’incontro fra la razionalità scientifica occidentale (il fisico collaboratore del SETI) e l’irrazionalità del lontano oriente (la ricercatrice, per di più appassionata dell’oracolo cinese, tanto amato da PKD) in una pizzeria, ma anche nella trama de “La svastica del sole” (sotto forma di occupazione nipponica di gran parte degli USA), il fulcro della storia è un banale intenso incontro fra un ragazzo e una ragazza. E allora, invece di preoccuparsi della fine del mondo o, forse, proprio in vista di una simile eventualità, meglio perderla, questa verginità. Ti viene da chiederti se il messaggio del titolo sia quello che gli alieni hanno inviato verso lontanissime stelle, o quello che Remo (nome, si noti, molto più innocente di Romolo) ha inviato verso il non meno lontano pianeta “Donna”. Io, questo gran giorno di festa, lo avrei intitolato “La fine del mondo”.


L’albero dove i padri sognano i figli
La donna ideale è destinata a restare tale. Solo nei sogni la puoi incontrare. Certo, se la perdi anche lì… la depressione è assicurata. Cosa ci dice davvero questo racconto? Più che un sogno, l’incontro con questa Jessica Rabbit onirica sembra una storia vissuta davvero. Con il suo corredo di mistero ed eccitazione, cui fanno seguito, con gli anni, il crollo e la delusione. Con il disvelarsi tardivo e impietoso di una verità a suo tempo non colta con la dovuta tempestività, e tutta l’illusione che ha ingenerato per la durata di una vita intera. È difficile capire il linguaggio dei sogni, e non a caso il nostro protagonista non ce la fa. È un linguaggio criptico, fatto di immagini da decodificare, trasformare, interpretare. Proprio come in un bel film di Herzog. Non è un caso se nel finale di “Dove sognano le formiche verdi” un uomo parla una lingua incomprensibile. È l’ultimo aborigeno sulla faccia della Terra, a parlare quella lingua, perché tutti gli altri membri della tribù sono ormai morti per mano della cosiddetta civiltà dei bianchi. E così quell’uomo è rimasto solo; il suo monologo è destinato a restare inascoltato. Eppure lui continua a parlare. Ma con chi? Sembra quasi il protagonista del racconto: continua, per tutta la vita, a desiderare una chimera. E se ne rende conto quando è ormai tardi. Avrei forse descritto meno in dettaglio la trama del film, e usato in modo più sorprendente e funzionale al tema la bellissima citazione: sognare i figli per farli nascere. Ma forse, per farlo, anziché scrivere un racconto sarebbe stato necessario girare un altro film.


Mai più
In un celebre racconto cinese, Zhuangzi sognò di essere una farfalla che volava. Al risveglio però era confuso e si domandò come stabilire se fosse davvero Zhuangzi quando aveva appena finito di sognare di essere una farfalla, o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere Zhuangzi. Il dubbio di essere protagonisti di un sogno è un tema molto diffuso all’interno di tutte le declinazioni del fantastico, e in questo racconto è portato al parossismo. Il racconto è scritto bene, le immagini sono intense. Curioso che, in ogni stadio, la “trasformazione” progressiva proceda per lo più per incubi e mai attraverso sogni “positivi”. Apprezzabile la maniera di far emergere solo gradualmente la situazione sognata e, soprattutto, la “natura” del sognante, così come il cambiamento totale di giudizio e vissuto emotivo da una situazione onirica alla successiva. Nel complesso devo però dire che questa scelta narrativa, benché coerente con il tema per ben quattro volte (potenzialmente, anzi, infinite volte, suggerisce il finale), non mi ha convinto. Forse, una volta deciso di ricorrere a una simile struttura narrativa, avrei cercato, fra le varie situazioni, un collante più efficace, che conferisse maggiore unitarietà. A mio avviso, la forma, la struttura del racconto, ha reso troppo secondaria la narrazione, la storia. Sembra più un (ben riuscito) esercizio di stile.


Come Kurt Cobain
Questo racconto interpreta il tema in modo coerente. Il maggior pregio è il modo in cui il sogno è stato inserito. Sembra parte del flusso della narrazione, ma ti accorgi subito che è “lui”. E sei contento che Carlo e Sara tornino, per qualche istante, a “vivere”. Perché il protagonista se li era persi, li aveva annullati, per sopportare il dolore della tragica separazione da “Romeo e Giulietta”. La scienza ci ha rivelato che i sogni durano in effetti pochissimo. Intere storie, ridondanti di immagini, dettagli, persone, situazioni, dialoghi a volte complessi, sono condensate in una durata reale di una manciata di secondi. Eppure, quegli istanti sono sufficienti a imprimere una direzione diversa a tutta una vita. Magari non lasciando nessuna traccia materiale visibile, ma trasformando radicalmente il nostro assetto interno. Sognare fa parte della nostra evoluzione, individuale e collettiva; spesso, persino quando il sogno contiene negazioni, alterazioni, deformazioni, ci aiuta a capire chi siamo, e chi è (o è stato) chi ci sta o (ci è stato) accanto. Questo racconto descrive tutto questo in modo convincente. Il protagonista era avviato all’auto-distruzione. A quel punto arriva il sogno. Il primo treno se li era portati via. Il secondo, il sogno, li fa tornare a vivere. Tutti e tre. Un solo appunto: il dialogo onirico un po’ troppo razionale e realistico.



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