Parole

 

Lanciavo sguardi svogliati a Giorgio, il protagonista della serata. Si era portato appresso trenta copie del suo romanzo, fiducioso.
«Altri cinque minuti» disse il barista.
«Ne sono passati già quaranta» gli ricordò Elisa. Diede una gomitata a suo marito Giorgio, come se servisse a migliorare le cose. Gliene avrei data una anch’io, stufo com’ero di seguirlo alle sue presentazioni, come un cagnolino al guinzaglio.
«Vabbè» tentennò Giorgio, agitato neanche stesse parlando a uno stadio colmo di festanti, «magari iniziamo.»
Buttai giù il vino e il gestore abbassò le luci. Il microfono di Giorgio fischiava ed Elisa, scuotendo la testa, si sedette accanto a me. Le versai del vino, che tracannò in un’unica sorsata. Il barista, ansioso, guardava verso la strada che costeggiava l’osteria, ma ormai era chiaro che non sarebbe arrivato più nessuno. Gli passai la bottiglia di vino, e sembrò guardarmi con sollievo.
Dopo ventuno minuti di agonia, Giorgio chiuse il libro e la bocca. Aveva finalmente smesso di leggere le frasi traballanti con cui aveva descritto la fine del pianeta Terra, caduto per mano di alieni invasori e guerre globali e virus pandemici e zombie affamati.
Mi fischiavano le orecchie e temevo di essere diventato sordo. Il microfono aveva gracchiato per tutto il tempo, e Giorgio aveva infierito, aggiungendo alle sue parole goffe e grossolane, colpi di tosse che avevano giustiziato definitivamente il nostro udito.
Lo guardai mentre gesticolava, ingoiando pillole di saliva grosse come noci. Cercai di sturarmi le orecchie, ma era come se avessi avuto un tappo. Elisa mi imitò, e anche il barista, per quanto cercasse di non dare a vedere quanto scarse fossero le sue apparecchiature.
 
Giorgio non è molto bravo, e pecca sia di fantasia che di stile. Ha idee orribili, sconnesse e imbarazzanti, e scrive come un bambino delle elementari. Le sue parole sono sgraziate, rozze e pesanti, le usa a sproposito e non sa gestire il ritmo, o la musicalità. Si era stampato il suo romanzo a sue spese, e casa sua c’erano più copie del libro che foto di famiglia, e si sbatteva come un forsennato per venderlo. Ma persino io ed Elisa, dopo tanti insuccessi, ci eravamo stancati di supportarlo: non c’erano speranze.
 
Iniziai a preoccuparmi: il fischio era sempre più intenso. Elisa mi disse qualcosa, la bocca spalancata e gli occhi confusi, ma la sua voce era silenziosa, muta, vuota. Il gestore mi guardò allarmato, mentre Giorgio, cercando di sistemare il microfono, faceva cadere la pila di libri. Sembrava non essersi accorto di nulla.
 
Nella confusione, quando il barista mi toccò la spalla e mi indicò la finestra, sobbalzai, ma mi ero già accorto di tutto. Lasciammo Giorgio sotterrato dalle copie del suo romanzo, e uscimmo, lentamente. Attorno al bar, cumuli di macerie erano tutto ciò che restava di quel piccolo centro rurale. Case, negozi, edifici erano ora polvere e frantumi. A schiacciarle, come un gigante che calpesta una formica, parole colossali si stagliavano fino al cielo.
 
Alieno verde.
Fucile al plasma.
Zombie.
Astronave interstellare.
Morì tra le mie braccia.
Era tutto un sogno.
Poi solo il buio.
 
Questi e mille altri gruppi di parole troneggiavano sul paese, come nuovi edifici regnanti, ovunque posassimo lo sguardo. Di ogni colore e forma, sembravano scolpite nella pietra, nel ferro, nella plastica, nel legno.
Storditi dal fischio, camminavamo come gladiatori in un’arena colma di leoni. Solo detriti, ruderi, rovine attorni a noi, seppelliti dalla parole assurdamente vomitate dalla fantasia di Giorgio.
 
* * *
 
A quasi un anno di distanza, trascorso a vagabondare in questo nuovo mondo, non abbiamo trovato un solo sopravvissuto. Solo quelle parole, che svettano come monoliti, spuntate come funghi.
E Giorgio è stanco. Esausto. Ha già minacciato di farlo più volte. Gli abbiamo tappato la bocca, ma non vogliamo ucciderlo. In fondo, siamo stanchi anche noi. E la parola ‘fine’, in questo probabile ultimo giorno della Terra, non tarderà ad arrivare.

 

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