Il paese bolla delle assurdità

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SilviaCasabianca
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Il paese bolla delle assurdità

Messaggio#1 » lunedì 8 febbraio 2021, 0:59

Erano ormai mesi che non tornavo a casa e, stranamente così succede, nella coda finale della mia permanenza all’estero, cominciavo a sentire la necessità di un rientro.

Non ero sicuro di voler tornare e metter radici. E' pur sempre un paese di bigotti e mediocri. Succede che stando via un po’ di tempo e respirando nuovi ambienti, acquisisci gli strumenti per analizzare il luogo da cui provieni, quello dove sei cresciuto, dove ti sei incazzato, dove hai speso pomeriggi mortali, dove alla fine hai finito per fuggire, anzi, evadere, come gli uccelli fanno dalle gabbie e gli uomini dalle galere. E finisci per guardarlo con tenerezza.


Camminavo in una strada secondaria, trascinando sui sanpietrini la valigia. Cercavo invano di non far riecheggiare il rumore molesto delle ruote che impattano sul cammino. Impossibile alle tre del pomeriggio di un paesino del Sud. Decisi di afferrarlo per la maniglia. Riempii di aria le guance e incordai le vene del braccio per alzarlo da terra.

Sei mesi a Londra, pensavo, mi avrebbero fatto evolvere, e invece poi c’è quella nostalgia che chiama.
Ti dici: wow, posso tornare e poi andarmene di nuovo. Non appena mi sentirò stritolato dal muro romano che circonda il paesino, non appena mia madre comincerà a stirarmi troppe camice, non appena gli occhi dei corvi addosso cominceranno a diventare insostenibili, così come le domande sul futuro, basterà riempire di nuovo questa valigia e via.

«ciao Francesco! Sempre gracilino eh! A Londra non c’erano palestre?»
Mi salutò così mio cugino di secondo grado, con un sorriso a trentadue denti, anzi trentuno, perché quell’incisivo che gli si era rotto all’età di 15 anni durante una scazzottata davanti al bar d’Antonio, non se l’era mai fatto rimettere a posto.
Sorrideva lui, negligente. I bullizzati si sa, crescono rompendo i coglioni agli altri con battute idiote.
Beh, fatto sta che io non avevo voglia di beghe, dunque abbozzai un sorriso a mezza bocca, da telenovelas brasiliana e andai dritto.

Quel trolley pesava come un incudine. Mi accorsi che sotto la suola della scarpa qualcosa ingombrava. Mi guardai sotto al tallone, da cui penzolava un foglio di giornale grigiastro, con la foto di qualcuno di familiare. In un primo momento, d’istinto, mi venne da procedere oltre. Poi, però, mi fermai incuriosito. Quella foto, davvero brutta a dire il vero, ritraeva Maria Rosaria Amaniti, conosciuta da tutti in paese come “Zia Mimì”.

Ottantenne con il vizio della chirurgia estetica compulsiva, la Mimì non era certo un soggetto da quadro di Renoir, ma in quella foto appariva davvero orrenda:
Un’espressione incazzata, con le sopracciglia ricurve, gli occhi gonfi e affossati fra zigomi di plastica. Una fronte stirata, labbra simili a una vagina di asina, storte in una smorfia a metà fra il terrore e il disgusto. Per non parlare dei capelli: cotonati in avanti in boccoli radi, come laniccia di polvere che spunta da sotto i mobili.
Riuscii a leggere solo un pezzo di frase:

ne danno il lieto annuncio...

Aggrottai la fronte. Pensai: oh perbacco, con chi si sposa la vecchia Zia Mimì?

Mi chinai a raccogliere quel foglio accartocciato. Con l’occasione poggiai il trolley a terra per far riposare i bicipiti. Srotolai la carta con attenzione.

Finalmente è venuta a mancare al tedio dei suoi cari,
Maria Rosaria Amaniti,
conosciuta da tutti come Zia Mimì.
Ne danno il lieto annuncio i figli. i fratelli, i nipoti e i nemici tutti.


Alla sorpresa seguì un rantolo di risata soffocata.
Tutti sapevano in paese che non era benvoluta dalla sua famiglia. Ricordo anche di uno scandalo datato una decina di anni fa in cui la vecchia Zia Mimì si rifiutò di aiutare il fratello in rovina finanziaria, lei, vedova di un colonnello di nobili estrazioni, e direttrice di un ufficio postale.
Lessi meglio l’annuncio alla ricerca di qualche piccola informazione in più ma l’unica cosa che ne colsi è che proprio quel pomeriggio si sarebbero svolti i funerali nella chiesa di San Filippo in Altura. Quando uno dice la fortuna! Non avevo proprio niente da fare quel pomeriggio.

