Nero in Normandia

Nero in Normandia

Un racconto condotto con maestria da Raffaele Marra in cui l’invisibile si manifesta nelle assurde categorizzazioni che fanno di due uomini dei nemici.

 
Mi chiamo Johnny e cammino, mi guardo intorno, stringo i denti e il fucile. Cerco i miei, vedo il nemico. Sento il freddo della pioggia e il calore dei fuochi intorno. Odo i lamenti, le urla in ogni lingua, i boati sempre più vicini.
Un casolare diroccato. Entro. E scoppia l’inferno.
L’esplosione è assordante, da farmi salire in gola il cuore impazzito. L’ultima cosa che vedo sono i muri intorno che si contraggono in un abbraccio che mi imprigiona.
Il rombo si dilegua lentamente lasciandomi nel silenzio. E nel buio assoluto.
Ma almeno sono vivo. Credo.
Non so quanto spazio ci sia qui intorno, ma ho paura di muovermi. E poi…
Un rumore.
Dannazione! È proprio davanti a me.
Stringo il fucile e lo punto verso l’ignoto. Dal rumore capisco che anche colui che mi sta davanti fa lo stesso. Mi chiedo se abbia la stessa mia arma o uno di quei fottuti mitra tedeschi.
Lo sento ansimare. Vorrei tanto capire se è uno dei miei o un nemico.
Muove un passo, verso destra. Che rumore fanno gli stivali tedeschi?
Tira su con il naso, poi riesce a controllare il respiro.
Anche lui, come me, non sa se sparare o attendere. Non sa se siamo nemici. Forse mi ha preso per un tedesco. O forse è Sean di Chicago, o il giovane Dick di Boston, o magari Charlie, quel rompipalle di texano.
Il fatto è che non vedo niente di niente, e ho paura. Mi accorgo che sto masticando chewing-gum. Lo raccolgo con la lingua e lo nascondo lentamente dietro un molare. Mi sfilo l’elmetto e aspetto la sua mossa.
Lui sospira, poi si gratta il capo.
Qui dentro le voci dei soldati non arrivano più: ci hanno dati per spacciati e se ne sono andati. Sia i miei che i suoi, ammesso che vi sia differenza.
O forse siamo morti per davvero e questo è l’inferno peggiore che poteva capitarci.
Stringo gli occhi nel buio e riesco a intravedere una sagoma. Che forma hanno i tedeschi? Apro la bocca per parlargli, per farla finita. Cinquanta e cinquanta: se è un mio amico, almeno moriremo parlando. Se non lo è, beh, mi libererà da questo inferno prima di lui.
Richiudo immediatamente la bocca quando lo sento muoversi. Le mie mani si stringono sull’arma pronta a far fuoco. L’uomo sospira stanco, poi sento un fruscio di stoffa. Si è seduto.
Allungo una mano dietro di me e riconosco uno spuntone di muro che dovrebbe reggere. Mi siedo anch’io: almeno queste gambe la smetteranno di tremare.
Ora è di nuovo silenzio. Non so perché, ma ho l’impressione che mi stia guardando dritto negli occhi.
Respira, un respiro che potrebbe benissimo essere tedesco. Ma a volte si blocca e comprendo che in quegli istanti gli passano per la mente i miei stessi pensieri.
Non resisto più. Cinquanta e cinquanta.
Prendo un fiammifero dalla giacca e lo sfrego. Un solo lampo, per vedere i suoi occhi.
In un istante leggo la paura, la stessa che ho io. Ma non sono riuscito a vedere la sua divisa.
Un secondo lampo, molto più rapido, un rumore secco e un dolore al cuore.
Cado nella polvere e chiudo gli occhi, tanto nel buio non mi serviranno.
E no. Non ero morto. Non ancora.

