Perdere la battaglia con la quotidianità, rifugiarsi nella fantasia, smarrirsi. La via delle sirene: un percorso che nella società attuale è sempre più facile da percorrere.
Quando si dice che uno ha la testa tra le nuvole non si pensa mai a dove resta il corpo. Beh, al solito posto, naturalmente. Insomma, più o meno.
«Ahi!» esclamò Osvaldo, spostando Il Signore degli Anelli che gli era appena caduto sul naso e strofinandosi il medesimo ancora un po’ dolorante. «È l’ultima volta che leggo un tomo più grosso della mia testa mentre sono a letto.»
Come al solito, perdendosi via in paesaggi fantastici, Valdo si distraeva e talvolta appisolava, pronto a sognare Frodo, Gandalf e tutti gli altri. Gli capitava con ogni libro – sempre più spesso, anche mentre non leggeva – ma uno così era una bella botta. Specie sul naso.
Si alzò, bevve un sorso d’acqua e andò in bagno a controllarsi la faccia.
«Niente male» solo un po’ di rossore e niente più. Soddisfatto, tornò a letto. O per lo meno, formulò quest’intento prima di notare un’ombra in salotto. Afferrato lo spazzolone per la schiena, s’incamminò nel folto della vegetazione. Il felino era lì a guardarlo, restituendo un’espressione perplessa, accucciato tra un ficus e un tronchetto della felicità.
«Beh?» fece il soriano.
«Poldo, sei tu?»
«No, sono Shere Khan» agitò nervosamente la coda, balzando sull’altipiano della poltrona a fiori.
Valdo guadò il tappeto per raggiungerlo. «Non è carino parlarmi così, sai… e poi, da quand’è che parli?».
«Da “beh”, direi.»
Scuotendosi tutto, come un cane uscito dall’acqua, ogni cosa tornò a posto.
Eccolo lì, Valdo, in piedi di fronte alla poltrona, con Poldo che miagolava ancora, confuso. Guardando dietro di sé, notò la foresta di piante in vaso, il tappeto attraversato come fosse un fiume – aveva anche formato un “onda”, forse provocata dalla sua goffaggine o dai giochi di Poldo – mentre in mano stringeva ancora lo spazzolone a mo’ di sciabola. Insomma, tutto normale.
«Ah, sono in salotto. Bene.»
A Poldo sfuggì un ultimo miagolio, poi si acciambellò per dormire.
L’indomani era di riposo, così Valdo uscì per far compere, ma era sovrappensiero, e senza neppure rendersene conto fece la strada a cui era abituato ogni mattina per raggiungere l’ufficio.
«Accidenti, non è di qua che dovevo passare! Va beh, ormai è tardi…»
Una banda di ragazzini gli corse di fianco, superandolo sfrecciando. Valdo si gettò di lato, facendosi radente il muro dove batté la testa.
«Ahio!»
Uno dei teppisti si voltò, sull’occhio sinistro portava una benda nera, e mentre domandava: «Tutto a posto, signore?» il suo destriero scalpitò nervoso. Gli altri, al trotto, si avvicinarono circondandoli a semicerchio, visto che il muro bloccava ancora le spalle di Valdo.
«Tutto a posto, davvero» mormorò sperando che si allontanassero.
«È sicuro?» chiese di nuovo il bandito, mostrando scintillanti denti di metallo.
Valdo scosse il capo, come la sera precedente. «Sì, andatevene, andatevene» ma questa volta non funzionò. «Andatevene, andatevene» insistette, scivolando lungo il muro.
Parcheggiate le biciclette, i ragazzini si avvicinarono all’ambulanza. Un bambino con l’apparecchio e un occhio nero disse ai paramedici che il signore strano ripeteva sempre le stesse parole, come un disco rotto.
E Valdo, mentre col pensiero fantasticava di mille avventure, si era proprio rotto. Il suo corpo ricordava e percorreva i sentieri del quotidiano; la via da casa all’ufficio, o dal bagno al salotto. Quei cortocircuiti tra la memoria del corpo e della mente, Valdo li trovava divertenti, e mai credeva di smarrirsi per sempre. Invece eccolo lì, sulla via dell’ufficio, la foresta dei briganti. Per sempre.