Le quattro del pomeriggio arrivarono presto.
Dopo una salitina scoscesa raggiunsi la piccola chiesetta, circondata di una moltitudine di gente, quasi tutto il paese, a colorare con i loro vestiti i colori opachi della campagna mediterranea.

I nipoti di Zia Mimì, vestiti con i colori più sgargianti erano impegnati a sfogliare allegri delle vecchie foto di famiglia. Vicino a mio cugino di secondo grado Francesco, invece, c’erano i fratelli, vestiti di bianco come fossero a un battesimo. Da dietro la chiesa, apparivano i figli di Zia Mimì: Anna, Barbara e Agostino, acchitati di gioielli e strass, gilet perlati e scarpe lucide.
Barbara, la grande, innalzava in alto una bottiglia di Berlucchi, mentre Anna, la secondogenita distribuiva bicchieri dal collo alto. Agostino, d’altro canto, elargiva sorrisi illuminati e ringraziava delle condoglianze che riceveva, con educazione e gioia rotonda.

Presto vibrò nell’aria calda lo squillo delle trombe, e quando mi voltai verso la strada mi accorsi della presenza della storica banda del paese: c’erano i quattro antichi fondatori, tutti con la panza, tutti sopra i sessanta. C’era anche qualche nuova promessa della musica, come Faustino, il nipote di Anselmo il macellaio, il quale stringeva con delicata innocenza un flauto traverso fra le sottili dita e camminava sbilenco, a più di un metro dietro rispetto ai capisaldi della band.
Agostino sì sbrigo a distribuire gli ultimi bicchieri, fino a giungere anche da me. Mi fece l’occhiolino e con caloroso affetto mi invito ad unirmi a loro, invece di restarmene in disparte.

L'orchestra di provincia annunciava imponente l’arrivo del feretro: una bara di pino realizzata da Enrico Fiemmetti, ex falegname, già scarso all’epoca, finito in comunità per schizofrenia vent’anni orsono. Il classico drappo era sostituito da un lenzuolo nero di una stoffa raccapricciante.
Il cadavere di Zia Mimì, a suo modo celebrato, era finalmente giunto a presenziare alla sua festa. Entrò come entrerebbe una celebrità, applaudito da tutti.

Venne adagiato vicino all’altare e il prete si avvicinò per invitare gli astanti a salutare l’anima della perita.
Tutti i parenti più prossimi si avvicinarono al feretro aperto e cominciarono ad inscenare i loro personalissimi “omaggi” al defunto.

Suo fratello Paolo lanciò una rosa nera ai piedi della strega, mentre con la mancina lanciò, subito a seguire, un cinquantino sgualcito, con sprezzo e con sdegno.
Barbara tirò fuori da una busta un vestito color corallo, mostrò ai presenti l’etichetta che informava della sottomarca da grandi magazzini e lo gettò, con lo stesso risentimento del fratello, ai piedi del drappo funebre.
Andarono avanti nella rappresentazione teatrale il resto dei parenti più prossimi, i nipoti, i cugini, persino i vicini di casa: chi lanciava fogli, chi libri, chi cappelli, fin quando non arrivò il turno di Agostino.

Agostino stringeva nella mano destra una pergamena arrotolata e si poteva notare, in maniera palpabile, il nervosismo con cui le dita seguivano la linea rotonda del cilindro, senza prestare affatto attenzione a non sgualcire l’oggetto.

Lanciò uno sguardo obliquo al feretro, presso cui rallentò il passo, poi si avvicinò con decisione all’altare, posizionandosi di fronte al leggio.
In quel momento, i brusii che accompagnavano quell’insolita cerimonia, fino a quel momento carica di empietà e sacralità, cessarono quasi di colpo.
Come quando entri in un campo di ulivi dominato da una colonia di cicale ed esse si acquietano quasi all’unisono.
Restando sul fondo, Appoggiai le scapole alla navata laterale, approfittando del fresco del marmo.
Agostino avvicinò la mano con la pergamena al leggio, ma non la srotolò per leggere a gran voce il contenuto all’interno. La tenne così in mano, limitandosi a poggiare il polso nel bordo del leggio, come un generale pronto a preparare il discorso di guerra alla popolazione.

«Vorrei ringraziare tutti per esser qui, numerosi e calorosi, a compiangere la purtroppo tardiva scomparsa della detestata Zia Mimì»

Cominciava così il biasimo funebre di Agostino Zelli, trentacinque anni, faccia un po’ da bamboccione, un po' da vendicatore. Gli occhietti color zaffiro brillavano incastonati in un volto pallido e tondo. La pelle liscia, sana, perfetta, come quella barba nera che ricopriva geometricamente mento e mandibole. Tutto fitto, soprattutto il baffo.
Una decina di centimetri sotto la barba troneggiava senza ritegno un papillon color celeste, imperlato dalle luci fredde della chiesa.