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Raffaele Marra

Ingegnere, insegnante di matematica, musicista per hobby, scrive spaziando tra vari generi, con una preferenza per le storie caratterizzate da finali a sorpresa. Suoi racconti sono pubblicati da Delos Books e Florestano Edizioni. Del 2014 è il suo primo romanzo, “Dove non arrivano gli occhi”, edito da Edigrafema. Una vittoria per lui a Minuti Contati.


  3 commenti su “Nero in Normandia

  1. Livio Gambarini
    Livio Gambarini
    12 settembre 2015 at 07:36

    Un racconto claustrofobico in prima persona, che si regge sulla tensione portata dall’assenza di luce e sull’incalzare martellante di domande sull’Altro che non trovano risposte.
    È un racconto filosoficamente interessante. È bello seguire l’interiorità del soldato che, alle prese con un estraneo in un luogo immerso nelle tenebre, cerchi di capire se l’altro sia un amico o un nemico. È anche bello vedere come quella domanda cambi poco per volta, fino a una sorta di apertura finale di fiducia – che al protagonista costerà cara. Tuttavia, le cose che non funzionano sono numerose, anche a prescindere dal fatto che il tema trattato sia la cecità più che l’invisibile (Ma leggendo gli altri racconti in gara, vedo che l’autore è in buona compagnia).
    Tra il mostrato e il pensato trovo che l’autore abbia meno problemi sul secondo; quindi vediamo di ragionare sul primo. La parte concitata all’inizio è suddivisa in frasi brevi e spezzate, che è un’ottima intuizione; però la lettura non è fluida e l’azione è tutto tranne che vivida.
    Uno dei motivi sono i verbi percettivi. “vedo il nemico” “sento il freddo della pioggia” “odo i lamenti” e via dicendo: creano una patina, una distanza narrativa tra l’io narrante e il lettore. Eliminandoli, si eliminerà anche questa distanza, rendendo più efficace il mostrato. Esempio: “Il nemico è davanti a me” “la pioggia gelida mi scorre sulla pelle” “gli ordini dei soldati si confondono con lamenti e urla in ogni lingua” ecc…
    Anche la scansione delle frasi è subottimale: il racconto tende a non andare a capo nei punti giusti. Un esempio su tutti: “Un casolare diroccato. Entro. E scoppia l’inferno.” Meglio andare a capo prima di “Scoppia l’inferno” (e togliere del tutto la E). Un autore che sappia padroneggiare una valida chiave di suddivisione in unità narrative potrà regolare il flusso della sua scrittura in modo più accurato; un consiglio comune è di isolare in periodi le scene dotate di continuità interna, che sia di spazio/tempo o di atmosfera.
    Un’ultima annotazione sulla frase chiusura: quell’ “E” iniziale fa sfumare una scena potenzialmente commuovente in un’osservazione distaccata, quasi cinica. Secondo me l’emozione ne risente parecchio. Trovo che tutta l’ultima riga sia superflua, ma che quella prima lettera sia proprio una zavorra.
    Complice la fretta, penso che questo racconto non abbia realizzato la sua piena potenzialità. Tuttavia l’autore ha delle potenzialità. Ad maiora!

  2. Raffaele Marra
    Raffaele Marra
    12 settembre 2015 at 16:21

    Grazie per il commento e soprattutto per i preziosi consigli. L’unica cosa che non mi trova d’accordo è il fatto che il tema trattato non sia l’invisibile ma la cecità: nel mio racconto credo che l’invisibile sia davvero protagonista, inteso come impossibilità di vedere e non come cecità, che è ben diversa come concetto. Il protagonista soffre proprio dell’impossibilità di vedere e quindi scoprire l’identità di chi ha di fronte, una impossibilità dovuta non alla cecità ma al fatto che pagherebbe con la vita la possibilità di vedere. Tanto è vero che tutto finisce nel momento in cui l’invisibile si rende visibile con quel fiammifero acceso, che è tutt’altro che cecità. L’invisibile, allo stesso tempo, era il dramma e la salvezza di questo uomo. A presto.

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