«Questo altro non è che». Srotolò la pergamena e la mostrò alla platea «un test del QI»

Il pubblico cominciò a rumoreggiare.

«Mia zia mi fece fare questo test e mi portò il risultato per convincermi che le mie ambizioni non fossero consone alle mie doti..» abbassò la testa senza mai abbassare gli occhi «come potete vedere in questo quiz risulto avere un quoziente intellettivo di ottanta» fece schioccare la lingua del palato, «praticamente un ritardato»

Ci furono delle trattenute risatine mentre Agostino annuiva.

«Perché? Vi starete chiedendo» continuò l’arringa, «ebbene il mio grande sogno è sempre stato quello di...beh qualcuno di voi già lo sa...fare l’astronauta». In quel momento gli brillarono gli occhi e istintivamente andarono puntare una delle vetrate della chiesa, come a voler guardare fuori, nello spazio infinito.
«non so, l’idea di viaggiare così lontano senza bisogno di Lsd o cocaina come fanno tanti miei coetanei, mi ha sempre affascinato. L’idea di visitare luoghi deserti, senza nessuno che ti prende in giro perché hai la faccia da bambacione, senza tua madre che annaffia con dedizione il tuo senso di colpa, mi ha sempre elettrizzato!».

Fu la signora Agata Gerri, edicolante di mezz’età a farmi notare un particolare. Avvicinò le labbra alle mie orecchie senza distogliere lo sguardo da Agostino.
«gli sorride il cuore». Mi voltai, incrociai il suo sguardo, sebbene dovetti abbassare il mento per raggiungere la sua minuta altezza. Lei mi concesse uno sguardo di complicità ma poi tornò a guardare verso l’altare così anch’io, per non esser da meno, tornai a ridare attenzione alla scena principale.

Agostino nel frattempo stava continuando la sua arringa.
«Mia madre era un misto di egoismo, megalomania e tirchieria e…» strinse le labbra spingendo quella superiore contro quella inferiore come nel tentativo di spremere la muscolatura facciale per ottenere la parola più adatta.
«crudeltà» Il tono divenne rotondo, al sapor di sentenza.
La chiesa si fece silente, era quasi possibile avvertire un riverbero di sottofondo, come la coda di un leggero eco che risuonava nelle arcate superiori del sacro edificio.
Nessuno mormorò, nessuno si mosse.
Fui l’unico a girarmi. Mi guardai intorno e vidi volti commossi, occhi lucidi.
Un Amen.

Rimasi in quei secondi di silenzio, poi all’improvviso un pensiero bucò le mie tempie: c’è ancora Agata Gerri? In un lampo silenzioso di tempo la vidi. Era la, un metro da me e mi guardava con impudica complicità, mentre il cristo in Croce la guardava furente.
Mai prima di allora mi ero accorta di quanto Agata quei quarant’anni li portasse molto bene. Che fosse merito di quei riccioli biondi e indomabili, o di quello sguardo risoluto, che indicava un’intelligenza sprecata...per essere un’edicolante di un paesino del mezzogiorno.

Eppure quel che accadde è che quello sguardo complice si trasformò in un rimprovero. Forse fraintese, forse non comprese fin troppo bene. Secondo me certe donne di paese sanno leggere le menti come si faceva in tempi arcaici.
Ahi maledetta inutile edicolante, mi stava distraendo da quel momento di cesura storica importante per quel paese! Mi arrabbiai, lei però non c’era quasi più. Si vedeva solo la punta del naso e quando Zio Arnaldo smetteva di dondolarsi fastidiosamente avanti e dietro, persino uno scintillio dello sguardo, ma nulla di più.

Tornai a guardare di fronte a me. Agostino si stava avvicinando a quel corpo finalmente innocente. Ripristinò così i ruoli. Non era lui il protagonista, non era Agata Gerri, era il feretro, una donna che non c’è più e pure c’è, nel suo aver creato tutto questo. Purché se ne parli, qualcuno direbbe.

Qualcosa dal basso mi tirò la giacca. Ninetto, mio nipote, sbucava come un fungo da una massa di capelli neri.
«Bentornato!»
«Bentornato» ripetei sorridendo, «nel paese bolla delle assurdità.»

Cercai ancora Agata ma non era più lì. La ritrovai qualche metro più in là, accanto a suo marito.
Ultima modifica di SilviaCasabianca il mercoledì 10 febbraio 2021, 22:25, modificato 3 volte in totale.



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Michael Dag
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Re: Il paese bolla delle assurdità

Messaggio#2 » martedì 9 febbraio 2021, 12:22

:) veramente simpatico e originale. Un funerale dove tutti somno contenti perché il morto è odiato da tutti..bella.
anche l'inizio del racconto è ben fatto, lui tona a casa dopo mesi e non sa nulla, scopre il fatto per caso…buono.

non ho capito però la scena finale, l'edicolante eccetera...

sullo stile hai da lavorare, perché a volte usi una sorta di pensiero diretto, altre un narratore onnisciente, altre volte invece ti rivolgi direttamente al lettore. Devi imparare a controllare questa cosa, focalizzare UN SOLO pdv e mantenere quello.

Altra cosa, i dialoghi.
a volte usi "questo" altre volte <<questo>>
Invece dovresti usare sempre «questo».
Per mettere le capitolari su word fai Alt+174 Alt+175
trucchetto: scrivi tutto il pezzo usando <questo> SOLO UNA VOLTA, non due. Poi alla fine fai trova-sostituisci

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SilviaCasabianca
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Re: Il paese bolla delle assurdità

Messaggio#3 » mercoledì 10 febbraio 2021, 21:33

Ciao MIchael!!

Innanzi tutto ti ringrazio di cuore per avermi letto e per i suggerimenti che mi hai dato.
Ti rispondo, dopodiché vado subito ad sistemare secondo i tuoi giustissimi appunti.

L'unica cosa su cui sono un pò confusa è il discorso del Pdv. Premesso che sicuramente io debba imparare a controllarlo, potresti spiegarmi in questo testo dove senti che il pdv diventa multiplo?

Il narratore è colui che vive la storia, quindi abbiamo un racconto in Prima Persona con un Personaggio che narra il suo punto di vista, in quale punto finisco per essere onnisciente? Forse per il fatto che sa tutto, conoscendo a menadito i pettegolezzi del paesino? Quanto al rivolgersi al lettore, è voluto. Dici che non è coerente con il resto? Grazie se mi risponderai.

Quanto al finale...si, mi rendo conto che forse è reso poco, comunque l'edicolante è solo un'ulteriore sotto trama per confermare le doppie morali che si creano nei paesini, tutto quello che si vuole spesso scinde in maniera netta da quello che si finisce per vivere all'esterno.

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GiulianoCannoletta
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Re: Il paese bolla delle assurdità

Messaggio#4 » sabato 13 febbraio 2021, 20:57

Ciao Silvia, piacere di averti letto! Il racconto mi è piaciuto, soprattutto la prima parte dove fornisci dettagli molto vividi e una buona introspezione. Il finale ho dovuto rileggerlo, in prima battuta non avevo colto la malizia di Agata, ero ancora concentrato sul discorso del figlio.

Ti segnalo qualche dettaglio, per lo più di forma.

E' pur sempre un paese di bigotti e mediocri. => È

Cercavo invano di non far riecheggiare il rumore molesto delle ruote che impattano sul cammino. => qui forse metterei "impattavano"

«ciao Francesco! Sempre gracilino eh! A Londra non c’erano palestre?» => in generale ti consiglio di ricontrollare la punteggiatura dei dialoghi, ci sono alcune dimenticanze di maiuscole o punti, soprattutto quando le frasi sono intermezzate da azioni

Da dietro la chiesa, apparivano i figli di Zia Mimì: Anna, Barbara e Agostino, acchitati di gioielli e strass, gilet perlati e scarpe lucide. => qui sono dovuto andare a controllare sul dizionario :) dovrebbe essere acchittati con la doppia

Suo fratello Paolo lanciò una rosa nera ai piedi della strega, mentre con la mancina lanciò, subito a seguire, un cinquantino sgualcito, con sprezzo e con sdegno. => qui eviterei la ripetizione lanciò


In generale il testo funziona e riesci a trasmettere molto bene le sensazioni contrastanti di nostalgia/fastidio del migrante di rientro.
Brava, a rileggerci presto!

Giuliano
“Uno scrittore argentino che ama molto la boxe mi diceva che in quella lotta che si instaura fra un testo appassionante e il suo lettore, il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere per knock out.”
Julio Cortázar

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Il Dottore
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Re: Il paese bolla delle assurdità

Messaggio#5 » mercoledì 20 ottobre 2021, 12:52

Ciao, Silvia

Vedo che il racconto è fermo da febbraio.
Hai intenzione di rimetterci mano?
Aspetto notizie per una settimana e, se non mi dici niente, lo archivio
Sono pronto a vivisezionare i vostri racconti... soffriranno, ma sarà per il vostro bene!

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